domingo, 20 de junho de 2010

La novella del Grasso / Prospettiva rovesciata articolo

La prospettiva rovesciata

Una lettura de La novella del Grasso, di Antonio Manetti[1]

La novella del Grasso[2] è praticamente un racconto unico di Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497), esponente poliedrico della Firenze rinascimentale, nel suo molteplice aspetto di matematico, architetto, letterato, considerato in particolare un grande specialista dell’opera di Dante Alighieri, come Galileo Galilei confermerà autorevolmente quasi due secoli dopo[3]. Secondo la critica (op. cit., XVII), almeno tredici sono le versioni ispirate allo stesso tema: una burla realizzata da Filippo Brunelleschi (1377- 1446), architetto, scultore e pittore, e dalla sua brigata ai danni di uno dei suoi componenti, Manetto Ammanettini, il Grasso legnaiuolo, un artigiano intagliatore di ottimo livello. La burla “del Grasso legnaiuolo” è stata attribuita a Manetti solo recentemente, e sarebbe stata redatta nel 1489, cioè quasi 70 anni dopo l’evento famoso: una burla con un’eccezionale diffusione, tanto da far ridere la città di Firenze per molti decenni, dando vita a un numero enorme di versioni scritte. È singolare che lo stesso Filippo Brunelleschi non ne avesse lasciate che versioni orali. Lo stesso Manetti conferma l’esistenza di varie versioni, a conclusione del suo testo: “E ciascuno che la udì da lui, aferma che sia impossibile el dirne ogni particulare come ella andò… Perch’ella fu raccolta, poi che Filippo morì, da alcuni che l’udirono più volte da lui…”(op. cit., p. 43). Dunque, Manetti affronta una dichiarata impossibilità: da una parte considera la sua testimonianza essenziale, un contributo alla battaglia delle idee, momento dell’affermazione della rivoluzionaria prospettiva, da parte proprio di Filippo Brunelleschi. Nell’incipit della Vita di Filippo Brunelleschi, un testo che fa da contesto alla stesso racconto della burla, Manetti afferma: “Tu disideri, Girolamo, d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che tu amiri tanto, dicendoti io che la fu storia vera…”[4]. La verità affermata dal narratore del tema del suo racconto (della burla, del contesto, dell’ingegnosità di Brunelleschi, del mito che lo circonda, dell’essere l’architetto fiorentino il vero inventore della prospettiva) è, quindi, parte essenziale per la sua comprensione. Gli altri autori delle versioni precedenti della burla vengono criticati per almeno due motivi fondamentali: si tratta di testi incompleti e inveridici, testi che riportavano parte della burla, ma non il suo insieme, per le stesse dimensioni e per l’attendibilità, poco affidabili (“ma non era el terzo del caso, ed in molti luoghi frementata e mendosa”, ib.p. 43-4[5]).

Diversi sono gli elementi che fanno di questa novella del Grasso una novella sui generis: colpisce subito una singolare omofonia fra Manetto Ammanettini, il Grasso legnaiuolo, vittima della beffa, e Antonio Manetti, autore della versione scritta. Coincidenza questa forse del tutto casuale, poiché Manetti sostiene – difficile mettere in dubbio la sua intenzione – di aver ricostruito la realizzazione della beffa, come era accaduta realmente. Più rilevante è la vicenda di Antonio Manetti, considerato unanimemente discepolo di Filippo Brunelleschi, di cui avrebbe continuato l’opera in alcune costruzioni; inoltre Manetti viene descritto come un “ricercatore di notizie d’ogni genere spettanti la città”[6], un curioso delle cose del passato, le cose antiche: un “huomo diligente et molto accurato investigatore delle antichità”, definizione questa di G. Benivieni, suo contemporaneo, a cui il testo di Manetti viene dedicato[7]: colui che ricerca nei documenti del passato tramite lo strumento ‘moderno’ della matematica, come nei suoi studi studi, disegni, calcoli, su modelli matematici attribuiti a Dante Alighieri nella idealizzazione del suo Inferno, un tema che appassionerà per molti secoli i letterati, per cui Dante Alighieri non è tanto modello letterario, ma auctor, esempio da studiare e seguire. Il suo testo sarà pubblicato postumo, nel 1509, e si intitolerà: Forma e misure dell’inferno di Dante Alighieri[8], per cui il nostro autore verrà considerato unanimemente il fondatore degli studi sulla cosmologia dantesca.

Manetti occupa dunque nella sua epoca un posto certamente rilevante, che non si limita a quello di autore del testo della burla e della Vita di Brunelleschi, per cui è da noi ricordato. Galileo Galilei si riferisce proprio alle ipotesi di Manetti, come ipotesi degne di rispetto, nelle sue Due lezioni all’accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante[9], il cui esplicito fine è proprio quello di restituire credibilità a Manetti. Galileo afferma letteralmente, a difesa del virtuoso Manetti, “ingiustamente calunniato”:

“Ingegnandoci nel fine, con alcune altre nostre dimostrare qual più di esse alla verità, ciò è alla mente di Dante, si avvicini: dove forse faremo manifesto, quanto a torto il virtuoso Manetti ed insieme tutta la dottissima e nobilissima Academia Fiorentina sia dal Vellutello stata calunniata”.

L’opera di Manetti viene sottoposta a un attento esame:

“Venendo dunque all’esplicazione dell’opinione del Manetti, e prima quanto alla figura, dico che è a guisa di una concava superficie che chiamano conica, il cui vertice è nel centro del mondo, e la base verso la superficie della terra. Ma che? abbreviamo e facilitiamo il ragionamento…

Per Galileo, così come per l’insieme del mondo rinascimentale, Dante è un auctor e va creduto e studiato; i cerchi dell’inferno e le distanze tra il centro della terra e Gerusalemme sono distanze reali da verificare:

“Aviamo sin qui delle 1700 miglia, notate nella superficie sopra l’arco da Ierusalem alla sboccatura, distribuitene 1000 in assegnare le larghezze a i 6 gradi predetti: restanci dunque miglia 700 da distribuirsi per le larghezze de i cerchi rimanenti, ciò è per Malebolge e per il pozzo dei giganti; la quale distribuzione, perch’io la trovo tanto esquisitamente corrispondere alle larghezze che dal Poeta stesso al pozzo ed alle bolge sono assegnate…

Da qui una prima conclusione, che verrà via via ripetuta, “non senza stupore”, che occorre dare ragione a Manetti:

[Ciò] m’induce, e non senza stupore, a credere, la opinione del Manetti in tutto esser conforme all’idea conceputa da Dante di questo suo teatro.”

“…indubitatamente potremo affermare, con maravigliosa invenzione avere il Manetti investigata la mente del Poeta.”

“…Mirabilmente, dunque, possiamo concludere aver investigata il Manetti la mente del nostro Poeta[10]

Per ben tre volte nel testo Manetti è citato come esempio e ammirato. Galileo si preoccupa di ricostruire la verità delle misure dell’Inferno di Dante, quasi si trattasse di misure naturali, con l’accanimento di Galileo di applicare al passato, così come all’universo presente, il nuovo metro di misura matematico. Lo stupore di Galileo, quindi, rispetto alle misurazioni di Manetti è determinato dal fatto che quest’ultimo aveva già trovato e riconosciuto le giuste misure. L’anelito di ricercare la verità nella storia è oggi, quasi cinque secoli dopo, meno importante. É sintomatico che la Vita di Brunelleschi, inizia con un’ideale dedica a Girolamo Benivieni, afferma: “Tu disideri, Girolamo, d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che tu amiri tanto, dicendoti io che la fu storia vera…”[11]. L’accento, nella novella di Manetti, ricade proprio sull’agettivo vera. “Dicendoti io che la fu storia vera”, afferma il narratore a Girolamo. E il testo continua: la novella non dovrà essere letta “come una favola come se ne scrivono molte“. Il narratore ritorna sempre sul suo punto di vista: “perché tu legga la novella come vera”. Il destinatario, dunque, come lettore ideale, viene richiamato a uno sforzo intellettuale. Con lui il narratore stabilisce il suo patto: “e perché, mediante questo caso, col tuo ingegno tu lo penetri tutto, che a te fia assai più agevole che a dimolti altri…” (op. cit.). Per Manetti, dunque, la ricostruzione della verità nella storia è fondamentale. La “natta”, di cui si parla nel testo, è una delle molte variazioni semantiche della parola “burla”[12]. Se la burla è di origine incerta e proviene dallo spagnolo, la beffa è parola di origine onomatopeica[13], la giarda, invece, viene dall’arabo e significa, singolarmente, “tumore osseo”, “burla”, “bugia” (Devoto, op. cit.). La trappola viene dal longobardo “laccio”. Nel testo si usa anche uccellare: “andare a caccia di qualcosa con qualsiasi mezzo”, che diviene sinonimo di “ingannare” e, finalmente, appare anche un vignare, la cui provenienza è sconosciuta. Questa significativa varietà semantica, attesta l’uso comune della burla nella società dell’epoca. Si tratta di un’ attività dell’ingegno “moderno”, forma di esercitazione dell’astuzia, della pianificazione, dell’ironia. Con essa, la brigata, o meglio i suoi elementi culturalmente e socialmente egemoni, mostrano il proprio potere intellettuale. La burla come attività sociale, ma anche come richiamo al modello intellettuale del Decameron di Giovanni Boccaccio. La burla come una forma dell’attività ludica del convivio umano, come una forma di affermare l’ingegno come una nuova retorica, come arma per l’affermazione della gerarchia sociale e culturale della brigata. Si tratta di quella brigata medievale, che già si conosce tramite un episodio famoso nella Divina Commedia (Guido Cavalcanti che snobba la sua brigata che lo persegue) nucleo di una rivoluzione delle classi e superamento delle corporazioni medievali. La beffa ai danni del Grasso, che per noi moderni è di estrema e ingiustificata brutalità psicologica, come si vedrà, avviene apparentemente perché il Grasso diserta – senza giustificazione suficiente – una cena della brigata. Del gruppo fanno parte oltre al leader carismatico Filippo Brunelleschi anche Donatello (Donato de’ Bardi, 1386 – 1466), il cui ruolo decisivo nell’immaginario occidentale è stato enfatizzato da Camille Paglia[14]. Altri membri eletti della società artística della Firenze dell’epoca fanno parte della brigata che, dietro un’apparenza di riunione allegra e conviviale, è carica di un profondo significato sociale:

“Perché era di verno, quando in disparte e quando tutti insieme quivi di varie e piacevoli cose ragionando, conferivano intra loro la maggior parte de l’arte e professione sua” (Manetti, op. cit., p. 3).

Scopo sociale esplicito della riunione, quindi, era la manutenzione dei legami sociali e la realizzazione di un grupo di pressione, lo scambio di informazioni di reciproco interesse e la conversazione su aspetti specifici della propria professione. La coilpa del Grasso è piccola: si tratta di un’assenza a una delle cene del convivio e, per di più, il Grasso stesso, vittima della burla, aveva anche avvisato un suo amico della sua eventuale assenza. L’offesa è rilevante ai danni della brigata, tanto più che il Grasso viene descritto come appartenente a un gruppo sociale lievemente inferiore, anche se accolto dai leader carismatici, come il testo afferma:

“infra alle altre cose egli aveva fama di fare molto bene e colmi [tavolette] e le tavole d’altari e simili cose, che non era per allora atto ogni legnaiuolo; ed era piacevolissima persona, come sono la maggior parte de’grassi, e invero più presto aveva un poco del semprice che no…”.

Il Grasso era piuttosto semplice, non tanto e non solo perché ingenuo (si vedrà durante lo svolgimento della beffa); essendo un artigiano, egli è di strato sociale più umile, condizione inferiore a quella degli architetti, pittori e scultori quali Brunelleschi, Donatello e Tomaso Pecori, presso la cui casa la cena era stata organizzata. Pur visto sotto una luce positiva (un semplice, ma piacevole “come tutti i grassi”), reca un’offesa terribile alla brigata, la disonora sopratutto “perché generalmente erano quasi tutti di migliore qualità e condizione di lui”…(p.4). Secondo Nino Borsellino (op. cit., p.74), che riprende il modello di André Rochon, sono nove gli episodi nella novella. Schematicamente, si tratta 1) della La cena iniziale; 2) Il Grasso lasciato fuori della sua stessa casa; 3) viene organizzato e realizzato il suo arresto; 4) Il Grasso si trova in prigione; 5) A Santa Felicita, dai ‘fratelli ‘ di Matteo; 6) Ritorno a casa e inversione degli oggetti; 7) Le discussioni di S. Maria del Fiore; 8) La rivelazione della beffa; 9) Epilogo.

La novella è complessa, coinvolge Brunelleschi e Donatelli, rappresentanti autorevoli della Firenze dell’epoca, e deve essere inserita, pertanto, in un contesto culturale maggiore. Lo stesso personaggio di Brunelleschi è complesso, a partire dalle polemiche prese di posizioni che caratterizzao la sua vita e dall’insieme degli aneddoti che ne sono originati. Di Brunelleschi occorre mettere in risalto l’audacia al limite della temerarietà, di cui testimonia la costruzione della cupola di Santa Maria in Fiore, con la sua elevata curvatura e senza l’uso di impalcature. Occorre finalmente considerare che Brunelleschi è stato l’autore di decisivi studi sulla prospettiva, e che con lui la questione della prospettiva abbandona un trattamento intuitivo, per assumere un aspetto scientifico, avendo inventato la prospettiva matematica (o sistematica) e avendolo esemplificato tramite l’introduzione di un suo personale metodo, conosciuto come quello delle tavolette. Contrapposto dai più a Leon Battista Alberti, autore del De pintura (redatto nel 1435 e tradotto dall’autore in italiano nel 1436), Brunelleschi non ha lasciato scritti teorici, per ragioni sconosciute. Per Júlio Katinsky[15] questa mancanza si deve alla sua lacunosa formazione classica, ma è possibile che il tema non fosse ancora così premente, da dedicarvi uno studio erudito a sé. Antonio Averlino (1400-1469 circa), detto il Filarete[16], autore di un trattato scritto nel 1452, pochi anni dopo la morte di Brunelleschi, è il primo a riconoscere a quest’ultimo il merito dell’invenzione[17]. La descrizione delle tavolette, realizzata in parte nella Vita di Filippo Brunelleschi proprio da Antonio Manetti, deve essere stato un avvenimento sorprendente e che deve aver attirato l’attenzione di tutta la città. Eccone il riassunto fattone da Manetti[18]:

“egli aveva fatto un buco nella tavoletta dov’era questa dipintura … e pareva che si vedessi ‘l propio vero; e io l’ho avuto in mano e veduto più volte a’mia dì, e posssone rendere testimonianza.”

  1. Ironia e prospettiva

Si può esaminare la novella dal punto di vista delle analogie tra l’episodio della tavoletta inventata da Brunelleschi e alcuni aspetti dello sviuluppo della novella. Il modello di Brunelleschi si caratterizza per una reductio ad unum: il mondo visto tramite un unico luogo privilegiato, un buco conico nella tavoletta: lo sguardo sul mondo ridotto a un punto di vista unico, calcolabile, terreno e oggettivo, senza più ingombranti influenze religiose, apparentemente senza ne pathos ne ethos. È il mondo come effettivamente è, o come appare. C’è da considerare che il buco da cui guarda Brunelleschi, in fondo, è simile alla posizione di Brunelleschi come architetto, realizzatore, voyeur e istrione, che segue controllato e divertito passo passo lo sviluppo della beffa, incamerando il tutto nella sua memoria: “e Filippo aveva tutto bene notato e riposto alla memoria” (op. cit., p. 24) . La tensione del racconto, l’abbondanza dei particolari, la ridicolarizzazione del Grasso fanno pensare alla commedia, poiché l’insieme delle scene è teatrale, così come è teatrale l’inizio della beffa, con Brunelleschi che si fa passare per il Grasso di fronte al Grasso stesso, in un virtuosismo trasformistico da attore di consolidato, in un paradosso inverosimile da situazione veramente estrema (aver scelto proprio il Grasso in questo esperimento temerario è già in sé un elemento dell’ingegno).

L’insieme del testo ci mostra una trasformazione del Grasso, da individuo con una sua storia, un suo nome, delle sue abitudini in un qualcuno radicalmente altro: il Grasso viene costretto a convincersi che si sta trasformando (o si è trasformato) in Matteo, della cui esistenza era al corrente, ma che non conosceva personalmente. Il procedimento di perdita della sua identità lo porterà, nel corso della novella, a varie posizioni: a) da un opportunismo iniziale (il Grasso pensa: “sarà bene dichiararmi Matteo”); b) alla paura di essere sottoposto a un’operazione magica (vengono evocate le metamorfosi in Apuleio, con una minaccia di trasformazione irreversibile nell’altro); c) infine, all’accettazione senza più proteste, della nuova identità, segno della sua rassegnazione. A rigore, si tratta di un movimento dal conosciuto e familiare allo sconosciuto e il perturbante, cioè dall’heimlich all’unheimlich: il Grasso, infatti, ha un carattere allegro, come il testo segnala, vive con la madre nella sua casa, nella sua bottega, nella sua città, nel suo quartiere, con le sue amicizie. Tutto viene brutalmente sacrificato alla logica della burla, specificata dalla novella, in nome di una vendetta che si presenta come un gioco, brutale e cinico, teso e pianificato come un progetto, un orologio, un trattato.

Il rovesciamento della prospettiva, della visione del Grasso, nella novella, equivale al momento in cui lui dovrà dichiarare che ha assunto la personalità di Matteo (o forse non è solo una dichiarazione, il Grasso sarà effettivamente Matteo? In una geniale e precisa mise en abyme, proprio al centro preciso del racconto, il Grasso (che si crede ormai definitivamente Matteo) viene drogato e messo nel suo letto a casa sua, ma all’incontrario, la testa al posto dei piedi. Insieme a lui, tutti i suoi utensili, tutto il suo mondo, verrà rovesciato simbolicamente. Il mondo rovesciato o il mondo al contrario, un simbolo della pazzia che, all’epoca, era associato alle stranezze di Filippo Brunelleschi. Pazzia, a sua volta, come simbolo di un mutamento radicale del punto di vista. Avremo nella novella la precisazione di almeno tre diversi e divergenti punti di vista, tra loro allo stesso tempo incompatibili, interdipendenti e integrativi: quello di Filippo, architetto e realizzatore della burla, quella della realtà, cioè della gente, dell’opinione popolare e pubblica. Infine, quello del Grasso. Manetti insiste sul secondo aspetto, l’aspirazione alla realtà. Nel commenta alle altre versioni della novella, le versioni precedenti alla sua e che rimontavano ai resoconti orali dello stesso Filippo: “sicché qualcuna delle parti molto piacevoli non sieno rimaste indietro, come la raccontava Filippo e come ella era stata invero…”. Come era stata invero, cioè nella realtà oggettiva, più completa della visione dello stesso artefice, Filippo. Infine, e questo è veramente sorprendente e nuovo, si ha nella novella il racconto della prospettiva delle cose dal punto di vista della vittima, cioè dello stesso Grasso, durante il suo processo di trasformazione.

Questa nuova verità sarà un elemento scatenante poiché equivale alla conquista di un mondo nuovo, che è quello psicologico, che si svolge e si realizza – al contrario della prospettiva matematica – tutto all’interno del personaggio stesso. Quando il Grasso tornerà a Firenze dopo la sua fuga in Ungheria, incontrerà proprio Filippo a Firenze. Sorprendentemente, il Grasso mantiene con Filippo un vincolo che se non è di vera e propria amicizia, sicuramente sarà di ammirazione e rispetto, quasi di stupore per la maestria esibita dall’architetto:

“E venne poi in Firenze più volte in ispazio di più anni per più mesi per volta…gli disse [il Grasso a Filippo] questa novella ridendo continovamente, con mille be’ casi drentovi, che erano stati in lui propio, che non si potevano sapere per altri, e dello essere el Grasso e del non essere, e s’egli aveva sognato, o se sognava quand’egli ramemoriava el passato…” (op. cit., p. 42)

In questo brano (“Essere e non essere il Grasso”) il testo passa improvvisamente da un registro realistico e ironico a un terreno filosofico, quasi esistenziale. L’espressione significa qui probabilmente la dissoluzione esplicita e pianificata di una “verità”, legata a un punto di vista soggettivo, arbitrario e vuole difendere un nuovo punto di vista, una prospettiva, che favorisca una comprensione dell’insieme dell’universo in maniera omogenea, proprio analogo alla visione delle cose e del mondo che traspare dal foro della tavola… Un foro, un universo, un occhio, un mondo. Un unico mondo possibile, che presuppone l’esperienza di un altro mondo, di un doppio, un mondo “di retro al sol, del mondo sanza gente”, come afferma Dante a proposito della sua revisione iconoclasta e ribelle del personaggio classico di Ulisse[19]. L’esperienza di un mondo dell’unheimlich, o della pazzia, necessaria per raggiungere la totalità.La prospettiva, dunque, agisce sull’immagine come l’ironia come figura retorica: si tratta di un rovesciamento totale che svela il meccanismo della rappresentazione, edifica una nuova visione del mondo e, allo stesso tempo, mette in discussione il mondo così com’è[20].

Nel caso della novella del Grasso la realizzazione della beffa evidenzia la strategia architettonica di Filippo: audace, tesa, temeraria. Lo si vedrà quando gli aiutanti di Filippo metteranno il Grasso di nuovo a casa sua, ma con la testa al posto dei piedi. Il testo commenta: “e loro sapevano tutto, che veghiavano [vigilavano] ogni cosa” (op. cit., p. 25). La strategia di Filippo equivale a mettere a nudo la trasformazione del punto di vista: da quello della realtà (“invero”) a quella di Filippo, a quella del Grasso che si trasforma e diventa Matteo. L’ironia, in effetti, è un fenomeno il cui valore si realizza pienamente nella tensione, che non si può realizzare che in una situazione di intermediazione, aperta a successive interpretazioni, che nel testo si mostra esitante e ancora indecisa (“in una situazione intermedia fluttuante e indecisa” Alleman, op. cit.[21]. In forma analoga possiamo verificare questa tensione fra varie linee che tendono a convergere verso l’infinito, dove il punto di fuga equivale alla mise en abîme del testo, trasmettendo una falsa sensazione di stabilità. Il messaggio letterale non ha più una funzione assertiva. Il contrasto ironico è inizialmente una dissimulazione, elemento rappresentato perfettamente nella novella da Brunelleschi che si finge il Grasso. Nella novella è la parola che ha la funzione principale e l’artificio è destituire la parola del suo valore semantico, fino all’estremo di destituire il nome dal suo significato di riconoscimento. In questo la novella del Grasso sviluppa da una parte il comico, che risale certamente al modello del Decameron di G. Boccaccio (Borsellino, op. cit.). In particolare, quando pone l’accento sul motto di spirito (il Witz freudiano), nella sesta giornata. In Manetti, però, l’obiettivo dell’indagazione. non è più la parola arguta, ingegnosa, spiritosa, ma la parola limite, la frontiera dell’umana percezione, il mondo sanza gente, di retro al sol.

  1. L’ambiente

L’ambiente nel quale si svolge la beffa è quello naturale dei personaggi, tipico per Firenze, centralissimo e caratterizzato da almeno due luoghi legati all’attività di Filippo: S. Maria in Fiore e Santa Felicita, luogo d’incontro della brigata il primo, luogo in cui il Grasso “diviene l’altro”, il secondo. Dal 1409 Brunelleschi era stato attivo nel cantiere di Santa Maria del Fiore, mentre a Santa Felicita risulta che abbia lavorato; proprio Manetti è considerato il suo continuatore in questa costruzione. Il 1409 è significativamente lo stesso anno della beffa e Giorgio Vasari nelle sue Vite racconta che Filippo aveva affidato a un intagliatore chiamato Bartolomeo la costruzione di un modello di legno. Il progetto di Filippo per la cupola di S. Maria del Fiore vince il concorso del 1418 e nel ’23 gli fu affidata la completa responsabilità dei lavori. Il completamento di questa opera chiave, basata su una tecnica che permetteva di realizzare l’enorme cupola senza bisogno di armature, occupa quasi l’intero arco della sua vita e getta le basi dell’architettura rinascimentale. Conclusa nel ’34 la struttura, nel ’36 fu messa in opera la lanterna di completamento, realizando una delle più grandi imprese del Rinascimento. Il cantiere tenne impegnati per anni i fiorentini in dibattiti e concorsi e, una volta realizzata grazie al genio di Filippo Brunelleschi, diventa il simbolo stesso della città e della nuova, rivoluzionaria, architettura rinascimentale: realizzare e coprire uno spazio di 45,5 metri di diametro senza armature su cui poggiare era veramente impensabile prima di allora.

È qui che occorre valutare la centralità della figura di Brunelleschi e la forza di suggestione delle sue ‘trovate’ audaci, tra cui quella della prospettiva. La beffa ai danni del Grasso può essere vista anche come una temeraria iniziativa, una ‘lotta di carattere ideologico’, per far piazza pulita delle concezioni tradizionali e conservatrici e affermare la nuova visione, quella della prospettiva matematica. La tensione, l’architettura della novella, i suoi punti estremi (la mise en abîme a metà del testo e l’ipotesi di uno specchio ideale, nella novella): tutto fa credere a un modello analogico, costruito per rendere più accettabili e credibili gli enormi cambiamenti che la nuova visione matematica attraverso la prospettiva avrebbero portato.

Il testo sottolinea l’ ammirazione e il rispetto che il lettore ideale (una proiezione del pubblico ideale dell’epoca) aveva per Brunelleschi: “Tu disideri, Girolamo d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che ti amiri tanto,”(op. cit., p.47). Brunelleschi ammirato come genio rinascimentale carismatico, ma anche temuto per la sua follia. Dice di lui Vasari[22]:

“Parve a’ Consoli, che stavano ad aspettare qualche bel modo, et agli operai et a tutti que’ cittadini, che Filippo avessi detto una cosa da sciocchi, e se ne feciono beffe ridendosi di lui, e si volsono, e li dissono che ragionassi d’altro, che quello era un modo da pazzi, come era egli. Del che, parendo a Filippo di essere offeso, disse….

[ c’è un processo ?...] Laonde, licenziatolo parecchi volte et alla fine non volendo partire, fu portato di peso da i donzelli loro fuori dell’audienza, tenendolo del tutto pazzo. Il quale scorno fu cagione che Filippo ebbe a dire poi che non ardiva passare per luogo alcuno della città, temendo non fussi detto: “Vedi colà quel pazzo”. Restati i Consoli nella audienza confusi, e da i modi de’ primi maestri difficili, e da l’ultimo di Filippo, a loro sciocco, parendoli che e’ confondessi quell’opera con due cose: l’una era il farla doppia, che sarebbe stato pur grandissimo e sconcio peso, l’altra il farla senza armadura.” (sott. mia)

  1. La pazzia.

La pazzia costituisce, dunque, un elemento che nella novella appare insistentemente. È anzi l’elemento conduttore della vera e propria trasformazione del Grasso, da Manetto Ammanettini a Matteo e viceversa. Insieme alla questione dell’identità, costituisce il nucleo centrale del testo. “Filippo finse che chi parlassi fussi quello Matteo che volevano dare a ‘ntendere al Grasso che fussi diventato…” (op. cit., p. 8). Il capolavoro architettonico di Filippo si realizza tramite una costruzione più complessa. Il Grasso, evidentemente influenzabile (lo sarà durate tutta la sua storia) dichiara: “e’ mi pare che costui che è su sia me…” (ib.),. Poi rimane come stupefatto e come smemorato e.. si cominciava quase a dare a ‘ntendere d’essere”, (op. cit., 9), cioè comicia già a credere di essersi trasformato. In prigione, dove “quasi per certo gli parve essere un altro” (op. cit.10, sott. mia) fino a che debb’io fare s’io sono diventato Matteo… E in su questi pensieri, affermando ora d’essere Matteo e ora d’essere ‘l Grasso” (op. cit., 11). Una deliziosa storia presa dalle Metamorfosi di Apuleio, raccontatagli da messer Giovanni da Prato in prigione – qui appare l’elemento fortuna in aiuto all’ingegno – finisce per imporre al Grasso la paura di non poter mai più ritornar a essere il Grasso. La pazzia è simbolizzata nella novella dal rovesciamento di tutti gli elementi del mondo del Grasso, dopo essere stato drogato.

“Entrò subito in una fantasia d’ambiguità, s’egli aveva sognato quello, o se sognava al presente (op. cit., p. 26)… E uscito de letto… vide in comune ed in particulare tutte le masserizie travolte. Ed essendo ancora nello inistrigabile pensiero di camera, veduto questo, in un punto da nuovi pensieri fu assalito, cancellando tutti que’ vecchi.“ (op. cit. 27, sott. mia)

Questo rovesciamento letterale (che allude a quello simnolico) è opera degli aiutanti di Filippo, che avevano messo il Grasso nel suo letto, da capo a pie’. Gli stessi aiutanti capovolgono il luogo dei suoi utensili:

“[I suoi] ferramenti da lavorare tramutarono da uno luogo a un altro; e così feciono de’ ferri delle pialle, mettendo dove stava el taglio di sopra… tutta la bottega travolsono, che pareva vi fussino stati dimoni: e trambustato ogni cosa, riserrarono la bottega…” (op. cit., p. 26, sott. mia).

Sarebbe facile collegare questo rovesciamento, specialmente con l’ausilio del demonio evocato, alle teorie di Bakhtin sul carnavalesco. Eppure, a quel che sembra, la pazzia simulata (dal Grasso, all’inizio), evocata (l’effetto vero di una privazione dell’identità, cioè del mondo), allusa (la pazzia in quanto audacia di Brunelleschi) sembra costituire un messaggio autoreferenziale sul linguaggio stesso della rappresentazione, cioè la scelta di un cammino irreversibile che la prospettiva apre. Come il superamento delle due colonne d’Ercole, anticipate dal viaggio di Ulisse nella Commedia di Dante Alighieri e effettivamente lasciate indietro pochi decenni dopo nell’impresa Atlantica.

  1. 4. La nascita del narratore onnisciente: i precedenti letterari de La novella del Grasso

Il testo della novella allude esplicitamente alla novella di Calandrino, il pittore disastrato del Decameron di Giovanni Boccaccio. “La città di Firenze ha avuto molti uomini sollazzevoli e piacenti ne’ tempi adietro”, afferma Manetti. E la novella VIII, 3 “Nella nostra città, la quale sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino…”[23]. Il Grasso esclama: “Ohimé! Sarei io mai Calandrino, ch’io sia sì tosto diventato un altro sanza essermene avveduto?” (p. 9), segno che la parentela con il Decameron non vuole essere assolutamente occultata. Al di là del fatto che Calandrino non si tramuta in un altro, ma sparisce (nella novella di Boccaccio Calandrino e l’eliotropia), il Decameron è evidentemente il grande modello di una novella che, paradossalmente, vuol essere estremamente realistica. Al Decameron, comunque, attingono commedie e teatro rinascimentale, come già mostrato con l’esempio di Calandrino. Ma che si tratti di Calandrino, insieme a Buffalmacco e Giotto, gli unici tre pittori protagonisti nelle novelle del Decameron, è ancora più interessante. La novella sgrana così un fronte consistente di ambiguità o ambivalenze: si tratta di un testo letterario con pretese storiche, o la pretesa storica è solamente una proclamata illusione referenziale (obbligatoria dato il tema?). In fondo, conosciamo già da T. Todorov il ragionamento sulla fiction applicata alla storia, in Morales de la história[24], quando mostra che, sì, il testo attribuito a Amerigo Vespucci avrebbe potuto essere stato scritto da un ghost writer della Firenze medicea dell’inizio del Cinquecento, per cui l’America, nome dato al Continente conquistato, è un nome di fatto illegittimo.

Nel testo fa capolino anche la tensione sviluppata dalla querelle fra letteratura e pittura, nella contrapposizione evocata fra Giotto e Boccaccio, fra il pittore più noto del Trecento e la sua aspirazione al vero (come dice il narratore Boccaccio nelle conclusioni dell’autore del Decameron) e lo scrittore che Boccaccio sa di essere aspirante a testimone della storia dell’epoca. Tanto più perché nel caso di Filippo Brunelleschi e di Manetti, stesso la pittura, insieme alla scultura e all’architettura, costituiscono la base, il contesto di vita e di lavoro dei personaggi, sia nella vita ‘reale’, che in quella della burla, che la rispecchia. La doppia tensione attribuisce al testo una vivacità culturale e spinge a cercare altre valenze possibili, di un testo. Riappare nella novella la querelle fra Giotto e Boccaccio, evocata tramite il personaggio del pittore Calandrino, e che trova nelle Conclusioni del narratore Boccaccio la sua esplicitazione[25]. Inoltre dai critici[26] viene ricordata la parentela con Geta e Birria di Ghigo d’Attaviano Brunelleschi e Domenico da Prato (del sec. XII), a loro volta un rifacimento da Plauto: Geta, ossia il dio Aracde torna dal porto, trova l’uscio sbarrato e ha un colloquio con il finto Geta. Si tratta, dunque, paradossalmente, di una novella che partendo da aspirazioni iperrealiste, assume una proposta, allusioni e riferimenti iperletterari. Difatto, si può affermare che con la novella del Grasso nasce il narratore onnisciente, colui cioè che – grazie alle dritte del Grasso trasmesse a Filippo e da questi ritrasmesse ai posteri, ai lettori – conosce la psicologia del Grasso, quella di Filippo e quella del mondo di Firenze dell’epoca. In effetti, la novella del Grasso, con la sua aspirazione al realismo ‘obiettivo’(come la prospettiva), si richiama, in due punti decisivi, a modelli letterari precedenti.

È proprio questa l’epoca che ha creato l’illusione referenziale, di cui parla il critico Michael Riffaterre: « Il testo poetico è autosufficiente: se esiste un riferimento esterno, non si tratta di una riferimento al reale, al contrario. Non ci sono riferimenti esterni che ad altri testi.“[27]. L’idea di reale, contesto, mondo, referenzialità nel Rinascimento è certamente differente dalla nostra, così com’è difficile definire qual’è attualmente la nostra nozione di reale (postmoderna, poststrutturalista, decostruzionista oppure, influenzata dagli gender studies). Si può affermare che nel Rinascimento avviene la costruzione di un modello, che sarà decisivo per l’affermazione del nostro modo di ‘vedere’, percepire, riprodure a) la ‘realtà’, ammettendo che esista o che abbia senso usare una tale categoria, b) quello che noi di volta in volta possiamo definire ‘realtà’. Prendiamo per es. il concetto lacaniano di reale. Il reale per Lacan è il reale della nostra mancanza, del fatto che noi non siamo [28]. Il reale è un termine negativo, qualcosa di irraggiungibile (almeno senza l’aiuto dell’analista). Il testo realista, pertanto, non è fedele alla realtà referenziale, bensì al genere stesso, in quanto insieme di procedimenti formali il cui obiettivo è l’effetto del reale: motivazione, coerenza, descrizione, ecc. La relazione che si stabilisce fra il pittore rinascimentale e il suo fruitore è assimetrica, poiché l’illusione referenziale maschera l’illusione di essere confrontato con “la realtà così com’è”, senza più la mediazione.

La novella, il narratore lo sottolinea, dovrà essere considerata vera, il paragone sono le favole, frottole, menzogne, inverità che vengono seminate. Menzogne anche a proposito di una questione fondamentale che a Manetti sta a cuore: chi è stato il vero inventore della prospettiva. La cura con cui le date vengono esposte mettono in chiaro questo aspetto. Il vero motivo per saperne della vita di Brunelleschi non è la sua importanza, ma il fatto di essere stato autore della natta. La vita, dunque, in funzione di contesto, di corollario. Una specie di focalizzazione assoluta: i riflettori sono proiettati sulla burla, sulla sua rappresentazione, non sul personaggio, anche se questo dominerà in maniera incontrastata il racconto.

Nell’epilogo, il narratore Manetti appare e si inserisce in una lunga lista di redattori della stessa storia, raccolta dopo la morte di Brunelleschi. Scritta, secondo Manetti, da almeno altri nove redattori e “da molti altri…”. Tra questi ci sono il fratello di Masaccio e Luca della Robbia. Feo Belcari è l’unico letterato del gruppo dei redattori della burla. Manetti, dunque, pur non essendo un testimone “oculare” riesce a trasmettere alla posterità due terzi sconosciuti della storia, che altrimenti sarebbero andati perduti. E lui stesso ci garantisce, contrapponendo qui menzogna alla verità di “una storia vera”, affermata all’inizio del testo della burla, di essere afidabile e onesto (“la storia vera che si dice…la Novella del Grasso, op. cit. p. 77), una storia narrata con precisine e puntiglio, quasi con pedanteria.

5, ut pictura poiesis

In fondo, la Novella del Grasso potrebbe essere messa in un punto preciso e infinitesimale (3 millimetri è, precisamente, la larghezza del foro nella tavoletta), un punto d’incontro fra pittura e poesia, nel senso della letteratura nel suo insieme. L’ipotesi del presente testo è che la giustapposizione è possibile proprio in un momento di enormi cambiamenti, nel contesto dell’epoca: le colonne d’Ercole verrano travalicate dopo pochi decenni; la commedia assume una forma stabile e così la narrativa; si ha, infine, una distanza concettuale fra interpretazione della realtà e trascendenza. L’introduzione della prospettiva che è certamente un movimento di vari decenni e forse secoli, che s’intravvede già in Giotto e in altri pittori, diviene adesso imprescindibile, proprio per la vocazione spaziale e meno temporale del mondo. È vero sì che la prospettiva non corrisponde, come afferma, a una vera obiettività. Come afferma Pierre Francastel in Burke Cultura e società nell’Italia del Rinascimento (op. cit., p. 35): ”La prospettiva lineare non corrisponde ad un progresso assoluto dell’umanità verso una rappresentazione sempre più adeguata del mondo esterno su una superficie bidimensionale; è un sistema di convenzioni come qualunque altro”. Contrariamente al movimento di ascensione relativa della pittura in rapporto alla letteratura, qui la letteratura fornisce un modello di comprensione, un’anticipazione rispetto ai grandi movimenti che verranno introdotti, un’esercitazione concettuale per la realizzazione di grandi compiti a cui i contemporanei e i posteri saranno sottoposti. Non tanto, quindi, e non solo un conflitto e una tensione fin dal tempo di Orazio e, prima ancora, di Simonide (citato da Harald Weinrich nel suo Lethe), o un’opposizione come quella tra Boccaccio e Giotto, quanto un punto di sutura tra un ieri (senza prospettiva e senza mondo unitario) e un domani che non potrà essere visto senza prospettiva o che senza questa rimarrà incomprensibile, incompleto, muto.

Una possibile indagazione futura

Panovsky afferma che “manca all’antichità continuità e concetto di infinito”[29]. Un’affermazione interessante che permette di ventilare un’ipotesi audace: che il concetto di infinito sia stato introdotto dalla tradizione culturale ebraica, già in contatto da centinaia di anni con quella occidentale. Nella tradizione occidentale, però, in contrasto con il concetto di a-peiron, cioè non-finito della tradizione greca, esiste la tradizione ebraica, nella quale affiorano tre elementi: 1. Una scrittura alfabetica, che afferma una religione alfabetica monoteista (come afferma Jack Goody). 2. il principio della permutazione delle lettere (in particolare con Abraham Abulafia, ma anche nella tradizione del Golem). 3. Il nome di Dio[30] che viene legato al concetto di infinito, En Sof dei cabalisti. L’infinito, dunque, nella tradizione ebraica, è un concetto astratto, ma positivo, legato a un potere enorme, il che gli permette di entrare nella tradizione occidentale come simbolo positivo. Un’ipotesi tutta da dimostrare, in un mondo delle certezze. Per concludere: la pittura e la letteratura nella loro fase dello specchio[31].

Nel corso del racconto, il contesto della beffa viene significativamente arricchito da una serie di varianti sgargianti: lo stesso termine beffa, di origine etimologia incerta o onomatopeica, si arricchisce con una grande varietà di sinonimi, attestati da vari dizionari:

natta, con una significato origine incerta [dallo spagnolo]

giarda: dall’arabo: tumore osseo, burla, bugia

uccellare: andare a caccia di qualcuno con qualsiasi mezzo = ingannare, ma anche, con il significato, in portoghese: “guardar sempre alguma perturbação” (op. cit., p. 113, o nell’originale (“chi una volta comincia a dare questi segni… sempre è uccellato”, p. 20)

vignare (non presente sul dizionario).


[1] Pelo contexto da mesa-redonda do encontro do Projeto Cicognara (Unicamp, setembro de 2002), o texto da comunicação foi apresentado em língua italiana e nesta língua está sendo reapresentado aqui.

[2] La novella del Grasso In Antonio [di Tuccio] MANETTI. Vita di Filippo Brunelleschi [Intr. G. Tanturli. Note Domenico De Robertis] . Milano: Il Polifilo, 1976. Si tratta di un’edizione critica che conferma l’attribuzione del testo all’architetto fiorentino, pur senza una prova definitiva (si vedano le osservazioni a Introduzione, XIV).

[3] ??

[4] Le citazioni saranno, d’ora in poi, da Manetti, Antonio. Vita di Filippo Brunelleschi. Preceduta da La novella del grasso. Ed. critica: Domenico de Robertis. Intr. e note.: Giuliano tanturli. Milano: Il Polifilo, 1976. Op. cit., p. 47

[5] Non era, non conteneva che un terzo della burla, ed in molti aspetti si trattava di testi frammentari e inesatti.

[6] Michele Barbi, in Nino Borsellino. La tradizione del comico. Milano: Garzanti, 1989, p. 69-70

[7] Op. cit., in Intr. Vita, XV

[8] Cristoforo Landino e Girolamo Benivieni, primi editori della Commedia di Dante Alighieri, riporteranno i risultati di queste ricerche nelle edizioni del 1481 (Nicolo di Lorenzo della Magna) e del 1506 (Firenze: Filippo Giunti). Girolamo Benivieni pubblicherà nel 1506 il Dialogo circa al sito, forma e misura dell’Inferno di Dante di A. Manetti.

[9] In GALILEI, G. Scritti letterari. Firenze, 1970 [ a c. di A. Chiari]

[10] Op. cit.

[11] Le citazioni saranno, d’ora in poi, da Manetti, Antonio. Vita di Filippo Brunelleschi. Preceduta da La novella del grasso. Ed. critica: Domenico de Robertis. Intr. e note.: Giuliano tanturli. Milano: Il Polifilo, 1976. Op. cit., p. 47

[12] DEVOTO, Giacomo. Abvviamento all’etimologia:

[13] DEVOTO, op. cit. beff : “interiezione dispregiativa”.

[14] Per questa autrice, in Sexual Personae, il Perseo di Cellini (1550) è influenzato dal Davide di Michelangelo (1510), che a sua volta ha come modello il Davide di Donatello (1430-32), un singolare esempio di androgino. La Firenze dell’epoca è dunque alla prese con la costruzione di un modello della cultura occidentale, ostentato al centro della piazza.

[15] Júlio Roberto Katinsky: : “Um experimento com a Ciencia e Tecnología dos primeros anos do Quatrocentos em Florença” Ciencia e Cultura, 34 (10): 1317-1339

[16] Il nome Filareteè un “nome d’arte” e vuol dire in greco “amante della virtù”. Lavorò alla progettazione di “Sforzinda” una città ideale per Francesco Sforza a pianta stellare con al centro una torre alta dieci piani detta “la casa del Vizio e della Virtù” per aver al pian terreno una “casa chiusa” e all’ultimo piano un osservatorio astronomico.

[17] Júlio Katinsky, op. cit., p. 1318 e Giuliano Tanturli, in A. Manetti. Vita di Filippo Brunelleschi, op. cit., p. 55, nota 1: “solo il Filarete aveva dato pieno riconoscimento ai meriti del Brunelleschi come inventore della prospettiva…”

[18] Katinsky, op. cit., p. 1338-9 e Manetti, op. cit., p. 58-9.

[19] Inferno, XXVI, verso 117. Si veda, a questo proposito, la lettura realizzata da Piero Boitani. ???

[20] Nata come termine filosofico (si veda, tra gli altri: ALLEMAN, Beda: “De l’ironie en tant que principe littéraire”) – in Aristotele si trova, infatti, nell’Etica e non nella Retorica o nella Poetica – l’ironia diviene gradualmente una figura retorica, pur conservando l’elemento filosofico legato al concetto. Come figura, l’ironia può essere definita tradizionalmente la forma di dire il contrario di ciò che si afferma “letteralmente”, dunque con una trasparenza per l’interlocutore di questo secondo piano. L’ironia presuppone un patto con il lettore, poiché essere a conoscenza del suo uso è condizione della sua corretta interpretazione (così come nel circolo ermeneutico la comprensione si deve a una precomprensione di carattere intuitivo). L’elemento di autorappresentazione, più caratteristico della versione romantica dell’ironia, è già presente però nella sua caratteristica di svelare più piani o livelli del discorso, che entrano fra loro in competizione e in tensione permanente.

[21]Nel testo originale: “in einer schwebend-unentschiedenen Zwischenlage”.

[22]Vasari, G. Le vite de più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino – Firenze 1550 di Giorgio Vasari. Filippo Brunelleschi. Scultore et Architetto. ???

[23] Nella p. 3 si fa l’esempio anche di Sacchetti, Trecentonovelle, novella CXXXVI.

[24] TODOROV, Tvetan. Las morales de la historia. Buenos Aires: Paidos, 1993.

[25] Parlando evidentemente di Giotto, Boccaccio afferma nelle C[onclusioni dell’autore del Decameron: “Sanza che alla mia penna non dee essere meno d'autorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia, e a san Giorgio il dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva femina, e a Lui medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella.” BOCCACCIO, G. Decameron, ed critica a c. di V. Branca. Torino: Einaudi, 1992.

[26] Giuliano Tanturli, in MANETTI, op. cit. , p. 8 Nota

[27] “ Le texte poétique est autosuffisant : s’il y a référence externe, ce n’est pas au réel, loin de là. Il n’y a de référence externe qu’à d’autres textes. “ RIFFATTERRE, Michelle “A ilusão referencial In ______ et alii. Literatura e Realidade: Que é o Realismo? Lisboa: Dom Quixote, 1984.

[28] Si veda: Sergio Benvenuto, in testo inviato gentilmente dall’autore. Jacques Lacan. O Seminário. Livro 11 Os quatro conceitos da psicanálise. Rio: Zahar, 1988, cap.V, p. 55 e seg..

[29] Renascimento e Renascimentos na Arte Ocidental. Lisboa. Ed Presença, 1981

[30] vedi G. Scholem. Le nome et les symboles de Dieu

[31] Hubert DamischThe origin of perspective, p. 116

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