sexta-feira, 11 de junho de 2010

Tra pictura e poesis


Boccaccio, tra pictura e poesis[1]


a Haroldo De Campos, il miglior fabbro


Già la Poetica di Aristotele affrontava i rapporti profondi tra musica, poesia e pittura. L’Ars poetica di Orazio proponeva la somiglianza tra pittura e poesia, nel famoso dettato dell’ut pictura poesis (la cui lettura verrà successivamente approfondita), molte volte ripreso e interpretato probabilmente in maniera eccessivamente canonizzante e schematica. Dante sanciva la correlazione tra musica e poesia (nel Convivio): “la Musica trae a sé li spiriti umani.. sì che quasi cessano da ogni operazione”[2]. Nella modernità Rimbaud e Baudelaire vedevano l’unità dell’universo emblematicamente riflessa nelle correspondances immaginative e poetiche.
Il titolo dato a questa conferenza è “Il Decameron tra pictura e poeesis”. Perché non è stato usato il più canonico “ut pictura poesis”? Ut può essere tradotto con come, o anche al pari di: un paragone, dunque, un’equiparazione; tra, invece, vuol sottolineare un punto di vista unico, una posizione che necessariamente deve essere adottata nella lettura. Si tratta di una scelta fra due (o più) alternative che il lettore è forzato a tener presenti nella rilettura di qualsiasi testo. Tanto più appariranno alternative nel caso di un classico: le letture possibili del Decameron sono virtualmente infinite, proprio perché è il lettore (al pari dell’esecutore di una composizione) che dovrà scegliere il tempo, l’enfasi, la “messa in scena”, il colore, l’insieme dell’esecuzione. La presente proposta di lettura suggerisce proprio l’esistenza di un agonismo, un conflitto possibile fra poesia e pittura. Il termine paragone usato nel sec. XV da Leonardo da Vinci[3] enfatizza la concretezza di una contrapposizione, di una vera e propria lotta. Individuare questa tensione nella lettura può essere produttivo per la lettura ed è formalmente pertinente. Sono del resto proprio questi due aggettivi – produttivo e pertinente – che possono costituisre la base per una interpretazione del testo letterario, nel senso di un’etica della lettura, che unisca una preoccupazione con la “materialità del testo”, nel senso che gli avrebbe dato Roland Barthes e degli autori post strutturalisti, con la preoccupazione, anch’essa di ispirazione meta letteraria (o decostruzionista), di individuare elementi della rappresentazione di una ipotetica scena originale della scrittura, in ogni singolo testo.
Il termine etica della lettura è già stato usato da J. Hillis Miller in un testo straordinario, ma legato al valore della lettura come assoluto[4]. In precedenti testi io stesso ho proposto di usare il termine etica della lettura nella maniera seguente: “rivendicare – paradossalmente – alla critica letteraria la trattazione aggiornata del tema dell’etica, poiché l’insieme dei testi (filosofici o religiosi) possono essere letti in quanto testi e l’etica (nella e della lettura) può indicare la conquista di spazi sempre maggiori di libertà interpretativa. Un testo, in definitiva, può essere letto partendo da almeno due prospettive radicalmente diverse: una lettura nell’ambito del suo contesto (le sue connessioni intertestuali, fondamentalmente e, naturalmente, il suo rapporto con il contesto storico e sociologico) e una seconda lettura, in rapporto a quella che si potrebbe definire la problematica della libertà interpretativa: qualcosa che lo stesso testo autorizza (implicita o esplicitamente)[5].
Ut pictura poesis è, in verità, una mezza frase espurgata da un testo famoso Orazio[6], la Ars poetica, il cui titolo originale era Epistula ad Pisones. Due sono i brani in quel testo che toccano da vicino la famosa questione del paragone tra pittura e poesia. L’ut pictura poesis appare nei versi 361-2, a cui se ne può aggiungere un altro, altrettanto emblematico, anche se meno famoso[7]

Poesia é como pintura; uma te cativa mais, se te deténs mais perto; outra, se te pões mais longe; esta prefere a penumbra; aquela quererá ser contemplada em plena luz, porque não teme o olhar penetrante do crítico; essa agradou uma vez; essa outra, dez vezes repetida, agradará sempre (corsivo mio). [8]

É impossibile non notare, nel paragone messo a punto da Orazio, elementi a favore della pittura, una propensione veramente esplicita: questa, infatti, non teme la luce ne lo sguardo del critico, per cui riuscirà sempre gradita, ciò che non avviene – evidentemente - per la poesia. Orazio parla di poesia, ma possiamo presupporre che ne parli come per il termine tedesco Dichtung (poesia, letteratura o, letteralmente: densità, condensazione). E certamente il concetto di poesia comprende quello di letteratura, ovvero il testo scritto che abbia dignità letteraria (oppure che dimostri densità).

La seconda citazione è la seguente:

As ações ou se representam em cena ou se narram. Quando recebidas pelos ouvidos, causam emoção mais fraca do que quando, apresentadas à fidelidade dos olhos, o espectador mesmo as testemunha..[9].

La frase originale in latino è: “et quae ipse sibi tradit spectator”. Si potrebbe tradurre “[le azioni] recepite all’udito causano un‘emozione più debole rispetto a quelle che lo spettatore-testimonio vede direttamente, con i propri occhi” [“che lo spettatore ha presenti a se stesso”, da spectator la cui etimologia rimonta a specchio, secondo il dizionario di G. Devoto][10]
Lo spettatore è evidentemente uno spettatore oculare, cioè uno che ha visto e per questo sa e può rappresentare i fatti (res), può citarli, testimoniarli. Il ruolo dello sguardo, è tipico per una cultura che sullo sguardo basa la sua comprensione del mondo, come si vedrà.
Com’è naturale, nell’insieme del testo di Orazio come retroscena ci sono i fatti, le azioni (acta). La letteratura e l’arte sono viste come mimesi della realtà, prima viene la natura, poi il linguaggio:

“A natureza molda-nos primeiramente por dentro para todas as vicissitudes; ela nos alegra ou impele à cólera, ou prostra em terra, agoniados, ao peso da aflição; depois é que interpreta pela linguagem as emoções da alma”[11]

Inoltre Orazio afferma (v. 309) “Ottenuta la materia, le parole seguiranno spontaneamente”), secondo una frase sentenziale, che cita testualmente Catone.
Dunque, Orazio segue qui la dottrina essenzialista platonica, in cui atti, fatti ed emozioni costituiscono l’aspetto fondamentale, l’essenza delle cose (un’essenza che rimanderebbe alla teoria della caverna platonica, ben conosciuta), mentre il testo risulta essere solo una conseguenza, un’assenza di riferimento e quindi di verità. Le parole scaturirebbero da sole, orfane. Ciò non valorizza affatto l’ispirazione poetica. Le parole vengono dopo le cose e sono chiamate a rispecchiarle fedelmente, secondo il principio della mimesi .

Secondo il critico italiano poco conformista Mario Praz, che molto si è occupato di poesia e pittura, nella frase citata di Orazio si è spesso sopravvalutata l’esistenza di un conflitto fra pittura e letteratura (o pittura e poesia):

“Dois lugares comuns, um de Horácio, o outro de Simonides de Cós, vêm desfrutando indiscutível autoridade há séculos: a expressão ut pictura poesis, da Ars poética, que foi interpretada como um preceito, embora o poeta intentasse apenas dizer que, como certas pinturas, alguns certos poemas agradam uma única vez, ao passo que outros resistem a leituras repetrtidas e a exame crítico minucioso; e um comentário, atribuído por Plutarco a Simonides de Cós, no sentido de ser a pintura poesia muda e a poesia uma pintura falante. [12]

In effetti Praz aveva aggiunto un’osservazione a proposito del prevalere della vista sull’ascolto o, posteriormente, la lettura:

Si tratta di “Uma vista de olhos [que remonta] a uma antiga tradição, à descrição do escudo de Aquiles feita por Homero convencer-nos-á facilmente de que a poesia e pintura têm marchado constantemente de mãoes dadas, numa fraterna emulação de metas e meios de expressão. (ib.)

Praz cita in questo testo sia Orazio che Simonide: si tratta, in quest’ultimo caso, dello stesso Simonide di Creo, a cui viene attribuita l’invenzione della mnemotecnica, o arte della memoria. Inoltre Praz mette in risalto l’importanza dello sguardo nella tradizione greca e classica in generale. A questo proposito, ci sono osservazioni dello storico italiano Arnaldo Momigliano, sulla contrapposizione tra la cultura greca, basata sullo sguardo, e la cultura ebraica, basata, invece, sull’ascolto[13]. Su questo tema, di importanza decisiva, Momigliano cita i teologi Bultmann, Booman e Georg von Rad, che partono tutti da un punto di vista teologico e “cristiano”. Momigliano, partendo dal punto di vista della tradizione ebraica, li accusa di essere parziali e di voler delimitare la tradizione culturale ebraica o il pensiero greco. A prescindere da questa garbata polemica (erano gli anni inmediatamente successivi all’antisemitismo nazista), l’interesse oggi è legato alla contrapposizione fra la coppia di termini visione/ sguardo e ascolto/lettura, che ripoduce un dibattito contemporaneo, cioè quello fra oralità e scrittura, far essenzialismo platonico e una visione che testualista. Proprio a questo proposito, il filosofo Jacques Derrida ha battezzato il termine logocentrismo, ripreso in Brasile da Jeanne-Marie Gagnebin, realizzando una lettura del Fedro di Platone, a cui si arriverà fra poco). Il Decameron, pertanto, può essere preso in considerazione proprio come manifestazione nel tempo di questo dibattito fra oralità e scrittura, in un’epoca crucial, che è quella della fondazione della letteratura italiana e europea.
Si può, in una prima conclusione, essere d’accordo con Mario Praz che il testo di Orazio tratta delle arti in genere (pittura e poesia-letteratura, in particolare), come arti sorelle e mette in luce lo scrittore e il poeta su determinati accorgimenti, regole e norme da tenere presenti. Nello stesso testo, Orazio rimpiange la funzione trasformatrice (mistica? poetica?) della letteratura-poesia, richiamando il ruolo di Orfeo (v. 391) che domava tigri e i leoni. Lo scrittore latino cita gli oracoli che si pronunciavano in versi e che mostravano il cammino della vita e si appella al ruolo di spettatore-testimone oculare dello scrittore. Cioè va al di là di questa mera enumerazione, poiché stabilisce un legame fra letteratura e trasformazione del mondo, un altro tema molto attuale. Nella citazione famosa, però, non si può negare che propenda più dalla parte della pittura che da quella della letteratura, anche se si tratta di una mera sfumatura.
È singolare che nel Fedro di Platone si trovino elementi comuni rispetto all’argomentazione di Orazio. È nel Fedro che Platone attribuisce l’invenzione della scrittura a un dio egiziano (contraddicendo la mitologia greca che individuava in Ermete o Palamede i creatori di questa nuova tecnica).

SOCRATE : C’ é un aspetto strano che in realtà accomuna scrittura e pittura. Le immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono solennemente. Lo stesso vale pure per i discorsi: potresti avere l’ impressione che parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti che hanno espresso, con l’ intenzione di capirlo, essi danno una sola risposta e sempre la stessa.

Apparentemente, quindi, per Platone sono sia la pittura che la scrittura accomunate in un giudizio sommario e totalmente negativo. I discorsi, cioè i testi scritti sono monocordi, univochi e non dialogici. Viene poi la famosa citazione di una visione negativa. I personaggi di questa scena originale, prodotto della fantasia di Platone, sono il dio egiziono Teuth/ Toth (dio della giustizia e degli inferi) e il faraone-dio Thamus:

Questa scienza, o re, disse Theut, renderà gli Egiziani più sapienti e più adatti a ricordare, perchè questo è un rimedio giovevole e alla memoria e alla dottrina. E il re disse: "O artificiosissimo Theut, altri è abile a generare le arti, altri a giudicare qual vantaggio o qual danno può derivare a chi sarà per servirsene. Ed ora tu, come padre delle lettere, nella tua benevolenza per loro hai affermato il contrario di ciò che possono. Esse infatti, col dispensare dall'esercizio della memoria, produrranno l'oblìo nell'anima di coloro che le abbiano apprese, come quelli che, confidando nello scritto, ricorderanno per via di questi segni esteriori, non da sè, per un loro sforzo interiore. Tu dunque hai trovato un rimedio giovevole non già per la memoria, ma per richiamare alla mente. E d'altro lato tu offri ai discenti l'apparenza, non la verità della sapienza, perchè quando essi avranno letto tante cose senz'alcun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pure avendo un gran fondo d'ignoranza, e saranno insopportabili nei rapporti sociali, perchè possederanno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza."

Ciò che conta per Platone è un concetto astratto, filosofico e, quindi, extratestuale della verità e della realtà. La scrittura è presentata come un rimedio, un farmaco (da qui il ragionamento di Deirrida in La farmacia di Platone) che è più facile associare alla morte che alla sapienza e al progresso. La scrittura, per il re egiziano (e per Platone) va contro la memoria (quell’arte della memoria di cui è considerato mitico iniziatore Simonide, citato da Plutarco per una frase sul rapporto fra pittura e poesia). Verità e realtà si fondono, come afferma questo brano dello stesso Fedro:

E’ così perchè bisogna avere il coraggio di dire la verità , specialmente quando si parla di verità. Infatti, la realtà vera, che non ha colore nè forma e non si può toccare, che può essere contemplata soltanto dal nocchiero dell’ anima , cioè l’ intelletto[14]

È legittimo pensare che un’altra famosa frase di Orazio, a sua volta una citazione di Catone – “una volta ottenuta la materia le parole vengono da sé”, rispecchi proprio la visione essenzialista del filosofo greco Platone: ciò che conta non è il testo, ma le idee che lo originano, che il testo può cercare di rispecchiare, o alle quali il testo può provare ad avvicinarsi tramite la reminiscenza. Questa visione, però sottovaluta il testo, poiché non è il testo (per Platone) che rispecchia l‘anima, la verità, la realtà vera (termine da lui usato nella citazione in esame). L’accesso all’essenza è solo dei sapienti e la contemplazione di una verità al di là della realtà prospetta una “visione” e un’”immagine” dell’intelletto, più vicine all’essenza che non il testo e la voce.

Il rapporto fra pittura e letteratura si è sviluppato successivamente, in sordina prima e poi via via sempre più in superficie, fino a sfociare in una nuova polemica aperta nel Rinascimento, l’epoca che ha affermato la prospettiva, cioè una visione nuova del mondo, una nuova visione della realtà e, quindi, anche del testo. Leonardo, a proposito del paragone, il rapporto fra le due arti, descrive un vero e proprio conflitto:

Tal proportione è dalla immaginatione a l’effetto qual’è da l’ombra al corpo ombroso. E la medesima proportione è dalla poesia alla pittura, perché la poesia pon le sue cose nella immaginatione de le lettere e la pittura le dà realmente fori de l’occhio, dal qual occhio riceve le similitudini non altrimente che s’elle fussino natturali, e poesia le dà sanza essa similitudine, e non passano alla impresiva per la via della virtù vissiva come la pittura. [15]

Con la vittoria della prospettiva, che mostra una pittura più realista della scrittura, che rispecchia naturalmente il mondo, Leonardo potrà affermare la supremazia della pittura. Marino (si veda in Praz, op. cit.) farà una pittura in versi. Sarà infine Lessing (Lacoonte [cioè dell’interpretazione del dolore, contro l’interpretazione di Winckelman che equipara Lacoonte e Sofocle]) che nel ‘700 metterà in luce alcune differenze, enfatizzando che la pittura e la scultura danno enfasi allo spazio, mentre la poesia sottolinea il tempo.
Che il conflitto nasconda un altro problema, cioè quello del rapporto fra oralità e scrittura, diviene evidente dall’esame della storia della mnemotecnica, cioè l’invenzione dell’arte della memoria, attribuita a Simonide, autore della seguente frase (secondo Plutarco, già citato): la pittura è poesia muta e la poesia è pittura parlante[16]. La tecnica con cui Simonide inventa l’arte della memoria utilizza proprio le immagini, associandole direttamente a luoghi e persone. È dopo la realizzazione di un terremoto che ha fatto crollare un edificio (una catastrofe, un rovescio della sorte) che, secondo il mito, Simonide sarebbe riuscito a ricostruire i nomi dei morti, permettendo la loro sepoltura e la realizzazione di un lutto adeguato. Simonide, significativamente, difende la poesia contro la pittura (muta). “Infatti penso che se la memoria visiva era cosi' buona – dice Cicerone riportando l’episodio - , poteva usarla come aiuto per ricordare anche altre cose.”
Ciò che è importante sottolineare è che la tensione fra pittura e poesia è più interessante per la problematica che apre – alcune delle domande sono: le arti sono traducibili, senza perdite? Esiste una gerarchia delle vocazioni artistiche – che per una risoluzione definitiva del conflitto. Inoltre, pensare che ci sia un legme fra rapporto ra pittura e letteratura e oralità e scrittura potrebbe essere interessante per gli sviluppi futuri, proprio nella lettura di aspetti del Decameron di G. Boccaccio. Di fatto, nel corso della storia si può constatare un’oscillazione e un’alternanza nella gerarchia fra le due arti, con una certa prevalenza della pittura (nello stesso Orazio, secondo quanto si è visto).
Seguendo il buon senso, pittura, letteratura e musica sono arti legate fra di loro e tutte rappresentano il mondo, in una mimesi prefigurata da Atristotele. Occorre però tracciare una differenza fra l’oggetto da indagare (le varie arti) e il metodo dell’indagazione. Lo stesso sistema interpretativo, tramite il quale noi leggiamo questo problema – così come tutti gli altri problemi – è legato al rapporto far scrittura e oralità, cioè partecipa della competizione e, quindi, potrebbe essere influenzato nel conflitto fra pittura e letteratura. Si tratta in fondo di un problema analogo a quello della fisica del sec. XX, che doveva tener conto nella misurazione di un esperimento dell’intervento esterno del ricercatore, e la modifica nella realtà dell’esperimento che questo portava. Un aspetto certamente inevitabile. Il fatto è, dunque, che tutte le arti (musica, pittura, letteratura, ecc.) vengono studiate tramite modelli interpretativi che provengono dal mondo della scrittura e i cui concetti sono ancorati nella tradizione letteraria. Quando i modelli interpretativi includono modelli di oralità (per es. nella tradizione ebraica, in quella tradizione mistica e nella psicanalisi), è evidente che gli stessi modelli sono legati a un particolare rapporto del binomio oralità–scrittura, dunque sono parziali.
Un esempio calzante potrebbe essere quello dell’interpretazione dei sogni “raccontati” da Sigmund Freud. Noi li conosciamo solamente tramite la loro rappresentazione per iscritto, non avremmo avuto altro accesso al loro contenuto, e il contenuto è solo rapportabile al testo scritto che li contiene. In questo caso, per es., il postulato di Platone cadrebbe: qual’è la “verità vera” che sta dietro ai sogni di Freud, al di là di una interpretazione, che Freud presenta dei sogni stessi e una interpretazione di Lacan o di Anzieu o nostra che, ultimi, interpretiamo i sogni già interpretati e reinterpretati da altri? Non è un caso che Freud afferma i suoi quattro principi, nel cap. VI della sua Interpretazione dei sogni e cioè: condensazione, dislocamento, rappresentabilità e elaborazione secondaria (o distorsione), principi del tutto letterari. Il sogno in se, possiamo dire, non esiste. Deve essere scritto per cominciare ad esistere (ed essere interpretato). Così l’idea non esiste senza il testo scritto. Il sogno deve essere rappresentato, tradotto da immagini a testo, ed è sottomesso alle regole di qualsiasi testo scritto (regole di composizione, di stile, ecc.). Non è un caso che Platone accenni proprio nel Fedro alla questione del rapporto fra pittura e poesia, da lui accomunate nel giudizio negativo.
Pittura poesia, dunque, come parte di una contrapposizione fra oralità e scrittura. In cui il testo tende a valorizzare la sua autonomia, in rapporto alla mimesi. Un aspetto costante nella storia letteraria e che fornisce ancor oggi esempi per un dibattito proficuo.

Il Decameron

Il Decameron è un testo poliedrico, sfaccettato, enigmatico, dietro al suo carattere apparentemente realista. Sono almeno due i critici ‘storici’ ad averlo catalogato così, anche con una certa esplicita critica alla pretesa debolezza “morale”: si tratta di Francesco de Sanctis e dell’altrettanto grande Erich Auerbach, il che ha limitato la loro lettura. Il sottotitolo del Decameron, cioè il prencipe Galeotto, allude evidentemente al canto V dell’Inferno di Dante, ed in particolare al concetto del libro che influenza il mondo e non viceversa, che da solo rovescia il precetto realista: che è il mondo che influenza la letteratura. Come afferma Italo Calvino (in Tirant lo blanc)[17]: è un primo momento vertiginoso in cui è il libro che induce i due amanti a baciarsi.
È il libro che influenza il mondo. Anche la descrizione della morte e quella della peste nel Decameron devono essere rilette alla luce di questo ribaltamento che la letteratura rende sempre possibile (un aspetto della funzione magica, dentro alla funzione poetica, individuata da Roman Jacobson). Il Decameron è pieno di riferimenti intertestuali. Un secondo riferimento, eclatante è l’evidente parodia nel titolo dell’Hexameron di Sant’Ambrogio, un testo del IX sec. d. C. , il cui tema sono i sei giorni della creazione divina. Parlare di morte e di erotismo come risposta alla Creazione del mondo è certamente un rovescio ironico o comico di notevole portata! Infine, come terzo momento intertestuale, il Decameron si ispira evidentemente a Il trionfo della morte, un affresco attribuito recentemente al pittore B. Buffalmacco, e realizzato attorno al 1340. Attorno al 1340, cioè prima della peste descritta da Boccaccio. Il rapporto fra pittura e poesia, di cui si è parlato, questo topos della cultura classica, trova in questo momento un ideale punto di intersezione prima dell’affermazione della prospettiva rinascimentale, tra narrativa e pittura. Non è un caso che ne siano protagonisti Bocccaccio (da un lato) e Giotto, proprio il pittore che è considerato il precursore della prospettiva rinascimentale e che appare sia nel testo della cornice del Decameron (in una polemica di Boccaccio contro la libertà di rappresentare concessa alla pittura e negata alla sua letteratura, sia in una breve ma significativa novella, nella giornata del “motto di spirito”, della VI giornata.. Con questa mia lettura (appoggiata a testi sostanziosi come quello di Giuseppe Mazzotta The world at play e di Lucia Battaglia Ricci, tra i vari), vorrei mettere in luce che anche nella ri-lettura di un testo classico e fondante, è possibile oggi mettere in luce l’aporia del testo fra realismo (proprio rappresentato dalla descrizione della peste) e rifrazioni caleidoscopiche da metaletteratura. Un effetto realizzato dalla lettura e che può essere spiegato nella seguente forma: tramite una parabola della tradizione ebraica, quando Mosé, invisibile, si presenta in una Ieshivà in cui svolge le sue letture il famoso rabbino Hillel (2o sec prima della nostra Era). Mosè esterrefatto dai ragionamenti astrusi e incomprensibili che vengono intessuti, chiede aiuto a Dio. “Cosa stanno dicendo”, chiede, stanno leggendo i miei testi, ma non riesco a capirci niente”. “Non ti preoccupare”, risponde Dio, tutto quello che loro dicono era già contenuto nei testi, loro non fanno altro che interpretarli correttamente” La lettura, cioè, riesce a far emergere dal testo qualcosa che il testo contiene, anche se lo fa in maniera velata. Svelamento di un testo è riuscire a risalire alla sua verità, supponendo però – e qui è la differenza fondamentale – che esiste una verità per ogni lettore, dunque una verità del lettore dell’epoca di Hillel, che non è più quella dell’epoca di Mosè che aveva o avrebbe redatto i testi sacri.
Il secondo esempio, lo si può prende dalla pratica musicale: le versioni che possono essere date di un unico brano musicale sono talmente diverse e infinite che è possibile arrivare a non riconoscerle. L’interpetazione include versioni popolari o jazz, per esempio e possono dare risultati sorprendenti. Si può pensare a una rilettura del Decameron in un’ottica jazz, come avrebbe fatto Cortazar. Anche un testo come il Decameron può racchiudere sempre nuove interpretazioni, come un testo biblico o una partitura musicale. Si potrebbe aggiungere un’ipotesi di un punto di vista “transoceanico” rispetto alla letteratura italiana, in analogia a quanto affermato da Haroldo De Campos, insuperato maestro e transcreatore. Una prodspettiva nuova, dal punto di vista del lettore odiernoi (non più dell’epoca di Hillel e neanche quella di Mosé) che può apportare ai testi della tradizione italiana nuovi punti di vista.

la peste, la morte
Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dí cosí fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Questo brano si trova nel mezzo del racconto del narratore Bpoccaccio, nell’Introduzione della 1a giornata del Decameron. Un brano autobiografico, o almeno così ci viene presentato. Viene preceduto da un cortissimo Proemio (su cui intervengo successivamente) e seguito dalla presentazione di dieci narratori (7 giovani donne e tre cavalieri) che, nel corso di 10 giornate, si racconteranno a vicenda in tutto cento storie. Nel proemio viene specificato che le storie non sono usuali e nella conclusione, che l’autore, G. B., non si considera vero autore

intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto (proemio).

io non pote' né doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, e io l'avrei scritte belle. Ma se pur presuppor si volesse che io fossi stato di quelle e lo 'nventore e lo scrittore, che non fui, dico che io non mi vergognerei che tutte belle non fossero per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne seppe tanti creare che esso di lor soli potesse fare oste (Conclusione dell’autore).

Il fatto di non voler essere considerato l’autore (a differenza da Dante e a Petrarca, a lui contemporaneo) e l’ambiguità sul genere (novelle o favole o parabole o storie) sposta l’accento sull’obiettivo manifesto del testo. Rimane quello del proemio: una specie di debito o promessa: l’autore avrebbe fatto una specie di promessa, dopo aver sofferto delle delusioni d’amore e essere stato curato.
“io sono uno di quegli”, dichiara a voce alta il narratore nel primo paragrafo.

Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra' quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli.

Il conforto gli è stato dato dai racconti di alcuni amici: racconti che temperano le proprie pene, gli forniscono il contesto, riconducono la propria esperienza, vissuta come altamente drammatica, a una ripetizione delle pene d’amore:

Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.

Il narratore afferma qui che non è morto per il dolore (la “noia”). È noto il fatto che il narratore si trova a Firenze, durante l’imperversare della peste nera del 1348 (la stessa che, secondo lo stesso, ha ucciso 100 mila abitanti, tra cui suo fratello, elemento omesso ma dolorosamente presente). Una peste vera, un flagello, uno dei momenti di catastrofe raccontata dalla storia dell’umanità, apparsa in Europa proveniente dall’Oriente (aveva distrutto l’orda d’oro di Gengis Khan) e che aveva decimato oltre un terzo della popolazione europea (13 milioni di persone). Effetti sociali notevoli (la riorganizzazione) oltreche psicologici:

infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne' lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti?

Si tratta di maravigliosa cosa a detta del narratore: cioè cosa fuori dall’ordinario, eccezionale, ma anche degna di essere vista, poiché maravigliosa viene da mirabilia, da mirari, nuovamente con al centro il vedere. Questa morte che verrà descritta è maravigliosa, terribile ed ha un potere quasi sublime di attrarre la vista, di catalizzarla. Il narratore non può volgere il suo sguardo da altra parte. Altrettanto deve fare il lettore. Si tratta di attenzione, quasi ipnosi e ribrezzo: non è solamente la morte contemplata, ma la sua degenerazione più abietta: la peste, con il suo insieme di credenze e superstizioni (siamo in pieno Medioevo): punizione divina, morti senza possibilità di salvezza, deviazione dal comportamento equilibrato, vuoi tramite eccessi di licensiosità, vuoi tramite una ricnchiudersi. La peste, come dirà alcuni secoli dopo Camus (in Il teatro e la peste) come malattia legata alla coscienza, proprio perché non affetta organi vitali tranne il cervello e i polmoni. La peste come metafore della metafora della morte. Di qualsiasi esilio possa parlare la letteraura, la morte è quello più definitivo. La morte come “realtà” la più abietta, ma la più visibile e universalmente conosciuta.
A proposito del tema della morte, vale la pena citare tre momenti presenti nel famoso testo Il narratore, di W. Benjamin. Sono tre momenti in cui l’autore mette in risalto il rapporto fra morte e letteratura. Nel primo, a partire da una lettura di Benjamin, si può affermare che è la morte che sancisce il passaggio da ciò che è contestuale (cioè che sta dentro al testo, alla trama) a ciò che può essere trasportato, tradotto (anche se ancora non scritto). La morte è produttrice di autorità e, quindi, sta all’origine della narrativa. Nel secondo momento, a proposito della morte letterale di Leskov, Benjamin stabilisce un acuto parallelo far le immagini nella visione dell’agonizzante e l’immagine che l’agonizzante proietta. Nella terza, quando afferma che “un uomo che muore a 35 anni è sempre un uomo che muore a 35 anni”, sostiene che il senso (l’essenza? la fiigura? ) si rivela solo tramite la morte.
La morte, dunque, per Benjamin non è solamente un elemento che conferisce autorità (perché suscita volgarmente un interesse per ciò che è abietto, perché incita al sollievo per averla scampata: considerazioni queste presenti in Boccaccio). La morte diviene un vero e proprio limite di fatto per la rappresentazione metaforica, che Benjamin esprime come desiderio di morte del lettore, letterale (con la contemplazione della morte) o metaforica, la fine del romanzo per Benjamin. La morte di cui Benjamin parla è una doppia morte: quella reale (del personaggio Leskov, il narratore) e quella metaforica o simbolica (la fine del romanzo, la morte raccontata). In fondo, si possono isolare due forme di rapportarsi alla morte: la descrizione di un fatto “realmente accaduto”, la cui descrizione merita l’attenzione degli uditori: un fatto storico o giornalistico, la cui descrizione ha motivi chiari oppure, nella maggioranza dei casi, inconfessabili.
Qualcuno è morto. Lo sappiamo, lo sentiamo. C’è un concetto – la morte – che è immediatamente metafora del limite (all’onnipotenza), dell’essenza (dell’umano, rispetto alle forze della natura o del divino). fra ricerca della verità o realtà vera (Fedro) e questione lettura o etica.
Il Decameron è un testo definitivamente classico: fondante per la letteratura italiana e occidentale, perché costituisce il modello della futura commedia e, allo stesso tempo, presenta un esemplare rapporto di contiguità (o superamento) con la Comedia di Dante e il Canzoniere di Petrarca. Inoltre, si tratta di un testo che diverrà modello di lingua, insieme a Petrarca e contro la Comedia, messa all’indice dal cardinale Bembo nel ‘500 e, a sua volta, verrà espurgato dall’Inquisizione alla fine del ‘500. La questione della morte è più di un elemento referenziale di forza inaudita
Prima di tornare alla morte, riprendiamo il testo: Maravigliosa cosa. Il narratore è portavoce di un qualcosa che non può essere taciuto (io debbo dire) qualcosa che è possibile scrivere e, al contrario, non sarebbe stato possibile crederlo se fosse stato visto da lui stesso (come testimone oculare) o da molti altri (dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto) o se l’avessi ascoltato da fonta degna di fede (quantunque da fededegna udito l'avessi). La peste è di una virulenza tale che si propaga non solo fra gli uomini, ma anche fra uomini e animali. Ed adesso, il narratore si prepara, dopo aver magnificato a forza dell’evento che sta descrivendo, a narrare lui stesso un episodio, proprio per dare il sapore di questo contatto con la realtà (Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dí cosí fatta esperienza): viene ora la storia in se, piuttosto scarna e facile da riassumere: due porci si avventano sugli stracci di un malcapitato morto per la peste e, dopo poco, gli stessi porci soccombono all’attacco del male (come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra).
Il narratore, dunque, scrive su qualcosa che va al di là di qualsiasi esperienza umana credibile e, a sua volta, racconta una sua esperienza che, nella sua semplicità e banalità, è costruita in maniera tale da rafforzare la sua funzione di testimone, di compartecipe dei fatti. Il lettore, a sua volta, si sente coinvolto nel tema, poiché la morte determinata dalla peste è un flagello che colpisce e facilmente rimette a cause superiori, perché la morte da sanzione (come dice Benjamin) al narratore, sopravvissuto a una catastrofe, da lei quindi legittimato.
I commentatori sottolineano che la descrizione della peste è già un tópos nella letteratura, fin da Tucidide, uno dei padri del concetto di storia. In effetti, comparando la descrizione della peste di Tucidie e di Boccacio, molti sono i punti in comune. Tucidide ci dà una descrizione dettagliata della peste, con intento didattico e descrizione precisa, storicamente:

[48] 1. Il primo luogo in cui cominciò a manifestarsi fu, a quel che si dice, l'Etiopia, ... Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e cosí tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c'erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.

Lo storico greco mostra il suo metodo obiettivo, precursore del metodo scientifico, distaccato e ci indica i vantaggi della conoscenza:

Ora, sulla peste sia un medico sia un profano potranno parlare ciascuno secondo le sue conoscenze, dicendo da che cosa essa probabilmente abbia avuto origine e quali siano le cause di un tale sconvolgimento, cause che potrà considerare sufficienti a effettuare il mutamento di salute: io invece dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un'altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in precedenza qualche cosa

Ma è probabilmente un altro elemento a divenire decisivo, che ci permette un raffronto fra i due testi, più che la descrizione, più che l’atteggiamento:
io stesso – dice Tucidide - ho avuto la malattia e io stesso ho visto altri che ne soffrivano

L’uso del pronome in prima persona, da parte di Tucidide (effettivamente colpito dal morbo) equivale a quanto Boccaccio aveva dichiarato in precedenza:
Di che gli occhi miei ... presero tra l'altre volte un dí cosí fatta esperienza...
Quando Lucrezio nel De rerum naturae riprende la descrizione della peste ad Atene, lo farà – evidentemente – sulla base del modello di Tucidide. Il tema della peste (morbo che comparirà centinaia di volte fino all’800) verrà ripreso naturalmente da molti altri scrittori, fra questi c’è Alessandro Manzoni e, prima di lui, Guicciardini.

C’è, però, una seconda prospettiva, da cui vedere il problema della morte in rapporto alla letteratura. Si tratta di una morte, in un certo senso, metaforica, poiché legata a personaggi mitici o leggendari. La morte non viene qui descritta in maniera realistica. Nel caso, per es. di Orfeo e Euridice, il rapporto con la morte include la capacità di esercitare la magia e stabilire con gli dei un rapporto, quindi parlare il loro stesso linguaggio. Orfeo riesce a farlo tramite la musica. In Ovidio (Metamorfosi, cap. XI) Orfeo si misura nel tentativo di riscattare la morte di Euridice. A sua volta, Orfeo verrà ucciso. Si tratta di un tentativo, presuppone il dominio della musica (come terapia o maieutica). In un’epoca passata questa funzone terapeutica era attribuita alla religione (i preti, suoi rappresentanti), in epoca più vicina, alla psicanalisi.
C’è anche Omero, che arriva alla terra degli Lotofagi (tutto quello che non è civiltà per i Greci) e Ulisse parla con i morti (Odissea, canto XI). In fondo è il segnale per l’inizio del suo viaggio di ritorno (subito dopo l’episodio di Circe, anche se non è materialmente la metà)
Nell’Eneide di Virgilio (canto VI), Enea parla con i propri genitori. Ci sarebbero da citare anche saghe e epopee (Il canto dei Nibelungi, La Chanson de Roland, tra gli altri testi), in cui il rapporto con la morte è sostanzialmente simbolico e allegorico.
Singolare , quindi, è che un episodio come quello della peste si presenti nello stesso testo sotto angolazioni molto differenti. Episodio di una diretta testimonianza dell‘autore (in Tucidide come in Boccaccio, anche se non in Lucrezio), la peste assurge a simbolo di un capovolgimento (una catastrofe), un cambiamento di valori e di punti di vista che il Decameron in effetti assume, come testo basato su principi narrativi nuovi. I dieci narratori che sorgono introdotti dall’ipernarratore Boccaccio, vengono da lui così accreditati:
A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravvolgendo: ... dico che, stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota, addivenne, sí come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella... Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse...
Il narratore si scusa con i lettori, delle “tante miserie” che deve descrivere. Il narratore si preoccupa del lettore e, allo stesso tempo, lo rassicura: quello che racconterà viene a lui detto “da persona degna di fede”. Non racconta i nomi veri (che sarebbero stati verificabili) per preservare la reputazione delle persone.
Visto dal nostro punto di vista, questa forma del testo ci appare formula, ripetizione di Luciano o altri classici. Ma dobbiamo pur tener presente che Boccaccio ci si è presentato come testimone oculare, di una una storia della peste, che ci conferma che lui ha visto effettivamente.
Pampinea parla: “noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d'ascoltare se i frati di qua entro, de' quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, ne' nostri abiti, la qualità e la quantità delle nostre miserie.
Quando a Pampinea viene data la parola (è lei che avrà l’idea di riunire le sette ragazze che si trovano nella Chiesa di San ta Maria Novella – un altro luogo familiare e conosciuto, che rafforza la credibilità del testimone, tramite la prossimità– il suo stesso discoso si riallaccia al precedente del narratore: “in ogni modo ci appare la qualità e quantità delle nostre miserie” che eccheggia, evidentemente, le “tante miserie” del narratore. I corpi morti, espressione ripetuta due volte, potrebbe essere un’allusione diretta al “come corpo morto caddi” del Canto V de la Divina Commedia. Infine, l’esilio evocato, che ricorda quello di Dante, mostrando un paradosso (gli esiliati sono scacciati dalla città da coloro che nel frattempo sono morti). Il discorso di Pampinea è tutto diretto a convincere gli altri (e se stessa?) di dover andare via da Firenze. Il suo discorso è popolato delle immagini della desolazione, i morti sparsi per le strade che ecceggiano nelle farsi:
E se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi da torno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l'autorità delle publiche leggi già condannò a essilio, quasi quelle schernendo per ciò che sentono gli essecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra città, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini e in istrazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni;
né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: 'I cotali son morti' e 'Gli altrettali sono per morire'; e se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo.
L’argomentazione di Pampinea, la regina della 1a giornata, si fa più serrata, deve assolutamente convincere tutti a realizzare il piano. Tornare a casa, argomenta P., significa convivere con i fantasmi dei morti. La casa non è più familiare. Ciò che allora era heimlich adesso diviene unheimlich – per usare la celebre espressione di Freud – , cioè: non familiare, perturbante, sinistro.
E se alle nostre case torniamo, non so se a voi cosí come a me adiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare, e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l'ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile non so donde il loro nuovamente venuta spaventarmi. Per le quali cose, e qui e fuori di qui e in casa mi sembra star male, e tanto piú ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi.
È Pampinea adesso che rivendica la funzione di testimone (testimonie, le testimoni). È lei che appela adesso all’aver visto e udito, così come il narratore aveva fatto (e farà) e così come lui stesso le ha insegnato:
E ho sentito e veduto piú volte, se pure alcuni ce ne sono, quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l'appetito le cheggia, e soli e accompagnati, di dí e di notte, quelle fare che piú di diletto lor porgono; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne' monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all'altre, rotte della obedienza le leggi, datesi a' diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute. E se cosí è, che essere manifestamente si vede, che faccian noi qui, che attendiamo, che sognamo?
Finalmente si arriva alla descrizione del luogo paradisiaco, del locus amoenus, dove fuggire e dove tutto sarà differente:
fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri onestamente a' nostri luoghi in contado, de' quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s'odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d'alberi ben mille maniere, e il cielo piú apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto piú belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città; e èvvi, oltre a questo, l'aere assai piú fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v'è la copia maggiore e minore il numero delle noie. Per ciò che, quantunque quivi cosí muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v'è tanto minore il dispiacere quanto vi sono piú che nella città rade le case e gli abitanti.
Finalmente, un’ultima volta, la regina della 1a giornata torna all’immagine, oramai concolidada, dell’unheimlich nelle loro stesse case. La scelta che lei propone è una non scelta, poiché rimanere può voler dire soffrire ancora (dolore e noia e forse morte). Superare i complessi che ancora li tengono legati al posto, poiché non siamo noi che abbandoniamo, piuttosto siamo noi a essere abbandonate:
E qui d'altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto piú tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n'hanno lasciate. Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire: dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopragiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose...

Il Decameron è un testo singolare, come singolari sono tutti i testri classici e fondanti. La descrizione della peste va ben al di là di una semplice e morta cornice. Diviene la base dell’accreditamento del narratore (o iper narratore), in rapporto a un insieme che, però, afferma l’esatto suo contrario, come dimostra il ventaglio di storie narrate dalla 1a (quella di Ser Ciappelletto) all’ultima, altrettanto fuori dalla realtà, come è quella di Griselda. Ciappelletto alias Cepparello è l’emblema di una narrativa intesa qui completamente come fiction, come dice la rubrica: “Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto”. Il raddoppiamento del nome del personaggio è emblematico del raddoppiamento della visione e nella conclusione ancora ambigua o doppia: Cepparello/ Ciappelletto in Paradiso o all’inferno? Iddio che non ci condanna

negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in su lo stremo aver sí fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n'è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui piú tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se cosí è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fé riguardando, cosí faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo.

Esiste un’evoluzione del concetto di morte nella tradizione occidentale. È tradizionale il memento mori, cioè la coscienza della caducità della vita. La morte viene però raffigurata come cadavere, putrefazione solamente a partire dal XII secolo e, in particolare, meno in Italia[18], i cadaveri cominciano a essere coperti in quest’epoca, appare il Giudizio Universale (e la resurrezione dei morti). Questo horror mortis, secondo A. Tenenti (in ib.), è prodotto di un amore per la vita. Maggiore realismo, maschera modellata sul volto del defunto, i temi macabri, secondo Ariés (op. cit., p. 86) sono caricati alla fine del sec. XV e inizio XVI di senso erotico. Questo può valere (eccezionalmente) anche per il sec. XIV. Se si vedono i genitali dello scheletrico cavaliere dell’Apocalissi di Dürer (ib., p. 86), è evidente una funzione realista ed erotica che porta a un vero e proprio fascino “per il corpo morto” nel sec. XVI (ib. 87)
In Boccaccio accade che la rapresentazione della morte si situa al crocevia di due diverse tradizioni. Il Decameron riprende la visione storica “testimoniale” di Tucidide (praticamente citata da Lucrezio) e quella metafórica (o letteraria) che da Omero e Virgilio sfocia in Dante e il suo viaggio nell’Al di là. In queste due tradizioni il punto di vista del narratore è opposto. Per il narratore dell´introduzione alla 1a giornata si tratta di fondare una base per la verosimiglianza, testimonianza, verità descrizione, realismo. Boccaccio fornisce quindi un rapporto preciso e distaccato (con alcune sottolineature o eccessi espressionistici). Il narratore del proemio, invece, non si dichiara autore ma narratore (Conclusione dell’autore), non difende un genere univoco, ma “storie, novelle, parabole...”, cioè finzioni... Cioè l’esatto rovescio ironico del narratore realista,che “ha visto e quindi sa’ dell’etimologia di storia (histor).
Impossibile e improduttivo cercare in questa fase una verità ultima, “la verità” (di cui parla Platone nel suo Fedro), oppure dove sta il bene e dove il male. L’eticità di Boccaccio non sta nella rappresentazione del male (la peste) oppure nell’indicazione di un percorso (piangere i morti? Realizzare un lavoro di lutto?). L’eticità sta nel mostrare un esempio (un’architettura letteraria), il cui ancoramento con la realtà non può essere messa in dubbio e che, allo stesso tempo, deve essere messa in discussione dalla massiccia e dichiarata proclamazione del regno della fiction, nel locus amoenus proclamato da Pampinea. Questo sfoggio di tinte fosche è, in fondo paradossalmente più drammatico delle infernali visioni di Dante, anche se le immagini (o le istantanee) di questo sono più plastiche e riuscite). Boccaccio non ha come obiettivo il raggiungimento di immagini poetiche o pittoriche: è la trama del testo che gli sta a cuore.

“Umana cosa è l’aver compassione agli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a color è massimamente richiesto li quali già hanno di confortoo avuto mestiere, e hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli. “. Chi parla qui è il narratore o ipernarratore Boccaccio all’inizio del Proemio. Si presenta così, di umilissima condizione: un vero e proprio understatement (“narrandolo io”). Il discorso è impostato sul campo semantico del dolore, provocato dalle delusioni amorose: sono i racconti piacevoli ragionamenti che gli hanno portato rifrigerio e laudevoli consolazioni di amico mi porsero. Dunque B. è mosso da compassione agli afflitti e da noia (dolore), soperchio fuoco nella mente. La sua testimonianza è qui di altro tenore: “io porto fermissima oppinione che per quello essere avvenuto che io non sia morto” “la memoria di questo non terminerà che per morte

Torniamo dunque al dipinto il cui titolo è Trionfo della morte. Solo recentemente (negli anni 60) è stato attribuito al pittore Bruno Buffalmacco, contemporaneo di Boccaccio. Si tratta di un monumentale affresco dipinto circa 8 anni prima della peste nera europea e, quindi, della stesura del Decameron (o di sue parti). Boccaccio era sufficientemente vicino a Pisa e la ripercussione dell’affresco doveva essere stata notevole. Si aggiunga che alcuni anni prima Giotto, già famoso pittore, aveva dipinto il Giudizio Universale nella Cappella degli Scrovegni, a Padova (nel 1305). Esiste fra Decameron e Il trionfo della morte un gioco di rimandi o degli specchi che va ben al di là della rappresentazione dell’opposizione fra locus amoenus e morte. Nella novella VIII, 3 è protagonista l’ingenuo e maldestro pittore Calandrino, preso in giro dai pittori anch’essi Bruno e Buffalmacco (una divisione in due personaggi del nome dell’autore dell’affresco del cimitero di Pisa): la burla verte attorno alla scoperta dell’invisibilità, l’ eliotropia, un tema evidentemente legato a quello della rappresentazione pittorica. Nella novella IX, 3 c’è un Maestro Simone che viene istigato da Bruno e Buffalmacco, petr far credere a Calandrino di essere incinta (l’ingenuità del personaggio lo fa cascare anche in questa burla). Nella novella IX, 5 Calandrino s’innamora di una giovane, ma è ripreso dalla moglie (appare solo Bruno). Si tratta quindi di ben tre novelle con Calandrino come protagonista, in due delle quali appare Buffalmacco. Un numero rilevante, quindi di novelle in cui il protagonista è un pittore, per di più contemporaneo a Giotto (protagonista di una novella, a sua volta) e antagonista di Boccaccio. Protagonista della novella VI, 5 Messer Giotto, è descritto come eccezionalmente brutto (al pari del suo interlocutore Forese da Rabatta). Il mal tempo fa sì che i due chiedano in prestito vecchi abiti sudici a un contadino. Il contrasto è quindi fra l’estrema bruttezza e la sublimità dell’opera, mostrando che anche per gli artisti è fondamentale dominare l’arte della parola, poiché Giotto si dimostra all’altezza di un rapido scambio di battute con Forese. Interessante è un rimando del testo del dialogo al Canto XIII dell’Inferno di Dante: “credea, ch’io credea che credessi...”. Nuovamente il modello dantesco, in un contesto della trasformazione degli uomini in piante che mette in luce la problematica della trasformazione in generale: tra brutto e bello, tra realtà e finzione. Una sospensione, quella di Dante, sintattica e nel senso, un virtuosismo dell aparola che rimette alla sua virtù taumatuturgica e magica della permutazione e che fa della lingua una lingua di magia. Boccaccio insiste tanto nel suo testo sulle virtù della parola, nella sua capacità di cura, che il suo rapporto con la pittura diviene eviudente: un’irritazione contro quel genio (che è poi Giotto) che riesce sì a dipingere il mondo più realista e vero di quello che appare. Ma, allo stesso tempo, una visione critica di quell’arte che non ha la funzione di curare il lettore come il paziente. Una difesa, quindi, di un agonismo fra pittura e poesia, tutto a favore della letteratura.





[1] Questo è il testo pressoché integrale della conferenza tenuta al Congresso di Florianópolis. Spero che possano essere scusate alcune licenze, sopratutto nella citazione dei testi di Tucidide e di Orazio che, per la rapidità con cui il testo è stato redatto, sono stati presi da siti internet, indicati opportunamente. Il testo del Decameron è stato preso dal sito della Brown University che è identico all’edizione curata da C. Branca (Torino:Einaudi, 1996). Il tema è naturalmente vastissimo. Mi ripropongo di riprenderlo, per approfondirne la parte specifica riguardante il rapporto con la pittura, suggerito tra l’altro dal ritrovamento di illustrazioni del Boccaccio stesso alla suaopera.
[2] Convivio II, XII, 24, vedi In Enciclopedia Italiana, voce “musica”, una spiegazione più esauriente.
[3] Leonardo, da Vinci, Trattato della pittura Codex Vaticanus Urbinas 1270; n91-043472.
[4] HILLIS MILLER. A ética da leitura. Rio de Janeiro: Imago, 1999
[5] In Il Canocchiale, 2003 . “Etica e memoria in Primo Levi”
[6] Horácio. “Arte poetica”[Epistula ad Pisones]. In Aristóteles, Horácio. Longino A poética Classíca [trad. J. Bruna]. São Paulo: Cultrix, 1992, p. 55-69
[7] Versi 180-182 in Lessing Lacoonte, trad. de Márcio Seligmann-Silva, São Paulo, Iluminuras, 1998.
[8] Cultrix trad. J. Bruna, op. cit., p. 65
(ed ecco l’originale latino:
Vt pictura poesis; erit quae, si propius stes,te capiat magis, et quaedam, si longius abstes;haec amat obscurum, uolet haec sub luce uideri,iudicis argutum quae non formidat acumen;haec placuit semel, haec deciens repetita placebit. Orazio, Ars Poetica 361 e seg.
[9] ”e que os espectador mesmo vê”, traduce invece nel suo testo Márcio Seligmnann-Silva, nel testo citato.
[10] Il testo in latino suona:
Aut agitur res in scaenis aut acta refertur.Segnius inritant animos demissa per aurem 180quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quaeipse sibi tradit spectator; non tamen intusdigna geri promes in scaenam multaque tollesex oculis, quae mox narret facundia praesens
[11] 107 Format enim natura prius non intus ad omnemfortunarum habitum; iuuat aut impellit ad iram,aut ad humum maerore graui deducit et angit; 110post effert animi motus interprete lingua.
[12] PRAZ, Mario. Literatura e artes visuais. São Paulo: Edusp/ Cultrix, 1982, p. 2-3.
[13] MOMIGLIANO, Arnaldo. “Il tempo nella storiografia antica”, in La storiografia greca, Torino: Einaudi, 1982, p. 66.
[14] Le citazioni, per comodità, sono state prese dal sito http://www.filosofico.net/fedro.htm
[15] Leonardo da Vinci. Codex Urbinas in Márcio Seligmann-Silva. Lacoonte ou das fronteiras entre pintura e poesia. São Paulo: Iluminuras, 1998, p. 57 nota 5.
[16] in Praz, Mario ib
[17] CALVINO, Italo. “Tirant lo blanc In Perché leggere I classici.
[18] ARIÉS, Philippe. História da morte no Ocidente. Rio de J.: Francisco Alves, 1977, p. 33

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