sexta-feira, 11 de junho de 2010

Il diavolo in corpo lettura del Decameron

PREMESSA
Pubblico qui un mio testo (inedito) sul Decameron intitolato: Il diavolo in corpo. Si tratta di una lettura "a contropelo", che vuole mostrare un Decameron quasi "postmoderno", che costruisce la sua macchina narrativa (quesi fosse) per permettere al lettore di poterla al più presto smontare. E se anche ciò non fosse nell´"intenzione del testo" o, più radicalmente, nell´intenzione dell´"autore" (concetto che suggerisce Umberto Eco), è il testo stesso che offre il fianco ad essere letto da questa prospettiva. La presente lettura può mostrare alcuni aspetti inediti: l´incrinatura del numero dei novellatori (non effettivamente 100, come si crede), la parentela stretta con il novellare moderno, una ironica visione sul novellare antico, perché il personaggio Boccaccio, nella Conclusione dell´autore del Decameron afferma di aver raccontato per lo più storie già note, come se l´arte di raccontare fosse già sorpassata allora... sette secoli prima delle affermazioni di Walter Benjamin !
Se ci sarà un lettore che vorrà fare un commento a questa lettura: benvolentieri!
Andrea Lombardi 15 luglio 2010
capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve...
W. Benjamin

La cópula,
l’unione di due organismi unicellulari, ha l’effetto di tenere in vita e ringiovanire entrambi
S. Freud


Il diavolo in corpo

[lettura del Decameron]


Il diavolo in corpo, titolo di un racconto (R. Radiguet) e, più recentemente, di un film (M. Bellocchio), deriva da una frase contenuta nel Decameron (“La morale della storia”III, 1). Scritto (presumibilmente) fra il 1348 e il 1351, durante o immediatamente dopo gli effetti di una grande epidemia di peste che ha decimato l’Europa, il testo originale del Decameron è diviso in dieci capitoli o giornate, in cui una brigata di dieci giovani (sette donne e tre uomini) decide di sfuggire agli orrori del flagello e, in un luogo appartato, a poca distanza dal centro della città, durante due settimane (per osservare i giorni di riposo tradizionali e religiosi) si racconta vicendevolmente un totale di cento novelle. Ogni giornata ha un tema determinato (con alcune eccezioni), che ruota attorno a una variazione dei concetti di amore, fortuna, beffa. I dieci narratori, ciascuno con una precisa personalità, commentano vivacemente le novelle appena raccontate, nel corso delle giornate, ciascuna retta da un “re” o una “regina”, scelti fra di loro. Il libro è dedicato alle donne al posto della tradizionale dedica alle Muse; il suo fine dichiarato è quello di dare voce alla loro voce, un manuale dei casi dell’amore e della vita:
“le già dette donne, che quelle leggeranno, parimenti diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare” (Proemio, p.3).
Il Decameron può essere considerato un libro cinematografico, basato com’è tutto sul movimento. La sua struttura interna si basa su una sequenza di verbi e di azioni, la cui funzione grammaticale portante è la còpula, nel doppio senso di legamento verbale e amplesso. La scelta della lingua volgare non dovrà essere più giustificata, così come aveva dovuto fare Dante (De vulgari eloquentia). Sarà naturale, come naturale è la legge della cópula. Non c’è più la preoccupazione di mostrarci una via maestra, un inquadramento definitivo, un mondo alla luce della provvidenza divina. La profonda morale del testo, in sostituzione di una morale tradizionale, è l’impegno a riprodurre la totalità del mondo, con la sua diversificazione, il suo lato prosaico, scurrile, senza maschere e censure: il denudamento del corpo corrisponde così a una operazione di smontaggio delle vecchie convenzioni, superate dal frenetico movimento di un mondo in espansione. Le novelle stesse, per lo più molto corte, presentano una varietà estrema di motivi e sono ambientate nelle città italiane e europee dell’epoca, nel favoloso Medio Oriente o nell’avventuroso mondo dei mercanti, includendo sempre un numeroso gruppo di partecipanti, con un pluralismo di voci, di commenti, di prospettive che mima una specie di mercato o fiera del reale.
Il diavolo in corpo esprime l’ironia di Boccaccio verso un mondo di credenze allora (come oggi) ancora salde: miti e ipocrisie che il testo contribuisce a smontare. Delle novelle che compongono l’originale ne sono state scelte 25, cioè un quarto, secondo un ordine di presentazione funzionale ai cinque temi che saranno presentati. Una bibliografia essenziale, anche se non esaustiva, alla fine del volume, permette una visione di ciò che è stato scritto su questo testo.
Nella prima novella Masetto, finto sordomuto, diviene l’amante delle otto monache e della badessa di un convento e, come giardiniere, già anziano e padre di numerosi figli venuti alla luce nelle sua carriera di amatore delle monachelle, torna ricco e felice al suo paese. Aprire con la novella di un sordomuto è solo in apparenza un paradosso di una raccolta che mette in luce l’arte del novellare. L’accento iniziale è sulla visione: totale, impudica, libera, come quando il protagonista verrà trovato dalla madre badessa:
“di troppa fatica il dì per lo troppo cavalcar della notte... tutto disteso all’ombra di un mandorlo... e avendogli il vento i panni dinnanzi levati indietro, tutto stava scoperto”.
Solo quando Masetto avrà tratto tutti i vantaggi dal suo essere muto, il narratore lo farà apparire miracolosamente guarito e pronto a parlare:
“s’avvisò che il suo essere mutolo gli potrebbe... in troppo gran danno resultare; e perciò una notte, colla badessa essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire...”.
Nella seconda novella, il diavolo è il vero protagonista, anche se non si tratta di un essere ultraterreno, ma è qualcosa di molto più pragmatico e materiale: esso verrà rimesso nell’inferno o, con un gioco di parole (unendo inferno e ninfa, almeno in una lettura plausibile), nel ninferno. L’atto verrà ripetuto a piacere fino a raggiungere, anche se provvisoriamente, una sensazione di pace. In questo movimento, che rappresenta l’atto sessuale, sta un aspetto della sorprendente libertà di un libro che si può considerare all’origine del nostro millennio e, forse, un utile memoria per il prossimo.
Il testo è profondamente ottimista, allegro, vivace, scostumato, iconoclasta, leggero. Il suo obiettivo dichiarato è servire da consolazione per le pene d’amore, vincere la malinconia, ma anche superare l’orrore della tremenda epidemia di peste. Ma non è un testo didattico, pedante, serio. Sul finire delle novelle il narratore ci rivela che “l’arte può essere dall’arte schernita” e si accenna a una proliferazione del testo, una sua apertura, che prefigura l’imitazionea cui il modello sarà sottoposto:
“se voi ben riguardate, la nostra brigata, già da più altre saputa dattorno, per maniera potrebbe multiplicare (p. 940)”:
L’intreccio profondo fra Amore e Morte si riflette nella sua cornice (la descrizione tremendamente realistica della peste) e anche in alcune novelle, anticipando sensibilmente l’esempio, anch’esso basato su questa dicotomia, delle Mille e una notte.
La scelta ha privilegiato quelle novelle che il tempo non ha scalfito, raggruppate in cinque temi: l’erotismo, la beffa, la morte, la letteratura come cura e, finalmente, un elemento molto importante per la storia della letteratura: la nascita del narratore e, di riflesso, del suo pubblico, già prefigurati nel testo.
Considerato una delle fonti della tradizione narrativa occidentale, a un mitico punto di incontro fra oralità e scrittura, il Decameron mostra, contrariamente a quanto sarebbe logico aspettarsi, una oralità solo simulata e al contrario, enfatizza il suo carattere testuale, il suo essere destinato alla lettura:
“intendo di raccontare cento novelle, o favole, o parabole o istorie che dire le vogliamo...le già dette donne, che quelle leggeranno...”(Proemio, p. 3).
È un’epoca in cui si comincia appena a leggere i testi in silenzio (in precedenza le letture, anche individuali, venivano effettuate ad alta voce) e si sta formando un pubblico che, più avanti, sarà il pubblico dei lettori e acquirenti dei libri. Le novelle sono destinate ai lettori intenzionali e non più a ascoltatori casuali. Anche il riso, come la lettura, tenderà a essere silenzioso, punterà all’ironia, nonostante gli elementi comici, trasgressivi, grotteschi siano teatrali.

La religione dell’erotismo

Con il Decameron Boccaccio ha scritto una vera e propria grammatica dell’erotismo, una molteplicità di racconti o novelle (un genere nuovo da lui affermato) intrecciati l’uno nell’altro come un rosario, il cui tema centrale e motore è l’eros. Il concetto di novella viene usata nel testo tra l’altro come sinonimo di novità, distrazione (VII, 2), storia non vera, menzogna (VII, 8), chiacchera (VIII, 1). Le ricche e corpose pennellate del testo presentano il nuovo mondo dei mercanti, i nuovi borghesi, abitanti della città, nella loro routine fatta di sessualità, lotta per la sopravvivenza, alimentazione, procreazione e, infine, morte. Lo svelamento del nudo, dell’atto sessuale e dei suoi organi e, contemporaneamente, le forme per favorire l’approssimazione fra i due sessi (il Decameron è, in fondo, un manuale dell’arte della seduzione) rispondono a un principio di assoluta visibilità, un movimento analogo a quello della pittura dell’epoca. Si può dire che il Decameron sia un testo osceno, non tanto perché l’atto sessuale è il vero fine e protagonista di molte avventure, quanto perché allude a una possibile etimologia della parola: a ciò che è ob-scaena, cioè letteralmente “fuori dalla scena”. Non certamente al di fuori della vita, ma trasbordando largamente i limiti della letteratura erudita del tardo Medioevo, dei suoi modelli e riferimenti espliciti. La vera e propria pornografia viene evitata, perché il vorticoso e iperbolico intreccio di corpi, classi e funzioni sociali raramente avviene all’insegna del compenso in denaro, che caratterizzerebbe un “un parlar di puttane”. Anticipando le critiche, la novella di Filippa (VI,7) descrive la burla del seduttore ai danni di una donna troppo facile. In questa novella il meretricio, compenso per l’atto sessuale, è trasformato furbescamente nella restituzione di un prestito. L’erotismo del mondo nel mondo nuovo della letteratura. Boccaccio fonda una nuova idea della letteratura (il racconto, la novella) che si basa sull’erotismo differito: esteso al rapporto fra lettore e testo. Ogni novella possiede un dentro e un fuori, una visione che viene da prospettive incrociate, che testimonia una ricerca presente nella tendenza contemporanee della pittura: abbandono dei modelli simbolici, per inserire il contesto storico dentro all’immagine descritta, inserendo la prospettiva dei protagonisti e del loro sfondo sociale e culturale. L’amore, il desiderio, la seduzione sono affrontati con estrema delicatezza, con una punta sempre maliziosa, ma mai apertamente volgare, con una sottile vena d’ironia ed un allegro distacco. Il testo è ironico perché afferma e nega, allo stesso tempo, fa balenare la seduzione, l’erotismo, la pornografia per poi negarli e usarli come esempi del contrario: metafore del testo, vaghe allusioni. Non si tratta solo di ambiguità, ma di vera e propria tendenza elusiva, come è già stato affermato[1].
Ciononostante il Decameron è stato sottoposto a una sequenza di critiche, fin da quando l’autore era ancora in vita, arrivando a essere messo all’indice, fra i libri proibiti, al tempo del tribunale dell’Inquisizione. Ancora oggi il suo erotismo può sorprendere per la spregiudicatezza. Espressioni crude e frasi eleganti, un pastiche, indicano un gusto per la mescolanza di stile umile e sublime, giustificata dalla caratterizzazione di personaggi e situazioni socialmente differenziati. È un dipinto con una scena totale: il tardo Medioevo che si affaccia sulla modernità.
le presenti...novellette..., le quali non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più si possono (Intr. IV giornata)
La rappresentazione è scanzonata e trasparente. Il rapporto sessuale viene descritto come espressione di una legge della natura, che Filippo Balducci, protagonista de “una novella del narratore “ (intr. IV giornata), svelerà regolatrice dei rapporti: “sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno”; qualcosa di più forte che scardina le convenzioni sociali, religiose e culturali dell’epoca. Lo stesso Boccaccio affermerà il principio di un suo diritto a mettere a nudo la realtà che descrive, intervenendo nella Conclusione dell’autore, e stabilisce un’ideale giustapposizione fra letteratura e pittura a lui contemporanea, anticipando le accuse mossegli puntualmente di oscenità:

Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenzia usata, sì come in fare alcuna volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad oneste donne...Senza che alla mia penna non dee essere meno d’autorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione... fa Cristo maschio e Eva femina...

Si può senz’altro essere d’accordo con D.H. Lawrence (l’autore de L’amante di Lady Chatterley), che loda la ”fresca e naturale apertura riguardante il sesso” del testo. Nella prima sezione il sesso è sempre accomunato al clero: dal fraticello, all’abate, dalla monaca alla badessa; la topografia delle avventure illumina la vita di conventi, monasteri, eremitaggi, focalizzando situazioni più che scabrose. L’ipocrisia della retorica religiosa viene svelata, denudata letteralmente. Esiste, però, un elemento più profondo, che provoca un intenzionale sovrapposizione fra rituale religioso e rituale sessuale. Un ritorno e una rivalutazione del corpo, con un’intenzione, nel suo effetto finale, per niente oscena (si veda, a questo proposito, “rimettere il diavolo nel ninferno”, III, 10). L’affermazione di un nuovo culto, retto da regole precise, base di una nuova etica che, in una certa misura, coincide con quella del testo: l’etica della seduzione, dell’approssimazione, del congiugimento, della còpula. Quest’ultima, anche per Freud, è espressione dello spirito della vita, dell’eros, che si contrappone all’appiattimento, al livellamento, alla pesantezza, alla pedanteria, allo spirito della morte, o tanatos.


La parodia, la beffa, l’equivoco, lo scambio

L‘architettura stessa, che regge un maestoso edificio geometrico (dieci giornate, cento novelle, con simmetrie e giochi di specchi), si svela facilmente come parodia:
“Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra ed erta, appresso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia riposto”(Prima giornata, p. 9),
con un'allusione manifesta alla Divina Commedia, ma, evidentemente, con tutt’altro proposito.
Il titolo originale del testo di Boccaccio, Decameron, cognominato prencipe Galeotto, contiene due rimandi espliciti: l’Hexameron di sant’Ambrogio, una visione dei sei giorni della creazione (che Boccaccio trasforma in dieci). Il sottotitolo richiama un episodio (recente all’epoca di Boccaccio, nato quando Dante era ancora in vita), ma già famoso: la storia di Paolo e Francesca, del V canto dell’Inferno, storia tragica e sublime di due giovani letteralmente traditi da un libro e indotti dall’esempio di Lancelot e Ginevra, il cui incontro venne facilitato da Gallehaut, l’intermediario. “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”, dirà Francesca al pellegrino Dante. In un’antica edizione del Decameron [vedi riproduzione a p.] l’anonimo commentatore sapientemente scrive:
“Galeotto. I Deputati credono questa voce presa da Dante nel V dell’Inferno. ... Leggi la nota sopra questa voce nel suddetto libro, e troverai che il Glosatore lo interpreta Seduttore, o sia Mezzano d’amore” (p. XIV).
Il Decameron si presenta così come un libro che richiama la Divina Commedia , ma ne capovolge lo spirito: è un libro seduttore, in cui obiettivo non è più l’elevazione dell’interlocutore (o ascoltatore). “Ogni storia è l’occasione per una nuova storia”, perché le novelle sono intrecciate l’una all’altra e, allo stesso tempo “un secondo movimento si proietta al di là del testo, verso l’attività della lettura e dell’interpretazione”[2]. Nella sua operazione di smontaggio delle credenze e illusioni (la religione, le professioni considerate di rilievo, i modelli dell’amore distaccato e platonico, l’ideale della bellezza e della morale assolute) il testo funziona come una macchina, il cui fine è la letteralizzazione delle metafore[3].
La mescolanza degli stili è destinata anche mimeticamente a mostrare i rovesciamenti costanti delle situazioni. In questo mondo concreto, palpabile, la lotta per la sopravvivenza è descritta nella sua opposizione all’idea tradizionale del destino, del fato, della fortuna classica e medievale, cioè un destino sostanzialmente scritto in precedenza (dagli dèi pagani o dalla religione cristiana); l’iniziativa dei personaggi delle novelle si basa su una nuova arma: l’ingegno, la parola, strumento privilegiato per mettere in scacco la provvidenza cieca o ingiusta. Una sottile filigrana di parole o motti, provoca nel testo continui capovolgimenti che, nella loro ingegnosa costruzione, mettono a nudo una rete di equivoci, di scambi, di beffe: un flusso continuo di smontaggio e rimontaggio, che rappresenta mimeticamente un mondo in movimento, descritto in maniera realistica. L’arte della narrazione del Decameron sta in questo apparente fluire che si organizza in una precisa geometria, con rimandi e giochi di specchi che interagiscono e che ne rendono la lettura infinita. A metà esatta dell’originale (la cinquantunesima novella) si trova “l’arte della parola” (VI, 1), una metanovella dove si narra l’incapacità di un cavaliere di raccontare una novella. Si tratta, in sostanza, di una falsa novella, inesistente. La IV giornata dell’originale si apre, viceversa, con un racconto del narratore, di una una sua novella (“una novella del narratore”) che scardina il conteggio. Il narratore denuncia che questa sua novella è sorprendentemente incompleta, difettosa:
“acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia...mescolare”.
A seguito della morte dell’amata moglie e, volendo sottrarre il figlio dall’influenza morale nefasta della città, Filippo Balducci (protagonista della novella del narratore) vive con lui in eremitaggio. Invano cerca di distogliere il figlio diciottenne dalla vista delle “belle giovani donne e ornate”, alla prima visita alla città di Firenze. Il figlio ne viene fatalmente attratto: “Elle sono più belle che gli agnoli dipinti”. Filippo tenta di distoglierlo (“elle son mala cosa”), o almeno impedirgliene la corretta identificazione: “Elle si chiamano papere”, afferma. Ma questo non diminuisce il desiderio del figlio: “Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere, e io le darò beccare”. La novella svela nuovamente, dunque, la legge della natura, cioè l’istinto sessuale come vero e proprio motore della vita: “[Filippo] sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno”. La novella, come affermato, viene dichiarata inconclusa: “mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia... mescolare, ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle”. Excusatio non petita? No: si tratta di un vero e proprio inganno del narratore! Questa novella dislocata, fuori posto, eccessivai crea una contrapposizione fra l’ipernarratore (Boccaccio?) e i dieci novellatori ‘regolamentari’delle dieci giornate. Ed è in questa novella più che in qualsiasi altra che emerge una dichiarazione ideologicadel testo. Possiamo concludere con le parole de L’ Elegia di Madonna Fiammetta: Io, semplicissima giovane e appena potente a disciogliere la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con tanta afflizione li modi del parlare di costui raccolsi, che in brieve spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni poeta; e poche cose furono alle quali, udita la sua posizione, io con una finta novella non dessi risposta dicevole.[4]
La novella dà un senso compiuto del mondo del narratore e mostra la “legge della natura”: l’eros, che il libro come un tutto rivela. Di conseguenza, come si vedrà, senza il narratore i conti non tornano. Avremo così una vera e propria sovversione del principio architettonico enunciato: sottraendo la novella “l’arte della parola” già menzionata, si avranno solo 99 novelle. Aggiungendo la novella del narratore, una novella più che completa, sì avranno, a seconda dei casi: 101 o 100 novelle, ma i narratori (con l'aggiunta del meta o ipernarratore) saranno divenuti undici e non più dieci). Affermazione ed elusione del principio della costruzione, quasi il testo volesse mettere a fuoco una crepa, svelandoci un edificio imperfetto, incompiuto, parziale, ma, allo stesso tempo: stimolante, aperto, proiettato.

la nascita del narratore

Il narratore Boccaccio nega a se stesso il ruolo di autore, creatore e demiurgo del genere della novella, e afferma aver ripreso dalla tradizione i suoi racconti:
“io non poteva né doveva scrivere se non le [novelle già] raccontate” (Conclusione).
Il Decameron si presenta, pertanto, como un’operazione di rilettura e riscrittura di materiale già noto. In effetti, la maggioranza dei temi svela modelli e situazioni affermate (da L’asino d’oro di Apuleio alle Metamorfosi di Ovidio, al Satyricon di Petronio), con l’inserimento di un vivace contesto degli episodi di cronaca del tempo di Boccaccio, alcuni racconti orientali che costituiranno in seguito le Mille e una notte, all’epoca conosciuti col nome di Libro dei Sette Savi, ma anche spunti da Il Novellino, una raccolta anonima di brevi storie e aneddoti. L’illusione realistica costantemente affermata viene così sostanzialmente negata: i riferimenti sono prevalentemente letterari e il narratore Boccaccio si presenta, all’inizio della nostra tradizione letteraria moderna (o neolatina), come semplice intermediario, non più un eroe classico della letteratura, ma un artigiano della parola, espressione del nuovo mondo che descrive. La profonda ironia del testo sta nella polarità fra affermazione e negazione: un mondo descritto in maniera realistica e palpabile che scopre l’artificio della parola e anticipa la letteratura come menzogna.
Architettura e realismo sono il prodotto di un nuovo genere, il cui ritrovato fondamentale non è tanto o solo quella della cornice (elemento giustamente valorizzato dalla storia della letteratura), il legame fra vari racconti, ma è la presenza nuova, esplicita e marcante, della nuova funzione del narratore. Boccaccio, al contrario di Dante e di autori a lui precedenti, entra in scena esclusivamente come narratore, con un understatement della propria funzione: non più creatore e demiurgo, ma interprete, rilettore e redattore di un testo. Questa posizione è attestata in tre momenti strategici, nella struttura del Decameron: nel Proemio, nell’Introduzione alla I giornata, dove si racconta della finalità del libro e della peste a Firenze, e nella Conclusione. Il narratore Boccaccio stabilisce il parallelo già citato fra letteratura e pittura, rivendicando alla prima la libertà di descrivere il nudo, cosa che la seconda già faceva da tempo. Appare qui una vera e propria finalità del testo: mostrare non solo la giustapposizione delle due arti, quanto la necessità che la stessa pittura ha di appoggiarsi sulla letteratura: necessità di un artista poliedrico e colto, che si rivolge a un pubblico di lettori, sia esso pittore o letterato. Il narratore Boccaccio crea dieci narratori che, raccontandosi delle storie, formano un pubblico che commenta le stesse, istituendo vari piani del raccointo: il piano del narratore, il piano del pubblico dei narratori e, infine, il piano dei personaggi secondari di ogni storia e così via, in una progressione vorticosa da scatole cinesi. Le cornici concentriche, che rispondono al criterio architettonico, istituiscono una tensione decisiva fra il narratore (o i narratori) e il loro pubblico, in una dialettica crescente fra interno e esterno, fino a includere noi lettori contemporanei. Se l’erotismo è uno strumento di avvicinamento decisivo alla letteratura, innalzando la commedia umana a tema di interesse universale, l’inclusione del lettore e del pubblico (tramite la proliferazione del commento vivo ai racconti), crea un tipico gioco di specchi in cui, a partire da Boccaccio, nel testo vedremo principalmente la nostra immagine, la nostra genealogia. Letto in questa prospettiva il Decameron sfata due paradigmi considerati ancora recentemente validi in letteratura: l’illusione realista e il mito dell’autore. Nel primo caso il testo si mostra come prodotto di una strategia per catturare il lettore (“le già dette donne, che quelle leggeranno”, Proemio, p.3); nel secondo caso, l’abbassamento dell’autore a mero riproduttore, intermediario e traduttore di testi ripresi dalla tradizione, rende inutile una ricerca della personalità dell’autore, all’interno del testo:

se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle e lo ‘nventore e lo scrittore, che non fui, dico che non mi vergognerei che tutte belle non fossero, per cio` che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente... (Conclusione)
Alla virtù maieutica della poesia e del teatro corrisponde in Boccaccio un’arte profondamente laica, cioè non legata all’etica attraverso il filtro della filosofia o della religione, bensì derivante dalla funzione performativa del discorso, dalla pragmatica del quotidiano. Lo sfondo realistico è sempre giustapposto a una trama deformata, sostanzialnmente inverosimile, estrema, comica o grottesca. Il suo realismo sta nel riconoscimento di uno statuto nuovo del discorso, dell’arte della parola, dell’erudizione: non più alla ricerca del sublime o dell’intrattenimento, ma in bilico fra i due campi. Strumento di uso quotidiano dei mercanti, degli avventurieri, del loro milieu culturale, cioè di una nuova classe. Si potrebbe concludere con un paradosso: la nostalgia del narratore, di cui parla Benjamin nel suo famoso saggio su Nicola Leskow[5], di fatto richiama Boccaccio che, contrariamente a quanto si poteva inizialmente supporre, mostrava in germe tutta la potenzialità della scrittura. Il narratore è etimologiamente “colui che è informato” e (rac)conta le sue novelle. La strategia del narratore nel Decameron indica un malizioso gioco di rimandi fra il narratore Boccaccio, i dieci narratori e il loro pubblico: “Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, già da più altre saputa dattorno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni consolazion ci torrebbe” (X,10, p. 940). Forse l’erotismo del testo, il realismo e l’architettura del Decameron centrano esclusivamente una vera grande beffa: quella ai danni del lettore, maliziosa trovata che rende il Decameron ancora un libro a noi contemporaneo.

la morte, la culinaria

La cornice esterna ai racconti è rappresentata da una descrizione crudele e meticolosa degli effetti fisici, umani e morali della peste. Più d’una allusione fa capire che il narratore è abbastanza scettico sull’origine divina della epidemia:
“Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure o immaginazioni...”(Introduzione alla prima giornata, p. 12).
La peste, insomma, è un evento reale catastrofico, poiché decima la città di Firenze e buona parte d’Europa (“oltre a cento milia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti”(Introd. alla prima g., p. 19), ossia i 9/10 dei suoi abitanti originari. Allo stesso tempo, la sua descrizione, con toni iperrealistici, segue schemi letterari già noti, anche se in altri contesti: la descrizione della peste in Atene di Tucidide, ma anche in Lucrezio, Galeno, Ippocrate, Gregorio di Tour, Paolo Diacono o in Sant’Agostino[6]. Se la peste è stata vista sempre come una malattia demoniaca e fatale, legata all’ira divina, come nel caso di Edipo Re, perché un’inizio tanto tragico, per un libro, la cui principale funzione esplicita era il mero intrattenimento?
Difatto la peste, di tutte le malattie, è la più radicale, assoluta, quella che meglio simbolizza un mistero osceno, cioè quello della morte (Susan Sontag), che mette a nudo il corpo nella sua oscenità (Camille Paglia) o che favorisce la trasgressione (Italo Calvino, in Il visconte dimezzato). In ogni caso mostra l’impossibilità di un contenimento etico del mondo reale. Ma la morte non è solamente l’estremo confine di questo mondo, di cui scandisce il tempo che scorre, rappresentandone il limite estremo, è anche qualcosa che può essere descritto e superato solo metaforicamente, tramite la letteratura. Come affermato da Antonin Artaud:
“J’affirme... que la mort n’est pas hors du domaine de l’esprit, qu’elle est dans de certaines limites connaissable et approchable par une certaine sensibilité.”
Il superamento della morte tramite la letteratura, una vera e propria anticipazione del superamento delle colonne d’Ercole da parte dei navigatori tardo medievali, un tema che apparirà alcuni secoli più tardi nella tradizione occidentale tramite le traduzioni delle Mille e una notte, trova nel Decameron una sua compiuta e chiara affermazione. Il Decameron appare come una legittima riscrittura dell’Hexameron, non nel senso edificante degli exempla medievali, ma nel suo contrario: l’affermazione di un mondo del possibile, del narrabile, un mondo che, come il primo, si aprirà tramite il verbo. La descrizione realistica della peste tende a sfatare una sua visione allegorica (come punizione) letteralizzandola nella sua descrizione crudamente realistica. L’ironia del testo starà nel mostrare come il diabolico non deve essere visto dal punto di vista dell’interpretazione allegorica (e canonica), ma molto più vicino ai nostri occhi: nel corpo. Forse è possibile pensare a uno scambio fra morte e amore, come paronomasia. C’è da chiedersi, forse, perché a partire da queste considerazioni così tragiche sia nato un libro pieno di vigore e ottimismo come il Decameron, all’inizio di un millennio che si chiude con l’Aids, flagello simbolicamente altrettanto terribile in rapporto alla peste e che ha favorito una chiusura conservatrice e moralista, all’insegna della “punizione per aver vissuto una vita insana” (S. Sontag). La risposta sta, forse, in quello che è stato affermato a proposito dell’Aids: “la malattia ha creato un altro individuo”, arrivando al paradosso che è opportuno: “considerare l’ironia come un valore al di sopra di qualsiasi altro. Ma prendere quest’affermazione ironicamente”.

la cura della parola

La prima novella di questa sezione è dedicata a Giotto, “il primo maestro del naturalismo in Italia” (Hauser), il grande pittore, contemporaneo di Boccaccio, la cui produzione impone una “visione razionale e semplificatrice della realtà”. Difatti, il nucleo della novella è centrato sul rapporto fra apparenza e sostanza, fra bruttezza fisica e sublimità artistica e mostra la necessità di un artista pieno, in grado di dominare la retorica e arte della pittura, o meglio: di poter dominar quest’ultima solo grazie alla prima. Il duello verbale con Messer Forese da Rabatta, anche lui descritto come la quintessenza della bruttezza (“essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato...”), mostra un Giotto edotto dell’arte della parola, “bellissimo favellatore”. Sembra come se il narratore volesse capovolgere una remoto senso del vedere, qualcosa che la sostanza etimologica della visione trasmette: se infatti vedere viene dalla radice indeuropea WEID, che significa “ho visto e quindi so”, il testo ci mostra che per vedere realmente occorre sapre, dominare l’arte della nuova retorica, quella della battuta, del Witz. In questo Boccaccio cerca di dare la sua lettura dell’ ut pictura poesis, il precetto classico (Orazio) secondo il quale pittura e letteratura dovevano essere considerate allo stesso livello, ripreso da Cesare Ripa: “la poesia tace nella Pittura & la Pittura nella poesia ragiona”. Boccaccio anticipa e contribuisce a creare le premesse del Rinascimento, ergendosi contro la tradizione delle arti classiche (tra trivium e quadrivium), e afferma, implicitamente, una nuova triade di arti: le arti figurative (pittura e scultura), architettura e letteratura. Le vecchie professioni (medicina, giurisprudenza, clero) vengono ribassate, o meglio, private dell’aura che le contraddistingueva. Si afferma, al contrario, il principio di una nuova grammatica, quella della novella, basata sulla costruzione e sulla visibilità. Il flusso delle avventure scorre libero, fluente, vivace e ricco, senza soste: un frenetico rincorrersi dei protagonisti nella loro vita quotidiana fatta di “udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare” (Proemio, p. 3): non più cavalieri e dame medievali, ma protagonisti a cavallo del testo, una metafora che si svelerà nella sua ambiguità, come ambigua può essere la lettura della stessa Madama Oretta (VI, 1), portata a cavallo dal balbettante novellatore impotente.
In questa telegrafica novella tutto è centrato sull’arte del racconto, una storia sulla storia: più che raccontare una storia, racconta di come la storia, mal raccontata, cessa il suo effetto e provoca nella protagonista una crisi drammatica: “udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare”.
La velocità delle scene che si susseguono ricorda uno dei primi film del secolo, dove le azioni dei personaggi si svolgono rapide e ci danno il sapore della freschezza dell’origine ed il Decameron come un tutto appare come un libro cinematografico, fatto di movimento, laddove la Divina Commedia tendeva a coigliere un’istantanea essenziale, una figura, come una fotografia. La lunga novella di frate Cipolla è nuovamente destinata a mostrare gli effetti del discorso (una folla credulona è raggirata in mille maniere dal discorso menzognero del frate). Possiamo però considerare la prima novella nell’originale, che sarà l’ultima di questa raccolta, un capolavoro di ambiguità: Ser Ciappelletto realizza in punto di morte, davanti agli occhi stupiti dei suoi ospiti, una metamorfosi radicale della propria figura: da mentitore, truffatore e ladro (nonostante la sua onorata e tradizionale professione di notaio) a figura esemplare di santo in grado di provocare, dopo morto, miracoli. Il meccanismo della trasformazione avviene tramite una confessione, che solo i suoi ospiti e il narratore sanno essere falsa. L’accento principale del testo è sul verbo credere: “credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte confessandosi dir così?”(I,1, p. 44). La metamorfosi sarà completa, grazie a una distorsione in francese del cognome originale del personaggio (ser Cepparello), in Ciappelletto, la cui origine etimologica va ricercata in cappello, oppure ghirlanda (Almansi): giustificazione, a posteriori, della sua aura, adeguata alla sua fama. In questo il Decameron mostra la sua natura di classico: un libro che a una prima lettura appare singolarmente già conosciuto (tramite le infinite nuove versioni e imitazioni, in libri, film, brani teatrali) e che una nuova lettura mostra in luce sorprendentemente nuova.
Se il diavolo in corpo svela un diavolo del testo (il diavolo letteralmente dal greco “il calunniatore”) e nel corpo, il testo sconvolge anche l’illusione di una morale canonica, ufficiale. A prima vista è la legge della natura, l’erotismo, che prevale. Il cappello o l’aura legano idelamente, in questa selezione, la prima e l’ultima novella: in quella Masetto, finto sordomuto, alla fine della sua carriera torna al suo paese contento di aver “posto a Cristo le corna sopra ‘l cappello”(cit libera, III, 1, p. 238). Forse una sottile allusione all’aura di Ciappelletto e che fa della morale una questione di corna e aura quotidiana. La lotta fra bene e male è qui ridotta a parodia. Forse un’indicazione che l’etica del mondo è troppo viziata dalla retorica. Forse un preannucio che l’etica, quella nuova, va cercata nel testo.


Questa raccolta comincia con un rovesciamento (il diavolo) e termina con un’autorionia (Ciappelletto). L’ordine è stato arbitrariamente sconvolto. Emerge da un lato, il piacere del testo e, dall’altro, la sua elusività, una somma di incertezze propositali. Ciò che è (il realismo) viene svelato come non vero. Ma la messa in scena dello svelamento, il testo lo mostra, provoca una modifica di ciò che è. Il risultato è una trasformazione, uno scambio, una beffa. Una modifica della realtà, mentre si afferma l’incapacità di rappresentarla, il vizio della visione. Inoltre, la letteratura non è indispensabile perché esiste la legge o l’amore, senza letteratura.
Ma è solo la letteratura che trascende il puro contesto, il destino, il caso, la fortuna. La morale (quella tradizionale) non esiste. L’etica in letteratura non è che la letteratura dell’etica. Un’altra etica sorge solo quando si rimira la morte: qualcosa che è totalmente fuori dal contesto: eterno, immutabile. E quando si va all’origine della vita. La nuova etica del testo è la ricerca dell’effetto ingegnoso, arguto, vivace, intellignte, spiritoso. Ma, nel Decameron, c’è anche un’etica del sublime (come in Lisabetta, Guiscardo, falcone). L’affermazione, e il suo contrario. Appunto. La letteratura come arte e finzione.
Andrea Lombardi

[1] Mazzotta
[2]Gagnebin
[3] Mazzotta
[4] corsivo mio
[5]
[6] Mazzotta

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