domingo, 20 de junho de 2010

Dürer La prospettiva


Litografia di Albrecht Dürer (1525).

Si insinua nella cultura e tradizione occidentale l´idea di un realismo oggettivo, prodotto di un metodo scientifico.E vero, in parte, ma ciò nasconde una distorsione clamorosa. Analoga a quella che avviene nella notazione musicale, tramite la scala ben temperata e nell´ermeneutica, tramite il rifiuto di Platone della valenza della materialità del testo.

La novella del Grasso / Prospettiva rovesciata articolo

La prospettiva rovesciata

Una lettura de La novella del Grasso, di Antonio Manetti[1]

La novella del Grasso[2] è praticamente un racconto unico di Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497), esponente poliedrico della Firenze rinascimentale, nel suo molteplice aspetto di matematico, architetto, letterato, considerato in particolare un grande specialista dell’opera di Dante Alighieri, come Galileo Galilei confermerà autorevolmente quasi due secoli dopo[3]. Secondo la critica (op. cit., XVII), almeno tredici sono le versioni ispirate allo stesso tema: una burla realizzata da Filippo Brunelleschi (1377- 1446), architetto, scultore e pittore, e dalla sua brigata ai danni di uno dei suoi componenti, Manetto Ammanettini, il Grasso legnaiuolo, un artigiano intagliatore di ottimo livello. La burla “del Grasso legnaiuolo” è stata attribuita a Manetti solo recentemente, e sarebbe stata redatta nel 1489, cioè quasi 70 anni dopo l’evento famoso: una burla con un’eccezionale diffusione, tanto da far ridere la città di Firenze per molti decenni, dando vita a un numero enorme di versioni scritte. È singolare che lo stesso Filippo Brunelleschi non ne avesse lasciate che versioni orali. Lo stesso Manetti conferma l’esistenza di varie versioni, a conclusione del suo testo: “E ciascuno che la udì da lui, aferma che sia impossibile el dirne ogni particulare come ella andò… Perch’ella fu raccolta, poi che Filippo morì, da alcuni che l’udirono più volte da lui…”(op. cit., p. 43). Dunque, Manetti affronta una dichiarata impossibilità: da una parte considera la sua testimonianza essenziale, un contributo alla battaglia delle idee, momento dell’affermazione della rivoluzionaria prospettiva, da parte proprio di Filippo Brunelleschi. Nell’incipit della Vita di Filippo Brunelleschi, un testo che fa da contesto alla stesso racconto della burla, Manetti afferma: “Tu disideri, Girolamo, d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che tu amiri tanto, dicendoti io che la fu storia vera…”[4]. La verità affermata dal narratore del tema del suo racconto (della burla, del contesto, dell’ingegnosità di Brunelleschi, del mito che lo circonda, dell’essere l’architetto fiorentino il vero inventore della prospettiva) è, quindi, parte essenziale per la sua comprensione. Gli altri autori delle versioni precedenti della burla vengono criticati per almeno due motivi fondamentali: si tratta di testi incompleti e inveridici, testi che riportavano parte della burla, ma non il suo insieme, per le stesse dimensioni e per l’attendibilità, poco affidabili (“ma non era el terzo del caso, ed in molti luoghi frementata e mendosa”, ib.p. 43-4[5]).

Diversi sono gli elementi che fanno di questa novella del Grasso una novella sui generis: colpisce subito una singolare omofonia fra Manetto Ammanettini, il Grasso legnaiuolo, vittima della beffa, e Antonio Manetti, autore della versione scritta. Coincidenza questa forse del tutto casuale, poiché Manetti sostiene – difficile mettere in dubbio la sua intenzione – di aver ricostruito la realizzazione della beffa, come era accaduta realmente. Più rilevante è la vicenda di Antonio Manetti, considerato unanimemente discepolo di Filippo Brunelleschi, di cui avrebbe continuato l’opera in alcune costruzioni; inoltre Manetti viene descritto come un “ricercatore di notizie d’ogni genere spettanti la città”[6], un curioso delle cose del passato, le cose antiche: un “huomo diligente et molto accurato investigatore delle antichità”, definizione questa di G. Benivieni, suo contemporaneo, a cui il testo di Manetti viene dedicato[7]: colui che ricerca nei documenti del passato tramite lo strumento ‘moderno’ della matematica, come nei suoi studi studi, disegni, calcoli, su modelli matematici attribuiti a Dante Alighieri nella idealizzazione del suo Inferno, un tema che appassionerà per molti secoli i letterati, per cui Dante Alighieri non è tanto modello letterario, ma auctor, esempio da studiare e seguire. Il suo testo sarà pubblicato postumo, nel 1509, e si intitolerà: Forma e misure dell’inferno di Dante Alighieri[8], per cui il nostro autore verrà considerato unanimemente il fondatore degli studi sulla cosmologia dantesca.

Manetti occupa dunque nella sua epoca un posto certamente rilevante, che non si limita a quello di autore del testo della burla e della Vita di Brunelleschi, per cui è da noi ricordato. Galileo Galilei si riferisce proprio alle ipotesi di Manetti, come ipotesi degne di rispetto, nelle sue Due lezioni all’accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante[9], il cui esplicito fine è proprio quello di restituire credibilità a Manetti. Galileo afferma letteralmente, a difesa del virtuoso Manetti, “ingiustamente calunniato”:

“Ingegnandoci nel fine, con alcune altre nostre dimostrare qual più di esse alla verità, ciò è alla mente di Dante, si avvicini: dove forse faremo manifesto, quanto a torto il virtuoso Manetti ed insieme tutta la dottissima e nobilissima Academia Fiorentina sia dal Vellutello stata calunniata”.

L’opera di Manetti viene sottoposta a un attento esame:

“Venendo dunque all’esplicazione dell’opinione del Manetti, e prima quanto alla figura, dico che è a guisa di una concava superficie che chiamano conica, il cui vertice è nel centro del mondo, e la base verso la superficie della terra. Ma che? abbreviamo e facilitiamo il ragionamento…

Per Galileo, così come per l’insieme del mondo rinascimentale, Dante è un auctor e va creduto e studiato; i cerchi dell’inferno e le distanze tra il centro della terra e Gerusalemme sono distanze reali da verificare:

“Aviamo sin qui delle 1700 miglia, notate nella superficie sopra l’arco da Ierusalem alla sboccatura, distribuitene 1000 in assegnare le larghezze a i 6 gradi predetti: restanci dunque miglia 700 da distribuirsi per le larghezze de i cerchi rimanenti, ciò è per Malebolge e per il pozzo dei giganti; la quale distribuzione, perch’io la trovo tanto esquisitamente corrispondere alle larghezze che dal Poeta stesso al pozzo ed alle bolge sono assegnate…

Da qui una prima conclusione, che verrà via via ripetuta, “non senza stupore”, che occorre dare ragione a Manetti:

[Ciò] m’induce, e non senza stupore, a credere, la opinione del Manetti in tutto esser conforme all’idea conceputa da Dante di questo suo teatro.”

“…indubitatamente potremo affermare, con maravigliosa invenzione avere il Manetti investigata la mente del Poeta.”

“…Mirabilmente, dunque, possiamo concludere aver investigata il Manetti la mente del nostro Poeta[10]

Per ben tre volte nel testo Manetti è citato come esempio e ammirato. Galileo si preoccupa di ricostruire la verità delle misure dell’Inferno di Dante, quasi si trattasse di misure naturali, con l’accanimento di Galileo di applicare al passato, così come all’universo presente, il nuovo metro di misura matematico. Lo stupore di Galileo, quindi, rispetto alle misurazioni di Manetti è determinato dal fatto che quest’ultimo aveva già trovato e riconosciuto le giuste misure. L’anelito di ricercare la verità nella storia è oggi, quasi cinque secoli dopo, meno importante. É sintomatico che la Vita di Brunelleschi, inizia con un’ideale dedica a Girolamo Benivieni, afferma: “Tu disideri, Girolamo, d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che tu amiri tanto, dicendoti io che la fu storia vera…”[11]. L’accento, nella novella di Manetti, ricade proprio sull’agettivo vera. “Dicendoti io che la fu storia vera”, afferma il narratore a Girolamo. E il testo continua: la novella non dovrà essere letta “come una favola come se ne scrivono molte“. Il narratore ritorna sempre sul suo punto di vista: “perché tu legga la novella come vera”. Il destinatario, dunque, come lettore ideale, viene richiamato a uno sforzo intellettuale. Con lui il narratore stabilisce il suo patto: “e perché, mediante questo caso, col tuo ingegno tu lo penetri tutto, che a te fia assai più agevole che a dimolti altri…” (op. cit.). Per Manetti, dunque, la ricostruzione della verità nella storia è fondamentale. La “natta”, di cui si parla nel testo, è una delle molte variazioni semantiche della parola “burla”[12]. Se la burla è di origine incerta e proviene dallo spagnolo, la beffa è parola di origine onomatopeica[13], la giarda, invece, viene dall’arabo e significa, singolarmente, “tumore osseo”, “burla”, “bugia” (Devoto, op. cit.). La trappola viene dal longobardo “laccio”. Nel testo si usa anche uccellare: “andare a caccia di qualcosa con qualsiasi mezzo”, che diviene sinonimo di “ingannare” e, finalmente, appare anche un vignare, la cui provenienza è sconosciuta. Questa significativa varietà semantica, attesta l’uso comune della burla nella società dell’epoca. Si tratta di un’ attività dell’ingegno “moderno”, forma di esercitazione dell’astuzia, della pianificazione, dell’ironia. Con essa, la brigata, o meglio i suoi elementi culturalmente e socialmente egemoni, mostrano il proprio potere intellettuale. La burla come attività sociale, ma anche come richiamo al modello intellettuale del Decameron di Giovanni Boccaccio. La burla come una forma dell’attività ludica del convivio umano, come una forma di affermare l’ingegno come una nuova retorica, come arma per l’affermazione della gerarchia sociale e culturale della brigata. Si tratta di quella brigata medievale, che già si conosce tramite un episodio famoso nella Divina Commedia (Guido Cavalcanti che snobba la sua brigata che lo persegue) nucleo di una rivoluzione delle classi e superamento delle corporazioni medievali. La beffa ai danni del Grasso, che per noi moderni è di estrema e ingiustificata brutalità psicologica, come si vedrà, avviene apparentemente perché il Grasso diserta – senza giustificazione suficiente – una cena della brigata. Del gruppo fanno parte oltre al leader carismatico Filippo Brunelleschi anche Donatello (Donato de’ Bardi, 1386 – 1466), il cui ruolo decisivo nell’immaginario occidentale è stato enfatizzato da Camille Paglia[14]. Altri membri eletti della società artística della Firenze dell’epoca fanno parte della brigata che, dietro un’apparenza di riunione allegra e conviviale, è carica di un profondo significato sociale:

“Perché era di verno, quando in disparte e quando tutti insieme quivi di varie e piacevoli cose ragionando, conferivano intra loro la maggior parte de l’arte e professione sua” (Manetti, op. cit., p. 3).

Scopo sociale esplicito della riunione, quindi, era la manutenzione dei legami sociali e la realizzazione di un grupo di pressione, lo scambio di informazioni di reciproco interesse e la conversazione su aspetti specifici della propria professione. La coilpa del Grasso è piccola: si tratta di un’assenza a una delle cene del convivio e, per di più, il Grasso stesso, vittima della burla, aveva anche avvisato un suo amico della sua eventuale assenza. L’offesa è rilevante ai danni della brigata, tanto più che il Grasso viene descritto come appartenente a un gruppo sociale lievemente inferiore, anche se accolto dai leader carismatici, come il testo afferma:

“infra alle altre cose egli aveva fama di fare molto bene e colmi [tavolette] e le tavole d’altari e simili cose, che non era per allora atto ogni legnaiuolo; ed era piacevolissima persona, come sono la maggior parte de’grassi, e invero più presto aveva un poco del semprice che no…”.

Il Grasso era piuttosto semplice, non tanto e non solo perché ingenuo (si vedrà durante lo svolgimento della beffa); essendo un artigiano, egli è di strato sociale più umile, condizione inferiore a quella degli architetti, pittori e scultori quali Brunelleschi, Donatello e Tomaso Pecori, presso la cui casa la cena era stata organizzata. Pur visto sotto una luce positiva (un semplice, ma piacevole “come tutti i grassi”), reca un’offesa terribile alla brigata, la disonora sopratutto “perché generalmente erano quasi tutti di migliore qualità e condizione di lui”…(p.4). Secondo Nino Borsellino (op. cit., p.74), che riprende il modello di André Rochon, sono nove gli episodi nella novella. Schematicamente, si tratta 1) della La cena iniziale; 2) Il Grasso lasciato fuori della sua stessa casa; 3) viene organizzato e realizzato il suo arresto; 4) Il Grasso si trova in prigione; 5) A Santa Felicita, dai ‘fratelli ‘ di Matteo; 6) Ritorno a casa e inversione degli oggetti; 7) Le discussioni di S. Maria del Fiore; 8) La rivelazione della beffa; 9) Epilogo.

La novella è complessa, coinvolge Brunelleschi e Donatelli, rappresentanti autorevoli della Firenze dell’epoca, e deve essere inserita, pertanto, in un contesto culturale maggiore. Lo stesso personaggio di Brunelleschi è complesso, a partire dalle polemiche prese di posizioni che caratterizzao la sua vita e dall’insieme degli aneddoti che ne sono originati. Di Brunelleschi occorre mettere in risalto l’audacia al limite della temerarietà, di cui testimonia la costruzione della cupola di Santa Maria in Fiore, con la sua elevata curvatura e senza l’uso di impalcature. Occorre finalmente considerare che Brunelleschi è stato l’autore di decisivi studi sulla prospettiva, e che con lui la questione della prospettiva abbandona un trattamento intuitivo, per assumere un aspetto scientifico, avendo inventato la prospettiva matematica (o sistematica) e avendolo esemplificato tramite l’introduzione di un suo personale metodo, conosciuto come quello delle tavolette. Contrapposto dai più a Leon Battista Alberti, autore del De pintura (redatto nel 1435 e tradotto dall’autore in italiano nel 1436), Brunelleschi non ha lasciato scritti teorici, per ragioni sconosciute. Per Júlio Katinsky[15] questa mancanza si deve alla sua lacunosa formazione classica, ma è possibile che il tema non fosse ancora così premente, da dedicarvi uno studio erudito a sé. Antonio Averlino (1400-1469 circa), detto il Filarete[16], autore di un trattato scritto nel 1452, pochi anni dopo la morte di Brunelleschi, è il primo a riconoscere a quest’ultimo il merito dell’invenzione[17]. La descrizione delle tavolette, realizzata in parte nella Vita di Filippo Brunelleschi proprio da Antonio Manetti, deve essere stato un avvenimento sorprendente e che deve aver attirato l’attenzione di tutta la città. Eccone il riassunto fattone da Manetti[18]:

“egli aveva fatto un buco nella tavoletta dov’era questa dipintura … e pareva che si vedessi ‘l propio vero; e io l’ho avuto in mano e veduto più volte a’mia dì, e posssone rendere testimonianza.”

  1. Ironia e prospettiva

Si può esaminare la novella dal punto di vista delle analogie tra l’episodio della tavoletta inventata da Brunelleschi e alcuni aspetti dello sviuluppo della novella. Il modello di Brunelleschi si caratterizza per una reductio ad unum: il mondo visto tramite un unico luogo privilegiato, un buco conico nella tavoletta: lo sguardo sul mondo ridotto a un punto di vista unico, calcolabile, terreno e oggettivo, senza più ingombranti influenze religiose, apparentemente senza ne pathos ne ethos. È il mondo come effettivamente è, o come appare. C’è da considerare che il buco da cui guarda Brunelleschi, in fondo, è simile alla posizione di Brunelleschi come architetto, realizzatore, voyeur e istrione, che segue controllato e divertito passo passo lo sviluppo della beffa, incamerando il tutto nella sua memoria: “e Filippo aveva tutto bene notato e riposto alla memoria” (op. cit., p. 24) . La tensione del racconto, l’abbondanza dei particolari, la ridicolarizzazione del Grasso fanno pensare alla commedia, poiché l’insieme delle scene è teatrale, così come è teatrale l’inizio della beffa, con Brunelleschi che si fa passare per il Grasso di fronte al Grasso stesso, in un virtuosismo trasformistico da attore di consolidato, in un paradosso inverosimile da situazione veramente estrema (aver scelto proprio il Grasso in questo esperimento temerario è già in sé un elemento dell’ingegno).

L’insieme del testo ci mostra una trasformazione del Grasso, da individuo con una sua storia, un suo nome, delle sue abitudini in un qualcuno radicalmente altro: il Grasso viene costretto a convincersi che si sta trasformando (o si è trasformato) in Matteo, della cui esistenza era al corrente, ma che non conosceva personalmente. Il procedimento di perdita della sua identità lo porterà, nel corso della novella, a varie posizioni: a) da un opportunismo iniziale (il Grasso pensa: “sarà bene dichiararmi Matteo”); b) alla paura di essere sottoposto a un’operazione magica (vengono evocate le metamorfosi in Apuleio, con una minaccia di trasformazione irreversibile nell’altro); c) infine, all’accettazione senza più proteste, della nuova identità, segno della sua rassegnazione. A rigore, si tratta di un movimento dal conosciuto e familiare allo sconosciuto e il perturbante, cioè dall’heimlich all’unheimlich: il Grasso, infatti, ha un carattere allegro, come il testo segnala, vive con la madre nella sua casa, nella sua bottega, nella sua città, nel suo quartiere, con le sue amicizie. Tutto viene brutalmente sacrificato alla logica della burla, specificata dalla novella, in nome di una vendetta che si presenta come un gioco, brutale e cinico, teso e pianificato come un progetto, un orologio, un trattato.

Il rovesciamento della prospettiva, della visione del Grasso, nella novella, equivale al momento in cui lui dovrà dichiarare che ha assunto la personalità di Matteo (o forse non è solo una dichiarazione, il Grasso sarà effettivamente Matteo? In una geniale e precisa mise en abyme, proprio al centro preciso del racconto, il Grasso (che si crede ormai definitivamente Matteo) viene drogato e messo nel suo letto a casa sua, ma all’incontrario, la testa al posto dei piedi. Insieme a lui, tutti i suoi utensili, tutto il suo mondo, verrà rovesciato simbolicamente. Il mondo rovesciato o il mondo al contrario, un simbolo della pazzia che, all’epoca, era associato alle stranezze di Filippo Brunelleschi. Pazzia, a sua volta, come simbolo di un mutamento radicale del punto di vista. Avremo nella novella la precisazione di almeno tre diversi e divergenti punti di vista, tra loro allo stesso tempo incompatibili, interdipendenti e integrativi: quello di Filippo, architetto e realizzatore della burla, quella della realtà, cioè della gente, dell’opinione popolare e pubblica. Infine, quello del Grasso. Manetti insiste sul secondo aspetto, l’aspirazione alla realtà. Nel commenta alle altre versioni della novella, le versioni precedenti alla sua e che rimontavano ai resoconti orali dello stesso Filippo: “sicché qualcuna delle parti molto piacevoli non sieno rimaste indietro, come la raccontava Filippo e come ella era stata invero…”. Come era stata invero, cioè nella realtà oggettiva, più completa della visione dello stesso artefice, Filippo. Infine, e questo è veramente sorprendente e nuovo, si ha nella novella il racconto della prospettiva delle cose dal punto di vista della vittima, cioè dello stesso Grasso, durante il suo processo di trasformazione.

Questa nuova verità sarà un elemento scatenante poiché equivale alla conquista di un mondo nuovo, che è quello psicologico, che si svolge e si realizza – al contrario della prospettiva matematica – tutto all’interno del personaggio stesso. Quando il Grasso tornerà a Firenze dopo la sua fuga in Ungheria, incontrerà proprio Filippo a Firenze. Sorprendentemente, il Grasso mantiene con Filippo un vincolo che se non è di vera e propria amicizia, sicuramente sarà di ammirazione e rispetto, quasi di stupore per la maestria esibita dall’architetto:

“E venne poi in Firenze più volte in ispazio di più anni per più mesi per volta…gli disse [il Grasso a Filippo] questa novella ridendo continovamente, con mille be’ casi drentovi, che erano stati in lui propio, che non si potevano sapere per altri, e dello essere el Grasso e del non essere, e s’egli aveva sognato, o se sognava quand’egli ramemoriava el passato…” (op. cit., p. 42)

In questo brano (“Essere e non essere il Grasso”) il testo passa improvvisamente da un registro realistico e ironico a un terreno filosofico, quasi esistenziale. L’espressione significa qui probabilmente la dissoluzione esplicita e pianificata di una “verità”, legata a un punto di vista soggettivo, arbitrario e vuole difendere un nuovo punto di vista, una prospettiva, che favorisca una comprensione dell’insieme dell’universo in maniera omogenea, proprio analogo alla visione delle cose e del mondo che traspare dal foro della tavola… Un foro, un universo, un occhio, un mondo. Un unico mondo possibile, che presuppone l’esperienza di un altro mondo, di un doppio, un mondo “di retro al sol, del mondo sanza gente”, come afferma Dante a proposito della sua revisione iconoclasta e ribelle del personaggio classico di Ulisse[19]. L’esperienza di un mondo dell’unheimlich, o della pazzia, necessaria per raggiungere la totalità.La prospettiva, dunque, agisce sull’immagine come l’ironia come figura retorica: si tratta di un rovesciamento totale che svela il meccanismo della rappresentazione, edifica una nuova visione del mondo e, allo stesso tempo, mette in discussione il mondo così com’è[20].

Nel caso della novella del Grasso la realizzazione della beffa evidenzia la strategia architettonica di Filippo: audace, tesa, temeraria. Lo si vedrà quando gli aiutanti di Filippo metteranno il Grasso di nuovo a casa sua, ma con la testa al posto dei piedi. Il testo commenta: “e loro sapevano tutto, che veghiavano [vigilavano] ogni cosa” (op. cit., p. 25). La strategia di Filippo equivale a mettere a nudo la trasformazione del punto di vista: da quello della realtà (“invero”) a quella di Filippo, a quella del Grasso che si trasforma e diventa Matteo. L’ironia, in effetti, è un fenomeno il cui valore si realizza pienamente nella tensione, che non si può realizzare che in una situazione di intermediazione, aperta a successive interpretazioni, che nel testo si mostra esitante e ancora indecisa (“in una situazione intermedia fluttuante e indecisa” Alleman, op. cit.[21]. In forma analoga possiamo verificare questa tensione fra varie linee che tendono a convergere verso l’infinito, dove il punto di fuga equivale alla mise en abîme del testo, trasmettendo una falsa sensazione di stabilità. Il messaggio letterale non ha più una funzione assertiva. Il contrasto ironico è inizialmente una dissimulazione, elemento rappresentato perfettamente nella novella da Brunelleschi che si finge il Grasso. Nella novella è la parola che ha la funzione principale e l’artificio è destituire la parola del suo valore semantico, fino all’estremo di destituire il nome dal suo significato di riconoscimento. In questo la novella del Grasso sviluppa da una parte il comico, che risale certamente al modello del Decameron di G. Boccaccio (Borsellino, op. cit.). In particolare, quando pone l’accento sul motto di spirito (il Witz freudiano), nella sesta giornata. In Manetti, però, l’obiettivo dell’indagazione. non è più la parola arguta, ingegnosa, spiritosa, ma la parola limite, la frontiera dell’umana percezione, il mondo sanza gente, di retro al sol.

  1. L’ambiente

L’ambiente nel quale si svolge la beffa è quello naturale dei personaggi, tipico per Firenze, centralissimo e caratterizzato da almeno due luoghi legati all’attività di Filippo: S. Maria in Fiore e Santa Felicita, luogo d’incontro della brigata il primo, luogo in cui il Grasso “diviene l’altro”, il secondo. Dal 1409 Brunelleschi era stato attivo nel cantiere di Santa Maria del Fiore, mentre a Santa Felicita risulta che abbia lavorato; proprio Manetti è considerato il suo continuatore in questa costruzione. Il 1409 è significativamente lo stesso anno della beffa e Giorgio Vasari nelle sue Vite racconta che Filippo aveva affidato a un intagliatore chiamato Bartolomeo la costruzione di un modello di legno. Il progetto di Filippo per la cupola di S. Maria del Fiore vince il concorso del 1418 e nel ’23 gli fu affidata la completa responsabilità dei lavori. Il completamento di questa opera chiave, basata su una tecnica che permetteva di realizzare l’enorme cupola senza bisogno di armature, occupa quasi l’intero arco della sua vita e getta le basi dell’architettura rinascimentale. Conclusa nel ’34 la struttura, nel ’36 fu messa in opera la lanterna di completamento, realizando una delle più grandi imprese del Rinascimento. Il cantiere tenne impegnati per anni i fiorentini in dibattiti e concorsi e, una volta realizzata grazie al genio di Filippo Brunelleschi, diventa il simbolo stesso della città e della nuova, rivoluzionaria, architettura rinascimentale: realizzare e coprire uno spazio di 45,5 metri di diametro senza armature su cui poggiare era veramente impensabile prima di allora.

È qui che occorre valutare la centralità della figura di Brunelleschi e la forza di suggestione delle sue ‘trovate’ audaci, tra cui quella della prospettiva. La beffa ai danni del Grasso può essere vista anche come una temeraria iniziativa, una ‘lotta di carattere ideologico’, per far piazza pulita delle concezioni tradizionali e conservatrici e affermare la nuova visione, quella della prospettiva matematica. La tensione, l’architettura della novella, i suoi punti estremi (la mise en abîme a metà del testo e l’ipotesi di uno specchio ideale, nella novella): tutto fa credere a un modello analogico, costruito per rendere più accettabili e credibili gli enormi cambiamenti che la nuova visione matematica attraverso la prospettiva avrebbero portato.

Il testo sottolinea l’ ammirazione e il rispetto che il lettore ideale (una proiezione del pubblico ideale dell’epoca) aveva per Brunelleschi: “Tu disideri, Girolamo d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che ti amiri tanto,”(op. cit., p.47). Brunelleschi ammirato come genio rinascimentale carismatico, ma anche temuto per la sua follia. Dice di lui Vasari[22]:

“Parve a’ Consoli, che stavano ad aspettare qualche bel modo, et agli operai et a tutti que’ cittadini, che Filippo avessi detto una cosa da sciocchi, e se ne feciono beffe ridendosi di lui, e si volsono, e li dissono che ragionassi d’altro, che quello era un modo da pazzi, come era egli. Del che, parendo a Filippo di essere offeso, disse….

[ c’è un processo ?...] Laonde, licenziatolo parecchi volte et alla fine non volendo partire, fu portato di peso da i donzelli loro fuori dell’audienza, tenendolo del tutto pazzo. Il quale scorno fu cagione che Filippo ebbe a dire poi che non ardiva passare per luogo alcuno della città, temendo non fussi detto: “Vedi colà quel pazzo”. Restati i Consoli nella audienza confusi, e da i modi de’ primi maestri difficili, e da l’ultimo di Filippo, a loro sciocco, parendoli che e’ confondessi quell’opera con due cose: l’una era il farla doppia, che sarebbe stato pur grandissimo e sconcio peso, l’altra il farla senza armadura.” (sott. mia)

  1. La pazzia.

La pazzia costituisce, dunque, un elemento che nella novella appare insistentemente. È anzi l’elemento conduttore della vera e propria trasformazione del Grasso, da Manetto Ammanettini a Matteo e viceversa. Insieme alla questione dell’identità, costituisce il nucleo centrale del testo. “Filippo finse che chi parlassi fussi quello Matteo che volevano dare a ‘ntendere al Grasso che fussi diventato…” (op. cit., p. 8). Il capolavoro architettonico di Filippo si realizza tramite una costruzione più complessa. Il Grasso, evidentemente influenzabile (lo sarà durate tutta la sua storia) dichiara: “e’ mi pare che costui che è su sia me…” (ib.),. Poi rimane come stupefatto e come smemorato e.. si cominciava quase a dare a ‘ntendere d’essere”, (op. cit., 9), cioè comicia già a credere di essersi trasformato. In prigione, dove “quasi per certo gli parve essere un altro” (op. cit.10, sott. mia) fino a che debb’io fare s’io sono diventato Matteo… E in su questi pensieri, affermando ora d’essere Matteo e ora d’essere ‘l Grasso” (op. cit., 11). Una deliziosa storia presa dalle Metamorfosi di Apuleio, raccontatagli da messer Giovanni da Prato in prigione – qui appare l’elemento fortuna in aiuto all’ingegno – finisce per imporre al Grasso la paura di non poter mai più ritornar a essere il Grasso. La pazzia è simbolizzata nella novella dal rovesciamento di tutti gli elementi del mondo del Grasso, dopo essere stato drogato.

“Entrò subito in una fantasia d’ambiguità, s’egli aveva sognato quello, o se sognava al presente (op. cit., p. 26)… E uscito de letto… vide in comune ed in particulare tutte le masserizie travolte. Ed essendo ancora nello inistrigabile pensiero di camera, veduto questo, in un punto da nuovi pensieri fu assalito, cancellando tutti que’ vecchi.“ (op. cit. 27, sott. mia)

Questo rovesciamento letterale (che allude a quello simnolico) è opera degli aiutanti di Filippo, che avevano messo il Grasso nel suo letto, da capo a pie’. Gli stessi aiutanti capovolgono il luogo dei suoi utensili:

“[I suoi] ferramenti da lavorare tramutarono da uno luogo a un altro; e così feciono de’ ferri delle pialle, mettendo dove stava el taglio di sopra… tutta la bottega travolsono, che pareva vi fussino stati dimoni: e trambustato ogni cosa, riserrarono la bottega…” (op. cit., p. 26, sott. mia).

Sarebbe facile collegare questo rovesciamento, specialmente con l’ausilio del demonio evocato, alle teorie di Bakhtin sul carnavalesco. Eppure, a quel che sembra, la pazzia simulata (dal Grasso, all’inizio), evocata (l’effetto vero di una privazione dell’identità, cioè del mondo), allusa (la pazzia in quanto audacia di Brunelleschi) sembra costituire un messaggio autoreferenziale sul linguaggio stesso della rappresentazione, cioè la scelta di un cammino irreversibile che la prospettiva apre. Come il superamento delle due colonne d’Ercole, anticipate dal viaggio di Ulisse nella Commedia di Dante Alighieri e effettivamente lasciate indietro pochi decenni dopo nell’impresa Atlantica.

  1. 4. La nascita del narratore onnisciente: i precedenti letterari de La novella del Grasso

Il testo della novella allude esplicitamente alla novella di Calandrino, il pittore disastrato del Decameron di Giovanni Boccaccio. “La città di Firenze ha avuto molti uomini sollazzevoli e piacenti ne’ tempi adietro”, afferma Manetti. E la novella VIII, 3 “Nella nostra città, la quale sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino…”[23]. Il Grasso esclama: “Ohimé! Sarei io mai Calandrino, ch’io sia sì tosto diventato un altro sanza essermene avveduto?” (p. 9), segno che la parentela con il Decameron non vuole essere assolutamente occultata. Al di là del fatto che Calandrino non si tramuta in un altro, ma sparisce (nella novella di Boccaccio Calandrino e l’eliotropia), il Decameron è evidentemente il grande modello di una novella che, paradossalmente, vuol essere estremamente realistica. Al Decameron, comunque, attingono commedie e teatro rinascimentale, come già mostrato con l’esempio di Calandrino. Ma che si tratti di Calandrino, insieme a Buffalmacco e Giotto, gli unici tre pittori protagonisti nelle novelle del Decameron, è ancora più interessante. La novella sgrana così un fronte consistente di ambiguità o ambivalenze: si tratta di un testo letterario con pretese storiche, o la pretesa storica è solamente una proclamata illusione referenziale (obbligatoria dato il tema?). In fondo, conosciamo già da T. Todorov il ragionamento sulla fiction applicata alla storia, in Morales de la história[24], quando mostra che, sì, il testo attribuito a Amerigo Vespucci avrebbe potuto essere stato scritto da un ghost writer della Firenze medicea dell’inizio del Cinquecento, per cui l’America, nome dato al Continente conquistato, è un nome di fatto illegittimo.

Nel testo fa capolino anche la tensione sviluppata dalla querelle fra letteratura e pittura, nella contrapposizione evocata fra Giotto e Boccaccio, fra il pittore più noto del Trecento e la sua aspirazione al vero (come dice il narratore Boccaccio nelle conclusioni dell’autore del Decameron) e lo scrittore che Boccaccio sa di essere aspirante a testimone della storia dell’epoca. Tanto più perché nel caso di Filippo Brunelleschi e di Manetti, stesso la pittura, insieme alla scultura e all’architettura, costituiscono la base, il contesto di vita e di lavoro dei personaggi, sia nella vita ‘reale’, che in quella della burla, che la rispecchia. La doppia tensione attribuisce al testo una vivacità culturale e spinge a cercare altre valenze possibili, di un testo. Riappare nella novella la querelle fra Giotto e Boccaccio, evocata tramite il personaggio del pittore Calandrino, e che trova nelle Conclusioni del narratore Boccaccio la sua esplicitazione[25]. Inoltre dai critici[26] viene ricordata la parentela con Geta e Birria di Ghigo d’Attaviano Brunelleschi e Domenico da Prato (del sec. XII), a loro volta un rifacimento da Plauto: Geta, ossia il dio Aracde torna dal porto, trova l’uscio sbarrato e ha un colloquio con il finto Geta. Si tratta, dunque, paradossalmente, di una novella che partendo da aspirazioni iperrealiste, assume una proposta, allusioni e riferimenti iperletterari. Difatto, si può affermare che con la novella del Grasso nasce il narratore onnisciente, colui cioè che – grazie alle dritte del Grasso trasmesse a Filippo e da questi ritrasmesse ai posteri, ai lettori – conosce la psicologia del Grasso, quella di Filippo e quella del mondo di Firenze dell’epoca. In effetti, la novella del Grasso, con la sua aspirazione al realismo ‘obiettivo’(come la prospettiva), si richiama, in due punti decisivi, a modelli letterari precedenti.

È proprio questa l’epoca che ha creato l’illusione referenziale, di cui parla il critico Michael Riffaterre: « Il testo poetico è autosufficiente: se esiste un riferimento esterno, non si tratta di una riferimento al reale, al contrario. Non ci sono riferimenti esterni che ad altri testi.“[27]. L’idea di reale, contesto, mondo, referenzialità nel Rinascimento è certamente differente dalla nostra, così com’è difficile definire qual’è attualmente la nostra nozione di reale (postmoderna, poststrutturalista, decostruzionista oppure, influenzata dagli gender studies). Si può affermare che nel Rinascimento avviene la costruzione di un modello, che sarà decisivo per l’affermazione del nostro modo di ‘vedere’, percepire, riprodure a) la ‘realtà’, ammettendo che esista o che abbia senso usare una tale categoria, b) quello che noi di volta in volta possiamo definire ‘realtà’. Prendiamo per es. il concetto lacaniano di reale. Il reale per Lacan è il reale della nostra mancanza, del fatto che noi non siamo [28]. Il reale è un termine negativo, qualcosa di irraggiungibile (almeno senza l’aiuto dell’analista). Il testo realista, pertanto, non è fedele alla realtà referenziale, bensì al genere stesso, in quanto insieme di procedimenti formali il cui obiettivo è l’effetto del reale: motivazione, coerenza, descrizione, ecc. La relazione che si stabilisce fra il pittore rinascimentale e il suo fruitore è assimetrica, poiché l’illusione referenziale maschera l’illusione di essere confrontato con “la realtà così com’è”, senza più la mediazione.

La novella, il narratore lo sottolinea, dovrà essere considerata vera, il paragone sono le favole, frottole, menzogne, inverità che vengono seminate. Menzogne anche a proposito di una questione fondamentale che a Manetti sta a cuore: chi è stato il vero inventore della prospettiva. La cura con cui le date vengono esposte mettono in chiaro questo aspetto. Il vero motivo per saperne della vita di Brunelleschi non è la sua importanza, ma il fatto di essere stato autore della natta. La vita, dunque, in funzione di contesto, di corollario. Una specie di focalizzazione assoluta: i riflettori sono proiettati sulla burla, sulla sua rappresentazione, non sul personaggio, anche se questo dominerà in maniera incontrastata il racconto.

Nell’epilogo, il narratore Manetti appare e si inserisce in una lunga lista di redattori della stessa storia, raccolta dopo la morte di Brunelleschi. Scritta, secondo Manetti, da almeno altri nove redattori e “da molti altri…”. Tra questi ci sono il fratello di Masaccio e Luca della Robbia. Feo Belcari è l’unico letterato del gruppo dei redattori della burla. Manetti, dunque, pur non essendo un testimone “oculare” riesce a trasmettere alla posterità due terzi sconosciuti della storia, che altrimenti sarebbero andati perduti. E lui stesso ci garantisce, contrapponendo qui menzogna alla verità di “una storia vera”, affermata all’inizio del testo della burla, di essere afidabile e onesto (“la storia vera che si dice…la Novella del Grasso, op. cit. p. 77), una storia narrata con precisine e puntiglio, quasi con pedanteria.

5, ut pictura poiesis

In fondo, la Novella del Grasso potrebbe essere messa in un punto preciso e infinitesimale (3 millimetri è, precisamente, la larghezza del foro nella tavoletta), un punto d’incontro fra pittura e poesia, nel senso della letteratura nel suo insieme. L’ipotesi del presente testo è che la giustapposizione è possibile proprio in un momento di enormi cambiamenti, nel contesto dell’epoca: le colonne d’Ercole verrano travalicate dopo pochi decenni; la commedia assume una forma stabile e così la narrativa; si ha, infine, una distanza concettuale fra interpretazione della realtà e trascendenza. L’introduzione della prospettiva che è certamente un movimento di vari decenni e forse secoli, che s’intravvede già in Giotto e in altri pittori, diviene adesso imprescindibile, proprio per la vocazione spaziale e meno temporale del mondo. È vero sì che la prospettiva non corrisponde, come afferma, a una vera obiettività. Come afferma Pierre Francastel in Burke Cultura e società nell’Italia del Rinascimento (op. cit., p. 35): ”La prospettiva lineare non corrisponde ad un progresso assoluto dell’umanità verso una rappresentazione sempre più adeguata del mondo esterno su una superficie bidimensionale; è un sistema di convenzioni come qualunque altro”. Contrariamente al movimento di ascensione relativa della pittura in rapporto alla letteratura, qui la letteratura fornisce un modello di comprensione, un’anticipazione rispetto ai grandi movimenti che verranno introdotti, un’esercitazione concettuale per la realizzazione di grandi compiti a cui i contemporanei e i posteri saranno sottoposti. Non tanto, quindi, e non solo un conflitto e una tensione fin dal tempo di Orazio e, prima ancora, di Simonide (citato da Harald Weinrich nel suo Lethe), o un’opposizione come quella tra Boccaccio e Giotto, quanto un punto di sutura tra un ieri (senza prospettiva e senza mondo unitario) e un domani che non potrà essere visto senza prospettiva o che senza questa rimarrà incomprensibile, incompleto, muto.

Una possibile indagazione futura

Panovsky afferma che “manca all’antichità continuità e concetto di infinito”[29]. Un’affermazione interessante che permette di ventilare un’ipotesi audace: che il concetto di infinito sia stato introdotto dalla tradizione culturale ebraica, già in contatto da centinaia di anni con quella occidentale. Nella tradizione occidentale, però, in contrasto con il concetto di a-peiron, cioè non-finito della tradizione greca, esiste la tradizione ebraica, nella quale affiorano tre elementi: 1. Una scrittura alfabetica, che afferma una religione alfabetica monoteista (come afferma Jack Goody). 2. il principio della permutazione delle lettere (in particolare con Abraham Abulafia, ma anche nella tradizione del Golem). 3. Il nome di Dio[30] che viene legato al concetto di infinito, En Sof dei cabalisti. L’infinito, dunque, nella tradizione ebraica, è un concetto astratto, ma positivo, legato a un potere enorme, il che gli permette di entrare nella tradizione occidentale come simbolo positivo. Un’ipotesi tutta da dimostrare, in un mondo delle certezze. Per concludere: la pittura e la letteratura nella loro fase dello specchio[31].

Nel corso del racconto, il contesto della beffa viene significativamente arricchito da una serie di varianti sgargianti: lo stesso termine beffa, di origine etimologia incerta o onomatopeica, si arricchisce con una grande varietà di sinonimi, attestati da vari dizionari:

natta, con una significato origine incerta [dallo spagnolo]

giarda: dall’arabo: tumore osseo, burla, bugia

uccellare: andare a caccia di qualcuno con qualsiasi mezzo = ingannare, ma anche, con il significato, in portoghese: “guardar sempre alguma perturbação” (op. cit., p. 113, o nell’originale (“chi una volta comincia a dare questi segni… sempre è uccellato”, p. 20)

vignare (non presente sul dizionario).


[1] Pelo contexto da mesa-redonda do encontro do Projeto Cicognara (Unicamp, setembro de 2002), o texto da comunicação foi apresentado em língua italiana e nesta língua está sendo reapresentado aqui.

[2] La novella del Grasso In Antonio [di Tuccio] MANETTI. Vita di Filippo Brunelleschi [Intr. G. Tanturli. Note Domenico De Robertis] . Milano: Il Polifilo, 1976. Si tratta di un’edizione critica che conferma l’attribuzione del testo all’architetto fiorentino, pur senza una prova definitiva (si vedano le osservazioni a Introduzione, XIV).

[3] ??

[4] Le citazioni saranno, d’ora in poi, da Manetti, Antonio. Vita di Filippo Brunelleschi. Preceduta da La novella del grasso. Ed. critica: Domenico de Robertis. Intr. e note.: Giuliano tanturli. Milano: Il Polifilo, 1976. Op. cit., p. 47

[5] Non era, non conteneva che un terzo della burla, ed in molti aspetti si trattava di testi frammentari e inesatti.

[6] Michele Barbi, in Nino Borsellino. La tradizione del comico. Milano: Garzanti, 1989, p. 69-70

[7] Op. cit., in Intr. Vita, XV

[8] Cristoforo Landino e Girolamo Benivieni, primi editori della Commedia di Dante Alighieri, riporteranno i risultati di queste ricerche nelle edizioni del 1481 (Nicolo di Lorenzo della Magna) e del 1506 (Firenze: Filippo Giunti). Girolamo Benivieni pubblicherà nel 1506 il Dialogo circa al sito, forma e misura dell’Inferno di Dante di A. Manetti.

[9] In GALILEI, G. Scritti letterari. Firenze, 1970 [ a c. di A. Chiari]

[10] Op. cit.

[11] Le citazioni saranno, d’ora in poi, da Manetti, Antonio. Vita di Filippo Brunelleschi. Preceduta da La novella del grasso. Ed. critica: Domenico de Robertis. Intr. e note.: Giuliano tanturli. Milano: Il Polifilo, 1976. Op. cit., p. 47

[12] DEVOTO, Giacomo. Abvviamento all’etimologia:

[13] DEVOTO, op. cit. beff : “interiezione dispregiativa”.

[14] Per questa autrice, in Sexual Personae, il Perseo di Cellini (1550) è influenzato dal Davide di Michelangelo (1510), che a sua volta ha come modello il Davide di Donatello (1430-32), un singolare esempio di androgino. La Firenze dell’epoca è dunque alla prese con la costruzione di un modello della cultura occidentale, ostentato al centro della piazza.

[15] Júlio Roberto Katinsky: : “Um experimento com a Ciencia e Tecnología dos primeros anos do Quatrocentos em Florença” Ciencia e Cultura, 34 (10): 1317-1339

[16] Il nome Filareteè un “nome d’arte” e vuol dire in greco “amante della virtù”. Lavorò alla progettazione di “Sforzinda” una città ideale per Francesco Sforza a pianta stellare con al centro una torre alta dieci piani detta “la casa del Vizio e della Virtù” per aver al pian terreno una “casa chiusa” e all’ultimo piano un osservatorio astronomico.

[17] Júlio Katinsky, op. cit., p. 1318 e Giuliano Tanturli, in A. Manetti. Vita di Filippo Brunelleschi, op. cit., p. 55, nota 1: “solo il Filarete aveva dato pieno riconoscimento ai meriti del Brunelleschi come inventore della prospettiva…”

[18] Katinsky, op. cit., p. 1338-9 e Manetti, op. cit., p. 58-9.

[19] Inferno, XXVI, verso 117. Si veda, a questo proposito, la lettura realizzata da Piero Boitani. ???

[20] Nata come termine filosofico (si veda, tra gli altri: ALLEMAN, Beda: “De l’ironie en tant que principe littéraire”) – in Aristotele si trova, infatti, nell’Etica e non nella Retorica o nella Poetica – l’ironia diviene gradualmente una figura retorica, pur conservando l’elemento filosofico legato al concetto. Come figura, l’ironia può essere definita tradizionalmente la forma di dire il contrario di ciò che si afferma “letteralmente”, dunque con una trasparenza per l’interlocutore di questo secondo piano. L’ironia presuppone un patto con il lettore, poiché essere a conoscenza del suo uso è condizione della sua corretta interpretazione (così come nel circolo ermeneutico la comprensione si deve a una precomprensione di carattere intuitivo). L’elemento di autorappresentazione, più caratteristico della versione romantica dell’ironia, è già presente però nella sua caratteristica di svelare più piani o livelli del discorso, che entrano fra loro in competizione e in tensione permanente.

[21]Nel testo originale: “in einer schwebend-unentschiedenen Zwischenlage”.

[22]Vasari, G. Le vite de più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino – Firenze 1550 di Giorgio Vasari. Filippo Brunelleschi. Scultore et Architetto. ???

[23] Nella p. 3 si fa l’esempio anche di Sacchetti, Trecentonovelle, novella CXXXVI.

[24] TODOROV, Tvetan. Las morales de la historia. Buenos Aires: Paidos, 1993.

[25] Parlando evidentemente di Giotto, Boccaccio afferma nelle C[onclusioni dell’autore del Decameron: “Sanza che alla mia penna non dee essere meno d'autorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia, e a san Giorgio il dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva femina, e a Lui medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella.” BOCCACCIO, G. Decameron, ed critica a c. di V. Branca. Torino: Einaudi, 1992.

[26] Giuliano Tanturli, in MANETTI, op. cit. , p. 8 Nota

[27] “ Le texte poétique est autosuffisant : s’il y a référence externe, ce n’est pas au réel, loin de là. Il n’y a de référence externe qu’à d’autres textes. “ RIFFATTERRE, Michelle “A ilusão referencial In ______ et alii. Literatura e Realidade: Que é o Realismo? Lisboa: Dom Quixote, 1984.

[28] Si veda: Sergio Benvenuto, in testo inviato gentilmente dall’autore. Jacques Lacan. O Seminário. Livro 11 Os quatro conceitos da psicanálise. Rio: Zahar, 1988, cap.V, p. 55 e seg..

[29] Renascimento e Renascimentos na Arte Ocidental. Lisboa. Ed Presença, 1981

[30] vedi G. Scholem. Le nome et les symboles de Dieu

[31] Hubert DamischThe origin of perspective, p. 116

La novella del Grasso / Prospettiva rovesciata

La Prospettiva

Pubblico qui un articolo scritto e stampato su La novella del Grasso,di Antonio Manetti. Si tratta di un testo del tardo quattrocento, che descrive un aneddoto o una storia vera, relativa a Filippo Brunelleschi. Quest´ultimo, architetto, è considerato (insieme a Alberti, autore di De pittura) l´inventore della prospettiva, come la conosciamo oggi.

Due considerazioni:
quando guardiamo il mondo, l´altro o noi stessi allo speccio lo facciamo ormai influenzati dalle ipotesi della prospettiva rinascimentale (le due parallele che si incontrano all´infinito). Una concezione che ha liberato unm intensissimo sviluppo nelle arti ma che è anche, a ben vedere, una distorsione, un dislocamento (ciò che era prima in pittura realistico ci appare ormai ingenuo e sorpassato...).
La "novella del Grasso legnaiuolo" sembra rappresentare questa vicenda dell´avvento della prospettiva in maniera simbolica e letterale. Tutto è vero e allo stesso tempo è memoria di una rivoluzione incruenta, ma decisiva.

quinta-feira, 17 de junho de 2010

Il testo e la sua materialità

Il testo e la sua materialità 



Si tratta di un´ipotesi (più che una certezza): vedere il testo dal punto di vista della sua totale autonomia e indipendenza, senza tener conto del suo (supposto, possibile,. illusorio) rapporto con il "mondo" che sempre sembra voler rappresentare o che sempre ne farebbe il suo portavoce. Esiste apparentemente un legame fra "mondo" - la cui esistenza è intuitiva, percettiva, è qualcosa di evidente, immediato e la cui lettura ci spinge immediatamente sul registro del "letterale". Dall´altra parte sappiamo che esiste quell´altro oggetto il cui nome è testo, la cui lettura non è mai letterale (anche quando lo sembra) , poiché è sempre soggetta a interpretazione. Il rapporto fra questi due "enti" viene in genere affermato, considerato pacifico, solo perché il testo ha l´abitudine di parlare "del mondo", mentre "il mondo" non può essere rappresentato se non tramite il testo. La natura differente del mondo (un ente legato alla nostra sopravvivenza, alla vita quotidiana, a elementi che chiamiamo biologici, fisici...) e del testo sta nel problema interpretativo. Il testo presuppone un´interpretazione infinita, mentre per il mondo un´interpretazione che moltiplica le scelte e le alternative può portare anche a un rifiuto più o meno radicale (Paul de Man cita in Resistenza alla teoria a questo proposito una domanda fattagli, dopo aver guidato in Isvizzera per un certo numero di ore. Quante erano le decisioni da lui prese e al udire che erano state approssimatamente 1800 dichiara di aver smesso di guidare, spaventato!).
Dice Derrida a questo proposito: il n’y a pas de hors-texte. Come tradurlo?
Non c´è un fuori-testo. Affermazione (evidentemente) polisemica e pertanto difficile da tradurre. Il testo copre tutto lo scibile, è il nostro momndo. Cioè è il mondo di noi in quanto lettori (che non é il nostro mondo in quanto nuotatori, amanti, geografi, ecc.). Ma può significare anche che non c´è niente che si possa considerare (nel mondo, inteso come nostro mondo) al di fuori del testo (un bel racconto di fantascienza parlava di una nave perdutasi ai confini dello spazio e portata dalle onde del non tempo al di fuori dellúniverso. Dopo un certo periodo, però, recuperata dall´espansione dell´universo). Non c´è nient´altro al di fuori di me - testo può essere letto anche come: tutto il resto dei referenti e dei significati sono solo una nostra invenzione (o meglio: un´invenzione del testo!). In realtà (!) non esistono, cioé in quella "realtà" che è la realtà del mondo del testo, non esistono (se non come espressione del testo). Come sempre nella lettura occore pensare che hors-texte ricorda immediatamente hors-d´oeuvre, l´antipasto o meglio (visto il contesto), ciò che è al di fuori del pasto. Non è (di nuovo) importante il fatto semantico (se c´è un antipasto, il testo potrebbe esserne il rappresentante !), quanto l´ironia della scelta del neologismo. Che comunica anche una certa semplicità della proposizione. Quello di cui ci occupiamo è prodotto del testo, per dirla in parole semplici e chiare.
Vale l´idea che una scelta lessicale dislocata, non pertinente o impertinente usata da Derrida richiama alla necessità di fare "mente locale", di vedere gli elementi nella proposizione per la loro importanza, qui decisiva in sé. Il testo, dunque, acquisisce un´importanza decisiva, poiché le incrostazioni di addendi sociologici, storici o altro sono talmente insinuanti e cristallizzate, che pensare al testo nella sua autonomia e indipendenza è qualcosa di completamente nuovo e può rendere una lettura nuova e attenta a alcuni particolari, in precedenza difficili da ascoltare (anche perché in altre letture effettivamente non pertinenti)

Questa materialità si può vederla affermata nella tradizione ebraica (la sovranità assoluta del testo e l´impossibilità di una modificazione anche minuscola, chepermette, paradossalmente, un´interpretazione la più libera possibile: libera perché decontestualizzata, in principio). Materialità ribadita da Derrida (in Grammatologia e oltre), cioè contro l´essenzialismo platonico che rifiuta alla scrittura (Fedro) la sua vita "autonoma" (come può essere difesa una ipotesi, senza la presenza del suo autore: Platone Fedro, citazione a memoria). La decostruzione (Derrida) parte da questo presupposto, per indagare al di l´a della scrittura, sel senso (o dei sensi) elementi precedenti, che possano aver lasciato delle tracce nel testo.

vedere anche "La materialità del testo " in PONZIO , Augusto. testo come ipertesto e traduzione letteraria (Google books,) p. 31 par. 15

Dal mio punto di vista, questo approccio (materialità del testo, visione del testo) è allo stesso tempo una "verità assoluta" (un´eresia nella teoria) e un semplice strumento, per spremere dal testo tutte le informazioni e l´aura possibili, per poi aggiungere elementi e di senso "esterni" nella interpretazione del testo (elementi originati nella storia, intertestualità, sociologia...)
(dovrò continuare!)
Andrea 17-06-2010

domingo, 13 de junho de 2010

alcuni articoli sul Decameron/ premessa all´ etica della lettura 11/06/2010


alcuni articoli sul Decameron/ premessa all´ etica della lettura
Pubblico qui alcuni testi sul Decameron, scritti da me nel passato

Non so se ci saranno frotte di lettori. Comunque, ho scritto questo articolo sul Decameron, per sfatare un preconcetto, cioè che si tratti di un testo principalmente o addirittura unicamente portatore di una nuova visione, un´anticipazione del realismo. Tesi - come è noto - affermata da Erich Auerbach ("Frate Alberto" in Mimesi) e, prima dell saggista tedesco da Francesco De Sanctis.
Il realismo fa parte evidentemente della nuova prospettiva (non a caso Giotto è citato ed ai pittori sono dedicate in tutto quattro novelle), la pittura è evidentemente interlocutrice ed avversaria della nuova concezione della letteratura, ma c´è qualcosa di piÚ. Molto di più. Chi lo ha messo in luce è Giuseppe Mazzotta The world at play, un libro che dovrebbe circolare di piú internazionalmente. L´elusività individuata da Mazzotta nel testo di Boccaccio é strumento e sintomo di una letteratura che si rivolge su sé stessa, che sirimira e che si moltiplica. Un gioco degli specchi e uno specchio come mise en abîme permanente.

Divulgo qui questo testo che per un certo tempo ho tenuto per me e che per inerzia o pigrizia o altri motivi reconditi non ho ancora pubblicato. Era destinato a essere la prefazione di un´edizione brasiliana del Decameron che però non è mai venuta alla luce.


Andrea Lombardi




Il rapporto con l´etica della lettura di questo testo non è immediato. Pensare al Decameron come una macchina narrativa però è una forma di mettere in luce il carattere autoriflessivo della letteratura, che è premessa e conclusione dell´etica della lettura.

sexta-feira, 11 de junho de 2010

Tra pictura e poesis


Boccaccio, tra pictura e poesis[1]


a Haroldo De Campos, il miglior fabbro


Già la Poetica di Aristotele affrontava i rapporti profondi tra musica, poesia e pittura. L’Ars poetica di Orazio proponeva la somiglianza tra pittura e poesia, nel famoso dettato dell’ut pictura poesis (la cui lettura verrà successivamente approfondita), molte volte ripreso e interpretato probabilmente in maniera eccessivamente canonizzante e schematica. Dante sanciva la correlazione tra musica e poesia (nel Convivio): “la Musica trae a sé li spiriti umani.. sì che quasi cessano da ogni operazione”[2]. Nella modernità Rimbaud e Baudelaire vedevano l’unità dell’universo emblematicamente riflessa nelle correspondances immaginative e poetiche.
Il titolo dato a questa conferenza è “Il Decameron tra pictura e poeesis”. Perché non è stato usato il più canonico “ut pictura poesis”? Ut può essere tradotto con come, o anche al pari di: un paragone, dunque, un’equiparazione; tra, invece, vuol sottolineare un punto di vista unico, una posizione che necessariamente deve essere adottata nella lettura. Si tratta di una scelta fra due (o più) alternative che il lettore è forzato a tener presenti nella rilettura di qualsiasi testo. Tanto più appariranno alternative nel caso di un classico: le letture possibili del Decameron sono virtualmente infinite, proprio perché è il lettore (al pari dell’esecutore di una composizione) che dovrà scegliere il tempo, l’enfasi, la “messa in scena”, il colore, l’insieme dell’esecuzione. La presente proposta di lettura suggerisce proprio l’esistenza di un agonismo, un conflitto possibile fra poesia e pittura. Il termine paragone usato nel sec. XV da Leonardo da Vinci[3] enfatizza la concretezza di una contrapposizione, di una vera e propria lotta. Individuare questa tensione nella lettura può essere produttivo per la lettura ed è formalmente pertinente. Sono del resto proprio questi due aggettivi – produttivo e pertinente – che possono costituisre la base per una interpretazione del testo letterario, nel senso di un’etica della lettura, che unisca una preoccupazione con la “materialità del testo”, nel senso che gli avrebbe dato Roland Barthes e degli autori post strutturalisti, con la preoccupazione, anch’essa di ispirazione meta letteraria (o decostruzionista), di individuare elementi della rappresentazione di una ipotetica scena originale della scrittura, in ogni singolo testo.
Il termine etica della lettura è già stato usato da J. Hillis Miller in un testo straordinario, ma legato al valore della lettura come assoluto[4]. In precedenti testi io stesso ho proposto di usare il termine etica della lettura nella maniera seguente: “rivendicare – paradossalmente – alla critica letteraria la trattazione aggiornata del tema dell’etica, poiché l’insieme dei testi (filosofici o religiosi) possono essere letti in quanto testi e l’etica (nella e della lettura) può indicare la conquista di spazi sempre maggiori di libertà interpretativa. Un testo, in definitiva, può essere letto partendo da almeno due prospettive radicalmente diverse: una lettura nell’ambito del suo contesto (le sue connessioni intertestuali, fondamentalmente e, naturalmente, il suo rapporto con il contesto storico e sociologico) e una seconda lettura, in rapporto a quella che si potrebbe definire la problematica della libertà interpretativa: qualcosa che lo stesso testo autorizza (implicita o esplicitamente)[5].
Ut pictura poesis è, in verità, una mezza frase espurgata da un testo famoso Orazio[6], la Ars poetica, il cui titolo originale era Epistula ad Pisones. Due sono i brani in quel testo che toccano da vicino la famosa questione del paragone tra pittura e poesia. L’ut pictura poesis appare nei versi 361-2, a cui se ne può aggiungere un altro, altrettanto emblematico, anche se meno famoso[7]

Poesia é como pintura; uma te cativa mais, se te deténs mais perto; outra, se te pões mais longe; esta prefere a penumbra; aquela quererá ser contemplada em plena luz, porque não teme o olhar penetrante do crítico; essa agradou uma vez; essa outra, dez vezes repetida, agradará sempre (corsivo mio). [8]

É impossibile non notare, nel paragone messo a punto da Orazio, elementi a favore della pittura, una propensione veramente esplicita: questa, infatti, non teme la luce ne lo sguardo del critico, per cui riuscirà sempre gradita, ciò che non avviene – evidentemente - per la poesia. Orazio parla di poesia, ma possiamo presupporre che ne parli come per il termine tedesco Dichtung (poesia, letteratura o, letteralmente: densità, condensazione). E certamente il concetto di poesia comprende quello di letteratura, ovvero il testo scritto che abbia dignità letteraria (oppure che dimostri densità).

La seconda citazione è la seguente:

As ações ou se representam em cena ou se narram. Quando recebidas pelos ouvidos, causam emoção mais fraca do que quando, apresentadas à fidelidade dos olhos, o espectador mesmo as testemunha..[9].

La frase originale in latino è: “et quae ipse sibi tradit spectator”. Si potrebbe tradurre “[le azioni] recepite all’udito causano un‘emozione più debole rispetto a quelle che lo spettatore-testimonio vede direttamente, con i propri occhi” [“che lo spettatore ha presenti a se stesso”, da spectator la cui etimologia rimonta a specchio, secondo il dizionario di G. Devoto][10]
Lo spettatore è evidentemente uno spettatore oculare, cioè uno che ha visto e per questo sa e può rappresentare i fatti (res), può citarli, testimoniarli. Il ruolo dello sguardo, è tipico per una cultura che sullo sguardo basa la sua comprensione del mondo, come si vedrà.
Com’è naturale, nell’insieme del testo di Orazio come retroscena ci sono i fatti, le azioni (acta). La letteratura e l’arte sono viste come mimesi della realtà, prima viene la natura, poi il linguaggio:

“A natureza molda-nos primeiramente por dentro para todas as vicissitudes; ela nos alegra ou impele à cólera, ou prostra em terra, agoniados, ao peso da aflição; depois é que interpreta pela linguagem as emoções da alma”[11]

Inoltre Orazio afferma (v. 309) “Ottenuta la materia, le parole seguiranno spontaneamente”), secondo una frase sentenziale, che cita testualmente Catone.
Dunque, Orazio segue qui la dottrina essenzialista platonica, in cui atti, fatti ed emozioni costituiscono l’aspetto fondamentale, l’essenza delle cose (un’essenza che rimanderebbe alla teoria della caverna platonica, ben conosciuta), mentre il testo risulta essere solo una conseguenza, un’assenza di riferimento e quindi di verità. Le parole scaturirebbero da sole, orfane. Ciò non valorizza affatto l’ispirazione poetica. Le parole vengono dopo le cose e sono chiamate a rispecchiarle fedelmente, secondo il principio della mimesi .

Secondo il critico italiano poco conformista Mario Praz, che molto si è occupato di poesia e pittura, nella frase citata di Orazio si è spesso sopravvalutata l’esistenza di un conflitto fra pittura e letteratura (o pittura e poesia):

“Dois lugares comuns, um de Horácio, o outro de Simonides de Cós, vêm desfrutando indiscutível autoridade há séculos: a expressão ut pictura poesis, da Ars poética, que foi interpretada como um preceito, embora o poeta intentasse apenas dizer que, como certas pinturas, alguns certos poemas agradam uma única vez, ao passo que outros resistem a leituras repetrtidas e a exame crítico minucioso; e um comentário, atribuído por Plutarco a Simonides de Cós, no sentido de ser a pintura poesia muda e a poesia uma pintura falante. [12]

In effetti Praz aveva aggiunto un’osservazione a proposito del prevalere della vista sull’ascolto o, posteriormente, la lettura:

Si tratta di “Uma vista de olhos [que remonta] a uma antiga tradição, à descrição do escudo de Aquiles feita por Homero convencer-nos-á facilmente de que a poesia e pintura têm marchado constantemente de mãoes dadas, numa fraterna emulação de metas e meios de expressão. (ib.)

Praz cita in questo testo sia Orazio che Simonide: si tratta, in quest’ultimo caso, dello stesso Simonide di Creo, a cui viene attribuita l’invenzione della mnemotecnica, o arte della memoria. Inoltre Praz mette in risalto l’importanza dello sguardo nella tradizione greca e classica in generale. A questo proposito, ci sono osservazioni dello storico italiano Arnaldo Momigliano, sulla contrapposizione tra la cultura greca, basata sullo sguardo, e la cultura ebraica, basata, invece, sull’ascolto[13]. Su questo tema, di importanza decisiva, Momigliano cita i teologi Bultmann, Booman e Georg von Rad, che partono tutti da un punto di vista teologico e “cristiano”. Momigliano, partendo dal punto di vista della tradizione ebraica, li accusa di essere parziali e di voler delimitare la tradizione culturale ebraica o il pensiero greco. A prescindere da questa garbata polemica (erano gli anni inmediatamente successivi all’antisemitismo nazista), l’interesse oggi è legato alla contrapposizione fra la coppia di termini visione/ sguardo e ascolto/lettura, che ripoduce un dibattito contemporaneo, cioè quello fra oralità e scrittura, far essenzialismo platonico e una visione che testualista. Proprio a questo proposito, il filosofo Jacques Derrida ha battezzato il termine logocentrismo, ripreso in Brasile da Jeanne-Marie Gagnebin, realizzando una lettura del Fedro di Platone, a cui si arriverà fra poco). Il Decameron, pertanto, può essere preso in considerazione proprio come manifestazione nel tempo di questo dibattito fra oralità e scrittura, in un’epoca crucial, che è quella della fondazione della letteratura italiana e europea.
Si può, in una prima conclusione, essere d’accordo con Mario Praz che il testo di Orazio tratta delle arti in genere (pittura e poesia-letteratura, in particolare), come arti sorelle e mette in luce lo scrittore e il poeta su determinati accorgimenti, regole e norme da tenere presenti. Nello stesso testo, Orazio rimpiange la funzione trasformatrice (mistica? poetica?) della letteratura-poesia, richiamando il ruolo di Orfeo (v. 391) che domava tigri e i leoni. Lo scrittore latino cita gli oracoli che si pronunciavano in versi e che mostravano il cammino della vita e si appella al ruolo di spettatore-testimone oculare dello scrittore. Cioè va al di là di questa mera enumerazione, poiché stabilisce un legame fra letteratura e trasformazione del mondo, un altro tema molto attuale. Nella citazione famosa, però, non si può negare che propenda più dalla parte della pittura che da quella della letteratura, anche se si tratta di una mera sfumatura.
È singolare che nel Fedro di Platone si trovino elementi comuni rispetto all’argomentazione di Orazio. È nel Fedro che Platone attribuisce l’invenzione della scrittura a un dio egiziano (contraddicendo la mitologia greca che individuava in Ermete o Palamede i creatori di questa nuova tecnica).

SOCRATE : C’ é un aspetto strano che in realtà accomuna scrittura e pittura. Le immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono solennemente. Lo stesso vale pure per i discorsi: potresti avere l’ impressione che parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti che hanno espresso, con l’ intenzione di capirlo, essi danno una sola risposta e sempre la stessa.

Apparentemente, quindi, per Platone sono sia la pittura che la scrittura accomunate in un giudizio sommario e totalmente negativo. I discorsi, cioè i testi scritti sono monocordi, univochi e non dialogici. Viene poi la famosa citazione di una visione negativa. I personaggi di questa scena originale, prodotto della fantasia di Platone, sono il dio egiziono Teuth/ Toth (dio della giustizia e degli inferi) e il faraone-dio Thamus:

Questa scienza, o re, disse Theut, renderà gli Egiziani più sapienti e più adatti a ricordare, perchè questo è un rimedio giovevole e alla memoria e alla dottrina. E il re disse: "O artificiosissimo Theut, altri è abile a generare le arti, altri a giudicare qual vantaggio o qual danno può derivare a chi sarà per servirsene. Ed ora tu, come padre delle lettere, nella tua benevolenza per loro hai affermato il contrario di ciò che possono. Esse infatti, col dispensare dall'esercizio della memoria, produrranno l'oblìo nell'anima di coloro che le abbiano apprese, come quelli che, confidando nello scritto, ricorderanno per via di questi segni esteriori, non da sè, per un loro sforzo interiore. Tu dunque hai trovato un rimedio giovevole non già per la memoria, ma per richiamare alla mente. E d'altro lato tu offri ai discenti l'apparenza, non la verità della sapienza, perchè quando essi avranno letto tante cose senz'alcun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pure avendo un gran fondo d'ignoranza, e saranno insopportabili nei rapporti sociali, perchè possederanno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza."

Ciò che conta per Platone è un concetto astratto, filosofico e, quindi, extratestuale della verità e della realtà. La scrittura è presentata come un rimedio, un farmaco (da qui il ragionamento di Deirrida in La farmacia di Platone) che è più facile associare alla morte che alla sapienza e al progresso. La scrittura, per il re egiziano (e per Platone) va contro la memoria (quell’arte della memoria di cui è considerato mitico iniziatore Simonide, citato da Plutarco per una frase sul rapporto fra pittura e poesia). Verità e realtà si fondono, come afferma questo brano dello stesso Fedro:

E’ così perchè bisogna avere il coraggio di dire la verità , specialmente quando si parla di verità. Infatti, la realtà vera, che non ha colore nè forma e non si può toccare, che può essere contemplata soltanto dal nocchiero dell’ anima , cioè l’ intelletto[14]

È legittimo pensare che un’altra famosa frase di Orazio, a sua volta una citazione di Catone – “una volta ottenuta la materia le parole vengono da sé”, rispecchi proprio la visione essenzialista del filosofo greco Platone: ciò che conta non è il testo, ma le idee che lo originano, che il testo può cercare di rispecchiare, o alle quali il testo può provare ad avvicinarsi tramite la reminiscenza. Questa visione, però sottovaluta il testo, poiché non è il testo (per Platone) che rispecchia l‘anima, la verità, la realtà vera (termine da lui usato nella citazione in esame). L’accesso all’essenza è solo dei sapienti e la contemplazione di una verità al di là della realtà prospetta una “visione” e un’”immagine” dell’intelletto, più vicine all’essenza che non il testo e la voce.

Il rapporto fra pittura e letteratura si è sviluppato successivamente, in sordina prima e poi via via sempre più in superficie, fino a sfociare in una nuova polemica aperta nel Rinascimento, l’epoca che ha affermato la prospettiva, cioè una visione nuova del mondo, una nuova visione della realtà e, quindi, anche del testo. Leonardo, a proposito del paragone, il rapporto fra le due arti, descrive un vero e proprio conflitto:

Tal proportione è dalla immaginatione a l’effetto qual’è da l’ombra al corpo ombroso. E la medesima proportione è dalla poesia alla pittura, perché la poesia pon le sue cose nella immaginatione de le lettere e la pittura le dà realmente fori de l’occhio, dal qual occhio riceve le similitudini non altrimente che s’elle fussino natturali, e poesia le dà sanza essa similitudine, e non passano alla impresiva per la via della virtù vissiva come la pittura. [15]

Con la vittoria della prospettiva, che mostra una pittura più realista della scrittura, che rispecchia naturalmente il mondo, Leonardo potrà affermare la supremazia della pittura. Marino (si veda in Praz, op. cit.) farà una pittura in versi. Sarà infine Lessing (Lacoonte [cioè dell’interpretazione del dolore, contro l’interpretazione di Winckelman che equipara Lacoonte e Sofocle]) che nel ‘700 metterà in luce alcune differenze, enfatizzando che la pittura e la scultura danno enfasi allo spazio, mentre la poesia sottolinea il tempo.
Che il conflitto nasconda un altro problema, cioè quello del rapporto fra oralità e scrittura, diviene evidente dall’esame della storia della mnemotecnica, cioè l’invenzione dell’arte della memoria, attribuita a Simonide, autore della seguente frase (secondo Plutarco, già citato): la pittura è poesia muta e la poesia è pittura parlante[16]. La tecnica con cui Simonide inventa l’arte della memoria utilizza proprio le immagini, associandole direttamente a luoghi e persone. È dopo la realizzazione di un terremoto che ha fatto crollare un edificio (una catastrofe, un rovescio della sorte) che, secondo il mito, Simonide sarebbe riuscito a ricostruire i nomi dei morti, permettendo la loro sepoltura e la realizzazione di un lutto adeguato. Simonide, significativamente, difende la poesia contro la pittura (muta). “Infatti penso che se la memoria visiva era cosi' buona – dice Cicerone riportando l’episodio - , poteva usarla come aiuto per ricordare anche altre cose.”
Ciò che è importante sottolineare è che la tensione fra pittura e poesia è più interessante per la problematica che apre – alcune delle domande sono: le arti sono traducibili, senza perdite? Esiste una gerarchia delle vocazioni artistiche – che per una risoluzione definitiva del conflitto. Inoltre, pensare che ci sia un legme fra rapporto ra pittura e letteratura e oralità e scrittura potrebbe essere interessante per gli sviluppi futuri, proprio nella lettura di aspetti del Decameron di G. Boccaccio. Di fatto, nel corso della storia si può constatare un’oscillazione e un’alternanza nella gerarchia fra le due arti, con una certa prevalenza della pittura (nello stesso Orazio, secondo quanto si è visto).
Seguendo il buon senso, pittura, letteratura e musica sono arti legate fra di loro e tutte rappresentano il mondo, in una mimesi prefigurata da Atristotele. Occorre però tracciare una differenza fra l’oggetto da indagare (le varie arti) e il metodo dell’indagazione. Lo stesso sistema interpretativo, tramite il quale noi leggiamo questo problema – così come tutti gli altri problemi – è legato al rapporto far scrittura e oralità, cioè partecipa della competizione e, quindi, potrebbe essere influenzato nel conflitto fra pittura e letteratura. Si tratta in fondo di un problema analogo a quello della fisica del sec. XX, che doveva tener conto nella misurazione di un esperimento dell’intervento esterno del ricercatore, e la modifica nella realtà dell’esperimento che questo portava. Un aspetto certamente inevitabile. Il fatto è, dunque, che tutte le arti (musica, pittura, letteratura, ecc.) vengono studiate tramite modelli interpretativi che provengono dal mondo della scrittura e i cui concetti sono ancorati nella tradizione letteraria. Quando i modelli interpretativi includono modelli di oralità (per es. nella tradizione ebraica, in quella tradizione mistica e nella psicanalisi), è evidente che gli stessi modelli sono legati a un particolare rapporto del binomio oralità–scrittura, dunque sono parziali.
Un esempio calzante potrebbe essere quello dell’interpretazione dei sogni “raccontati” da Sigmund Freud. Noi li conosciamo solamente tramite la loro rappresentazione per iscritto, non avremmo avuto altro accesso al loro contenuto, e il contenuto è solo rapportabile al testo scritto che li contiene. In questo caso, per es., il postulato di Platone cadrebbe: qual’è la “verità vera” che sta dietro ai sogni di Freud, al di là di una interpretazione, che Freud presenta dei sogni stessi e una interpretazione di Lacan o di Anzieu o nostra che, ultimi, interpretiamo i sogni già interpretati e reinterpretati da altri? Non è un caso che Freud afferma i suoi quattro principi, nel cap. VI della sua Interpretazione dei sogni e cioè: condensazione, dislocamento, rappresentabilità e elaborazione secondaria (o distorsione), principi del tutto letterari. Il sogno in se, possiamo dire, non esiste. Deve essere scritto per cominciare ad esistere (ed essere interpretato). Così l’idea non esiste senza il testo scritto. Il sogno deve essere rappresentato, tradotto da immagini a testo, ed è sottomesso alle regole di qualsiasi testo scritto (regole di composizione, di stile, ecc.). Non è un caso che Platone accenni proprio nel Fedro alla questione del rapporto fra pittura e poesia, da lui accomunate nel giudizio negativo.
Pittura poesia, dunque, come parte di una contrapposizione fra oralità e scrittura. In cui il testo tende a valorizzare la sua autonomia, in rapporto alla mimesi. Un aspetto costante nella storia letteraria e che fornisce ancor oggi esempi per un dibattito proficuo.

Il Decameron

Il Decameron è un testo poliedrico, sfaccettato, enigmatico, dietro al suo carattere apparentemente realista. Sono almeno due i critici ‘storici’ ad averlo catalogato così, anche con una certa esplicita critica alla pretesa debolezza “morale”: si tratta di Francesco de Sanctis e dell’altrettanto grande Erich Auerbach, il che ha limitato la loro lettura. Il sottotitolo del Decameron, cioè il prencipe Galeotto, allude evidentemente al canto V dell’Inferno di Dante, ed in particolare al concetto del libro che influenza il mondo e non viceversa, che da solo rovescia il precetto realista: che è il mondo che influenza la letteratura. Come afferma Italo Calvino (in Tirant lo blanc)[17]: è un primo momento vertiginoso in cui è il libro che induce i due amanti a baciarsi.
È il libro che influenza il mondo. Anche la descrizione della morte e quella della peste nel Decameron devono essere rilette alla luce di questo ribaltamento che la letteratura rende sempre possibile (un aspetto della funzione magica, dentro alla funzione poetica, individuata da Roman Jacobson). Il Decameron è pieno di riferimenti intertestuali. Un secondo riferimento, eclatante è l’evidente parodia nel titolo dell’Hexameron di Sant’Ambrogio, un testo del IX sec. d. C. , il cui tema sono i sei giorni della creazione divina. Parlare di morte e di erotismo come risposta alla Creazione del mondo è certamente un rovescio ironico o comico di notevole portata! Infine, come terzo momento intertestuale, il Decameron si ispira evidentemente a Il trionfo della morte, un affresco attribuito recentemente al pittore B. Buffalmacco, e realizzato attorno al 1340. Attorno al 1340, cioè prima della peste descritta da Boccaccio. Il rapporto fra pittura e poesia, di cui si è parlato, questo topos della cultura classica, trova in questo momento un ideale punto di intersezione prima dell’affermazione della prospettiva rinascimentale, tra narrativa e pittura. Non è un caso che ne siano protagonisti Bocccaccio (da un lato) e Giotto, proprio il pittore che è considerato il precursore della prospettiva rinascimentale e che appare sia nel testo della cornice del Decameron (in una polemica di Boccaccio contro la libertà di rappresentare concessa alla pittura e negata alla sua letteratura, sia in una breve ma significativa novella, nella giornata del “motto di spirito”, della VI giornata.. Con questa mia lettura (appoggiata a testi sostanziosi come quello di Giuseppe Mazzotta The world at play e di Lucia Battaglia Ricci, tra i vari), vorrei mettere in luce che anche nella ri-lettura di un testo classico e fondante, è possibile oggi mettere in luce l’aporia del testo fra realismo (proprio rappresentato dalla descrizione della peste) e rifrazioni caleidoscopiche da metaletteratura. Un effetto realizzato dalla lettura e che può essere spiegato nella seguente forma: tramite una parabola della tradizione ebraica, quando Mosé, invisibile, si presenta in una Ieshivà in cui svolge le sue letture il famoso rabbino Hillel (2o sec prima della nostra Era). Mosè esterrefatto dai ragionamenti astrusi e incomprensibili che vengono intessuti, chiede aiuto a Dio. “Cosa stanno dicendo”, chiede, stanno leggendo i miei testi, ma non riesco a capirci niente”. “Non ti preoccupare”, risponde Dio, tutto quello che loro dicono era già contenuto nei testi, loro non fanno altro che interpretarli correttamente” La lettura, cioè, riesce a far emergere dal testo qualcosa che il testo contiene, anche se lo fa in maniera velata. Svelamento di un testo è riuscire a risalire alla sua verità, supponendo però – e qui è la differenza fondamentale – che esiste una verità per ogni lettore, dunque una verità del lettore dell’epoca di Hillel, che non è più quella dell’epoca di Mosè che aveva o avrebbe redatto i testi sacri.
Il secondo esempio, lo si può prende dalla pratica musicale: le versioni che possono essere date di un unico brano musicale sono talmente diverse e infinite che è possibile arrivare a non riconoscerle. L’interpetazione include versioni popolari o jazz, per esempio e possono dare risultati sorprendenti. Si può pensare a una rilettura del Decameron in un’ottica jazz, come avrebbe fatto Cortazar. Anche un testo come il Decameron può racchiudere sempre nuove interpretazioni, come un testo biblico o una partitura musicale. Si potrebbe aggiungere un’ipotesi di un punto di vista “transoceanico” rispetto alla letteratura italiana, in analogia a quanto affermato da Haroldo De Campos, insuperato maestro e transcreatore. Una prodspettiva nuova, dal punto di vista del lettore odiernoi (non più dell’epoca di Hillel e neanche quella di Mosé) che può apportare ai testi della tradizione italiana nuovi punti di vista.

la peste, la morte
Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dí cosí fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Questo brano si trova nel mezzo del racconto del narratore Bpoccaccio, nell’Introduzione della 1a giornata del Decameron. Un brano autobiografico, o almeno così ci viene presentato. Viene preceduto da un cortissimo Proemio (su cui intervengo successivamente) e seguito dalla presentazione di dieci narratori (7 giovani donne e tre cavalieri) che, nel corso di 10 giornate, si racconteranno a vicenda in tutto cento storie. Nel proemio viene specificato che le storie non sono usuali e nella conclusione, che l’autore, G. B., non si considera vero autore

intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto (proemio).

io non pote' né doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, e io l'avrei scritte belle. Ma se pur presuppor si volesse che io fossi stato di quelle e lo 'nventore e lo scrittore, che non fui, dico che io non mi vergognerei che tutte belle non fossero per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne seppe tanti creare che esso di lor soli potesse fare oste (Conclusione dell’autore).

Il fatto di non voler essere considerato l’autore (a differenza da Dante e a Petrarca, a lui contemporaneo) e l’ambiguità sul genere (novelle o favole o parabole o storie) sposta l’accento sull’obiettivo manifesto del testo. Rimane quello del proemio: una specie di debito o promessa: l’autore avrebbe fatto una specie di promessa, dopo aver sofferto delle delusioni d’amore e essere stato curato.
“io sono uno di quegli”, dichiara a voce alta il narratore nel primo paragrafo.

Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra' quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli.

Il conforto gli è stato dato dai racconti di alcuni amici: racconti che temperano le proprie pene, gli forniscono il contesto, riconducono la propria esperienza, vissuta come altamente drammatica, a una ripetizione delle pene d’amore:

Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.

Il narratore afferma qui che non è morto per il dolore (la “noia”). È noto il fatto che il narratore si trova a Firenze, durante l’imperversare della peste nera del 1348 (la stessa che, secondo lo stesso, ha ucciso 100 mila abitanti, tra cui suo fratello, elemento omesso ma dolorosamente presente). Una peste vera, un flagello, uno dei momenti di catastrofe raccontata dalla storia dell’umanità, apparsa in Europa proveniente dall’Oriente (aveva distrutto l’orda d’oro di Gengis Khan) e che aveva decimato oltre un terzo della popolazione europea (13 milioni di persone). Effetti sociali notevoli (la riorganizzazione) oltreche psicologici:

infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne' lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti?

Si tratta di maravigliosa cosa a detta del narratore: cioè cosa fuori dall’ordinario, eccezionale, ma anche degna di essere vista, poiché maravigliosa viene da mirabilia, da mirari, nuovamente con al centro il vedere. Questa morte che verrà descritta è maravigliosa, terribile ed ha un potere quasi sublime di attrarre la vista, di catalizzarla. Il narratore non può volgere il suo sguardo da altra parte. Altrettanto deve fare il lettore. Si tratta di attenzione, quasi ipnosi e ribrezzo: non è solamente la morte contemplata, ma la sua degenerazione più abietta: la peste, con il suo insieme di credenze e superstizioni (siamo in pieno Medioevo): punizione divina, morti senza possibilità di salvezza, deviazione dal comportamento equilibrato, vuoi tramite eccessi di licensiosità, vuoi tramite una ricnchiudersi. La peste, come dirà alcuni secoli dopo Camus (in Il teatro e la peste) come malattia legata alla coscienza, proprio perché non affetta organi vitali tranne il cervello e i polmoni. La peste come metafore della metafora della morte. Di qualsiasi esilio possa parlare la letteraura, la morte è quello più definitivo. La morte come “realtà” la più abietta, ma la più visibile e universalmente conosciuta.
A proposito del tema della morte, vale la pena citare tre momenti presenti nel famoso testo Il narratore, di W. Benjamin. Sono tre momenti in cui l’autore mette in risalto il rapporto fra morte e letteratura. Nel primo, a partire da una lettura di Benjamin, si può affermare che è la morte che sancisce il passaggio da ciò che è contestuale (cioè che sta dentro al testo, alla trama) a ciò che può essere trasportato, tradotto (anche se ancora non scritto). La morte è produttrice di autorità e, quindi, sta all’origine della narrativa. Nel secondo momento, a proposito della morte letterale di Leskov, Benjamin stabilisce un acuto parallelo far le immagini nella visione dell’agonizzante e l’immagine che l’agonizzante proietta. Nella terza, quando afferma che “un uomo che muore a 35 anni è sempre un uomo che muore a 35 anni”, sostiene che il senso (l’essenza? la fiigura? ) si rivela solo tramite la morte.
La morte, dunque, per Benjamin non è solamente un elemento che conferisce autorità (perché suscita volgarmente un interesse per ciò che è abietto, perché incita al sollievo per averla scampata: considerazioni queste presenti in Boccaccio). La morte diviene un vero e proprio limite di fatto per la rappresentazione metaforica, che Benjamin esprime come desiderio di morte del lettore, letterale (con la contemplazione della morte) o metaforica, la fine del romanzo per Benjamin. La morte di cui Benjamin parla è una doppia morte: quella reale (del personaggio Leskov, il narratore) e quella metaforica o simbolica (la fine del romanzo, la morte raccontata). In fondo, si possono isolare due forme di rapportarsi alla morte: la descrizione di un fatto “realmente accaduto”, la cui descrizione merita l’attenzione degli uditori: un fatto storico o giornalistico, la cui descrizione ha motivi chiari oppure, nella maggioranza dei casi, inconfessabili.
Qualcuno è morto. Lo sappiamo, lo sentiamo. C’è un concetto – la morte – che è immediatamente metafora del limite (all’onnipotenza), dell’essenza (dell’umano, rispetto alle forze della natura o del divino). fra ricerca della verità o realtà vera (Fedro) e questione lettura o etica.
Il Decameron è un testo definitivamente classico: fondante per la letteratura italiana e occidentale, perché costituisce il modello della futura commedia e, allo stesso tempo, presenta un esemplare rapporto di contiguità (o superamento) con la Comedia di Dante e il Canzoniere di Petrarca. Inoltre, si tratta di un testo che diverrà modello di lingua, insieme a Petrarca e contro la Comedia, messa all’indice dal cardinale Bembo nel ‘500 e, a sua volta, verrà espurgato dall’Inquisizione alla fine del ‘500. La questione della morte è più di un elemento referenziale di forza inaudita
Prima di tornare alla morte, riprendiamo il testo: Maravigliosa cosa. Il narratore è portavoce di un qualcosa che non può essere taciuto (io debbo dire) qualcosa che è possibile scrivere e, al contrario, non sarebbe stato possibile crederlo se fosse stato visto da lui stesso (come testimone oculare) o da molti altri (dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto) o se l’avessi ascoltato da fonta degna di fede (quantunque da fededegna udito l'avessi). La peste è di una virulenza tale che si propaga non solo fra gli uomini, ma anche fra uomini e animali. Ed adesso, il narratore si prepara, dopo aver magnificato a forza dell’evento che sta descrivendo, a narrare lui stesso un episodio, proprio per dare il sapore di questo contatto con la realtà (Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dí cosí fatta esperienza): viene ora la storia in se, piuttosto scarna e facile da riassumere: due porci si avventano sugli stracci di un malcapitato morto per la peste e, dopo poco, gli stessi porci soccombono all’attacco del male (come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra).
Il narratore, dunque, scrive su qualcosa che va al di là di qualsiasi esperienza umana credibile e, a sua volta, racconta una sua esperienza che, nella sua semplicità e banalità, è costruita in maniera tale da rafforzare la sua funzione di testimone, di compartecipe dei fatti. Il lettore, a sua volta, si sente coinvolto nel tema, poiché la morte determinata dalla peste è un flagello che colpisce e facilmente rimette a cause superiori, perché la morte da sanzione (come dice Benjamin) al narratore, sopravvissuto a una catastrofe, da lei quindi legittimato.
I commentatori sottolineano che la descrizione della peste è già un tópos nella letteratura, fin da Tucidide, uno dei padri del concetto di storia. In effetti, comparando la descrizione della peste di Tucidie e di Boccacio, molti sono i punti in comune. Tucidide ci dà una descrizione dettagliata della peste, con intento didattico e descrizione precisa, storicamente:

[48] 1. Il primo luogo in cui cominciò a manifestarsi fu, a quel che si dice, l'Etiopia, ... Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e cosí tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c'erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.

Lo storico greco mostra il suo metodo obiettivo, precursore del metodo scientifico, distaccato e ci indica i vantaggi della conoscenza:

Ora, sulla peste sia un medico sia un profano potranno parlare ciascuno secondo le sue conoscenze, dicendo da che cosa essa probabilmente abbia avuto origine e quali siano le cause di un tale sconvolgimento, cause che potrà considerare sufficienti a effettuare il mutamento di salute: io invece dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un'altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in precedenza qualche cosa

Ma è probabilmente un altro elemento a divenire decisivo, che ci permette un raffronto fra i due testi, più che la descrizione, più che l’atteggiamento:
io stesso – dice Tucidide - ho avuto la malattia e io stesso ho visto altri che ne soffrivano

L’uso del pronome in prima persona, da parte di Tucidide (effettivamente colpito dal morbo) equivale a quanto Boccaccio aveva dichiarato in precedenza:
Di che gli occhi miei ... presero tra l'altre volte un dí cosí fatta esperienza...
Quando Lucrezio nel De rerum naturae riprende la descrizione della peste ad Atene, lo farà – evidentemente – sulla base del modello di Tucidide. Il tema della peste (morbo che comparirà centinaia di volte fino all’800) verrà ripreso naturalmente da molti altri scrittori, fra questi c’è Alessandro Manzoni e, prima di lui, Guicciardini.

C’è, però, una seconda prospettiva, da cui vedere il problema della morte in rapporto alla letteratura. Si tratta di una morte, in un certo senso, metaforica, poiché legata a personaggi mitici o leggendari. La morte non viene qui descritta in maniera realistica. Nel caso, per es. di Orfeo e Euridice, il rapporto con la morte include la capacità di esercitare la magia e stabilire con gli dei un rapporto, quindi parlare il loro stesso linguaggio. Orfeo riesce a farlo tramite la musica. In Ovidio (Metamorfosi, cap. XI) Orfeo si misura nel tentativo di riscattare la morte di Euridice. A sua volta, Orfeo verrà ucciso. Si tratta di un tentativo, presuppone il dominio della musica (come terapia o maieutica). In un’epoca passata questa funzone terapeutica era attribuita alla religione (i preti, suoi rappresentanti), in epoca più vicina, alla psicanalisi.
C’è anche Omero, che arriva alla terra degli Lotofagi (tutto quello che non è civiltà per i Greci) e Ulisse parla con i morti (Odissea, canto XI). In fondo è il segnale per l’inizio del suo viaggio di ritorno (subito dopo l’episodio di Circe, anche se non è materialmente la metà)
Nell’Eneide di Virgilio (canto VI), Enea parla con i propri genitori. Ci sarebbero da citare anche saghe e epopee (Il canto dei Nibelungi, La Chanson de Roland, tra gli altri testi), in cui il rapporto con la morte è sostanzialmente simbolico e allegorico.
Singolare , quindi, è che un episodio come quello della peste si presenti nello stesso testo sotto angolazioni molto differenti. Episodio di una diretta testimonianza dell‘autore (in Tucidide come in Boccaccio, anche se non in Lucrezio), la peste assurge a simbolo di un capovolgimento (una catastrofe), un cambiamento di valori e di punti di vista che il Decameron in effetti assume, come testo basato su principi narrativi nuovi. I dieci narratori che sorgono introdotti dall’ipernarratore Boccaccio, vengono da lui così accreditati:
A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravvolgendo: ... dico che, stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota, addivenne, sí come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella... Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse...
Il narratore si scusa con i lettori, delle “tante miserie” che deve descrivere. Il narratore si preoccupa del lettore e, allo stesso tempo, lo rassicura: quello che racconterà viene a lui detto “da persona degna di fede”. Non racconta i nomi veri (che sarebbero stati verificabili) per preservare la reputazione delle persone.
Visto dal nostro punto di vista, questa forma del testo ci appare formula, ripetizione di Luciano o altri classici. Ma dobbiamo pur tener presente che Boccaccio ci si è presentato come testimone oculare, di una una storia della peste, che ci conferma che lui ha visto effettivamente.
Pampinea parla: “noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d'ascoltare se i frati di qua entro, de' quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, ne' nostri abiti, la qualità e la quantità delle nostre miserie.
Quando a Pampinea viene data la parola (è lei che avrà l’idea di riunire le sette ragazze che si trovano nella Chiesa di San ta Maria Novella – un altro luogo familiare e conosciuto, che rafforza la credibilità del testimone, tramite la prossimità– il suo stesso discoso si riallaccia al precedente del narratore: “in ogni modo ci appare la qualità e quantità delle nostre miserie” che eccheggia, evidentemente, le “tante miserie” del narratore. I corpi morti, espressione ripetuta due volte, potrebbe essere un’allusione diretta al “come corpo morto caddi” del Canto V de la Divina Commedia. Infine, l’esilio evocato, che ricorda quello di Dante, mostrando un paradosso (gli esiliati sono scacciati dalla città da coloro che nel frattempo sono morti). Il discorso di Pampinea è tutto diretto a convincere gli altri (e se stessa?) di dover andare via da Firenze. Il suo discorso è popolato delle immagini della desolazione, i morti sparsi per le strade che ecceggiano nelle farsi:
E se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi da torno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l'autorità delle publiche leggi già condannò a essilio, quasi quelle schernendo per ciò che sentono gli essecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra città, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini e in istrazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni;
né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: 'I cotali son morti' e 'Gli altrettali sono per morire'; e se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo.
L’argomentazione di Pampinea, la regina della 1a giornata, si fa più serrata, deve assolutamente convincere tutti a realizzare il piano. Tornare a casa, argomenta P., significa convivere con i fantasmi dei morti. La casa non è più familiare. Ciò che allora era heimlich adesso diviene unheimlich – per usare la celebre espressione di Freud – , cioè: non familiare, perturbante, sinistro.
E se alle nostre case torniamo, non so se a voi cosí come a me adiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare, e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l'ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile non so donde il loro nuovamente venuta spaventarmi. Per le quali cose, e qui e fuori di qui e in casa mi sembra star male, e tanto piú ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi.
È Pampinea adesso che rivendica la funzione di testimone (testimonie, le testimoni). È lei che appela adesso all’aver visto e udito, così come il narratore aveva fatto (e farà) e così come lui stesso le ha insegnato:
E ho sentito e veduto piú volte, se pure alcuni ce ne sono, quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l'appetito le cheggia, e soli e accompagnati, di dí e di notte, quelle fare che piú di diletto lor porgono; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne' monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all'altre, rotte della obedienza le leggi, datesi a' diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute. E se cosí è, che essere manifestamente si vede, che faccian noi qui, che attendiamo, che sognamo?
Finalmente si arriva alla descrizione del luogo paradisiaco, del locus amoenus, dove fuggire e dove tutto sarà differente:
fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri onestamente a' nostri luoghi in contado, de' quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s'odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d'alberi ben mille maniere, e il cielo piú apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto piú belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città; e èvvi, oltre a questo, l'aere assai piú fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v'è la copia maggiore e minore il numero delle noie. Per ciò che, quantunque quivi cosí muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v'è tanto minore il dispiacere quanto vi sono piú che nella città rade le case e gli abitanti.
Finalmente, un’ultima volta, la regina della 1a giornata torna all’immagine, oramai concolidada, dell’unheimlich nelle loro stesse case. La scelta che lei propone è una non scelta, poiché rimanere può voler dire soffrire ancora (dolore e noia e forse morte). Superare i complessi che ancora li tengono legati al posto, poiché non siamo noi che abbandoniamo, piuttosto siamo noi a essere abbandonate:
E qui d'altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto piú tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n'hanno lasciate. Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire: dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopragiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose...

Il Decameron è un testo singolare, come singolari sono tutti i testri classici e fondanti. La descrizione della peste va ben al di là di una semplice e morta cornice. Diviene la base dell’accreditamento del narratore (o iper narratore), in rapporto a un insieme che, però, afferma l’esatto suo contrario, come dimostra il ventaglio di storie narrate dalla 1a (quella di Ser Ciappelletto) all’ultima, altrettanto fuori dalla realtà, come è quella di Griselda. Ciappelletto alias Cepparello è l’emblema di una narrativa intesa qui completamente come fiction, come dice la rubrica: “Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto”. Il raddoppiamento del nome del personaggio è emblematico del raddoppiamento della visione e nella conclusione ancora ambigua o doppia: Cepparello/ Ciappelletto in Paradiso o all’inferno? Iddio che non ci condanna

negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in su lo stremo aver sí fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n'è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui piú tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se cosí è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fé riguardando, cosí faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo.

Esiste un’evoluzione del concetto di morte nella tradizione occidentale. È tradizionale il memento mori, cioè la coscienza della caducità della vita. La morte viene però raffigurata come cadavere, putrefazione solamente a partire dal XII secolo e, in particolare, meno in Italia[18], i cadaveri cominciano a essere coperti in quest’epoca, appare il Giudizio Universale (e la resurrezione dei morti). Questo horror mortis, secondo A. Tenenti (in ib.), è prodotto di un amore per la vita. Maggiore realismo, maschera modellata sul volto del defunto, i temi macabri, secondo Ariés (op. cit., p. 86) sono caricati alla fine del sec. XV e inizio XVI di senso erotico. Questo può valere (eccezionalmente) anche per il sec. XIV. Se si vedono i genitali dello scheletrico cavaliere dell’Apocalissi di Dürer (ib., p. 86), è evidente una funzione realista ed erotica che porta a un vero e proprio fascino “per il corpo morto” nel sec. XVI (ib. 87)
In Boccaccio accade che la rapresentazione della morte si situa al crocevia di due diverse tradizioni. Il Decameron riprende la visione storica “testimoniale” di Tucidide (praticamente citata da Lucrezio) e quella metafórica (o letteraria) che da Omero e Virgilio sfocia in Dante e il suo viaggio nell’Al di là. In queste due tradizioni il punto di vista del narratore è opposto. Per il narratore dell´introduzione alla 1a giornata si tratta di fondare una base per la verosimiglianza, testimonianza, verità descrizione, realismo. Boccaccio fornisce quindi un rapporto preciso e distaccato (con alcune sottolineature o eccessi espressionistici). Il narratore del proemio, invece, non si dichiara autore ma narratore (Conclusione dell’autore), non difende un genere univoco, ma “storie, novelle, parabole...”, cioè finzioni... Cioè l’esatto rovescio ironico del narratore realista,che “ha visto e quindi sa’ dell’etimologia di storia (histor).
Impossibile e improduttivo cercare in questa fase una verità ultima, “la verità” (di cui parla Platone nel suo Fedro), oppure dove sta il bene e dove il male. L’eticità di Boccaccio non sta nella rappresentazione del male (la peste) oppure nell’indicazione di un percorso (piangere i morti? Realizzare un lavoro di lutto?). L’eticità sta nel mostrare un esempio (un’architettura letteraria), il cui ancoramento con la realtà non può essere messa in dubbio e che, allo stesso tempo, deve essere messa in discussione dalla massiccia e dichiarata proclamazione del regno della fiction, nel locus amoenus proclamato da Pampinea. Questo sfoggio di tinte fosche è, in fondo paradossalmente più drammatico delle infernali visioni di Dante, anche se le immagini (o le istantanee) di questo sono più plastiche e riuscite). Boccaccio non ha come obiettivo il raggiungimento di immagini poetiche o pittoriche: è la trama del testo che gli sta a cuore.

“Umana cosa è l’aver compassione agli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a color è massimamente richiesto li quali già hanno di confortoo avuto mestiere, e hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli. “. Chi parla qui è il narratore o ipernarratore Boccaccio all’inizio del Proemio. Si presenta così, di umilissima condizione: un vero e proprio understatement (“narrandolo io”). Il discorso è impostato sul campo semantico del dolore, provocato dalle delusioni amorose: sono i racconti piacevoli ragionamenti che gli hanno portato rifrigerio e laudevoli consolazioni di amico mi porsero. Dunque B. è mosso da compassione agli afflitti e da noia (dolore), soperchio fuoco nella mente. La sua testimonianza è qui di altro tenore: “io porto fermissima oppinione che per quello essere avvenuto che io non sia morto” “la memoria di questo non terminerà che per morte

Torniamo dunque al dipinto il cui titolo è Trionfo della morte. Solo recentemente (negli anni 60) è stato attribuito al pittore Bruno Buffalmacco, contemporaneo di Boccaccio. Si tratta di un monumentale affresco dipinto circa 8 anni prima della peste nera europea e, quindi, della stesura del Decameron (o di sue parti). Boccaccio era sufficientemente vicino a Pisa e la ripercussione dell’affresco doveva essere stata notevole. Si aggiunga che alcuni anni prima Giotto, già famoso pittore, aveva dipinto il Giudizio Universale nella Cappella degli Scrovegni, a Padova (nel 1305). Esiste fra Decameron e Il trionfo della morte un gioco di rimandi o degli specchi che va ben al di là della rappresentazione dell’opposizione fra locus amoenus e morte. Nella novella VIII, 3 è protagonista l’ingenuo e maldestro pittore Calandrino, preso in giro dai pittori anch’essi Bruno e Buffalmacco (una divisione in due personaggi del nome dell’autore dell’affresco del cimitero di Pisa): la burla verte attorno alla scoperta dell’invisibilità, l’ eliotropia, un tema evidentemente legato a quello della rappresentazione pittorica. Nella novella IX, 3 c’è un Maestro Simone che viene istigato da Bruno e Buffalmacco, petr far credere a Calandrino di essere incinta (l’ingenuità del personaggio lo fa cascare anche in questa burla). Nella novella IX, 5 Calandrino s’innamora di una giovane, ma è ripreso dalla moglie (appare solo Bruno). Si tratta quindi di ben tre novelle con Calandrino come protagonista, in due delle quali appare Buffalmacco. Un numero rilevante, quindi di novelle in cui il protagonista è un pittore, per di più contemporaneo a Giotto (protagonista di una novella, a sua volta) e antagonista di Boccaccio. Protagonista della novella VI, 5 Messer Giotto, è descritto come eccezionalmente brutto (al pari del suo interlocutore Forese da Rabatta). Il mal tempo fa sì che i due chiedano in prestito vecchi abiti sudici a un contadino. Il contrasto è quindi fra l’estrema bruttezza e la sublimità dell’opera, mostrando che anche per gli artisti è fondamentale dominare l’arte della parola, poiché Giotto si dimostra all’altezza di un rapido scambio di battute con Forese. Interessante è un rimando del testo del dialogo al Canto XIII dell’Inferno di Dante: “credea, ch’io credea che credessi...”. Nuovamente il modello dantesco, in un contesto della trasformazione degli uomini in piante che mette in luce la problematica della trasformazione in generale: tra brutto e bello, tra realtà e finzione. Una sospensione, quella di Dante, sintattica e nel senso, un virtuosismo dell aparola che rimette alla sua virtù taumatuturgica e magica della permutazione e che fa della lingua una lingua di magia. Boccaccio insiste tanto nel suo testo sulle virtù della parola, nella sua capacità di cura, che il suo rapporto con la pittura diviene eviudente: un’irritazione contro quel genio (che è poi Giotto) che riesce sì a dipingere il mondo più realista e vero di quello che appare. Ma, allo stesso tempo, una visione critica di quell’arte che non ha la funzione di curare il lettore come il paziente. Una difesa, quindi, di un agonismo fra pittura e poesia, tutto a favore della letteratura.





[1] Questo è il testo pressoché integrale della conferenza tenuta al Congresso di Florianópolis. Spero che possano essere scusate alcune licenze, sopratutto nella citazione dei testi di Tucidide e di Orazio che, per la rapidità con cui il testo è stato redatto, sono stati presi da siti internet, indicati opportunamente. Il testo del Decameron è stato preso dal sito della Brown University che è identico all’edizione curata da C. Branca (Torino:Einaudi, 1996). Il tema è naturalmente vastissimo. Mi ripropongo di riprenderlo, per approfondirne la parte specifica riguardante il rapporto con la pittura, suggerito tra l’altro dal ritrovamento di illustrazioni del Boccaccio stesso alla suaopera.
[2] Convivio II, XII, 24, vedi In Enciclopedia Italiana, voce “musica”, una spiegazione più esauriente.
[3] Leonardo, da Vinci, Trattato della pittura Codex Vaticanus Urbinas 1270; n91-043472.
[4] HILLIS MILLER. A ética da leitura. Rio de Janeiro: Imago, 1999
[5] In Il Canocchiale, 2003 . “Etica e memoria in Primo Levi”
[6] Horácio. “Arte poetica”[Epistula ad Pisones]. In Aristóteles, Horácio. Longino A poética Classíca [trad. J. Bruna]. São Paulo: Cultrix, 1992, p. 55-69
[7] Versi 180-182 in Lessing Lacoonte, trad. de Márcio Seligmann-Silva, São Paulo, Iluminuras, 1998.
[8] Cultrix trad. J. Bruna, op. cit., p. 65
(ed ecco l’originale latino:
Vt pictura poesis; erit quae, si propius stes,te capiat magis, et quaedam, si longius abstes;haec amat obscurum, uolet haec sub luce uideri,iudicis argutum quae non formidat acumen;haec placuit semel, haec deciens repetita placebit. Orazio, Ars Poetica 361 e seg.
[9] ”e que os espectador mesmo vê”, traduce invece nel suo testo Márcio Seligmnann-Silva, nel testo citato.
[10] Il testo in latino suona:
Aut agitur res in scaenis aut acta refertur.Segnius inritant animos demissa per aurem 180quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quaeipse sibi tradit spectator; non tamen intusdigna geri promes in scaenam multaque tollesex oculis, quae mox narret facundia praesens
[11] 107 Format enim natura prius non intus ad omnemfortunarum habitum; iuuat aut impellit ad iram,aut ad humum maerore graui deducit et angit; 110post effert animi motus interprete lingua.
[12] PRAZ, Mario. Literatura e artes visuais. São Paulo: Edusp/ Cultrix, 1982, p. 2-3.
[13] MOMIGLIANO, Arnaldo. “Il tempo nella storiografia antica”, in La storiografia greca, Torino: Einaudi, 1982, p. 66.
[14] Le citazioni, per comodità, sono state prese dal sito http://www.filosofico.net/fedro.htm
[15] Leonardo da Vinci. Codex Urbinas in Márcio Seligmann-Silva. Lacoonte ou das fronteiras entre pintura e poesia. São Paulo: Iluminuras, 1998, p. 57 nota 5.
[16] in Praz, Mario ib
[17] CALVINO, Italo. “Tirant lo blanc In Perché leggere I classici.
[18] ARIÉS, Philippe. História da morte no Ocidente. Rio de J.: Francisco Alves, 1977, p. 33