terça-feira, 25 de outubro de 2011

omaggio a Carlo Pisacane, 1818-1857 primo vero federalista



“Come ogni Italiano non può essere che libero e indipendente, del pari dovrà esserlo ogni Comune. Come è assurda la gerarchia fra gl´individui, lo è fra i Comuni. Ogni Comune non può essere che una libera associazione d´individui e la Nazione una libera associazione dei Comuni”, Carlo Pisacane. La rivoluzione, p. 129

Forse è da Carlo Pisacane, socialista, militante e guerrigliero del Romanticismo, che può venire una proposta seria sullo sfaxcelo della Repubblica Italiana, dopo i 150 anni della costituzione in nazione. è lui che anticipa i gravi problemi che il giovane stato (uno stato nato giovanissimo, ma già molto vecchio e con un eccesso di storia da sopportare) 

“La miseria è la principale cagione, la sorgente inesauribile di tutti i mali della società, voragine spalancata, che ne inghiotte ogni virtù. La miseria aguzza il pugnale dell´assassino; prostituisce la donna; corrompe il cittadino; trova satelliti al dispotismo. Conseguenza immediata della miseria è l´ignoranza, che vi rende incapaci di governare i vostri particolari negozî, nonché quelli del pubblico, e corrivi nel credere tutte quelle imposture che vi rendono fanatici, superstiziosi, intolleranti. La miseria e l´ignoranza sono gli angeli tutelari della moderna società, sono i sostegni sui quali la sua costituzione si incastella, restringendo in picciol giro l´ampio cerchio dell´universale cittadinanza. “La Rivoluzione, 223-4 ib

sexta-feira, 21 de outubro de 2011

morte di Gheddafi




Commento al blog il 18 brumaio http://diciottobrumaio.blogspot.com/
Un testo interessante il tuo. Non inciterei al tirannicidio (nel caso italiano, non sarebbe adeguato...). Però (in un contesto evidentemente diverso) la foto di Mussolini impiccato o quella dei resti di Hitler (non so se è esistita) hanno fatto furore. L´esibizione della morte è una delle caratteristiche della guerra: il prevalere di uno dei due avversari, fino all´eliminazione dell´altro: resa o morte (bisognerebbe verificare se Clasuwitz ne parla, ma credo di sì). Le rivoluzioni arabe sono state e sono tutt´ora (Siria) un fatto positivo.




La foto del dittatore libico Gheddafi e quella del dittatore fascista Benito Mussolini sono certamente sgradevoli. In vita entrambi hanno causato eccidi e genocidi. NOn si tratta di pubblicizzarle senza una riflessione. Non si tratta di approvarle. Ma sarebbe ipocrita guardare a un mondo sempre più sottomesso alle regole della finanza e delle banche e non vedere che con loro si facevano buoni affari. 





Le rivoluzioni arabe sono state e sono tutt´ora (Siria) un fatto positivo.Le pressioni internazionali ed economiche segnano il limite: un governo meno autoritario e tendenzialmente rappresentativo. Risolvere, la cosa non risolve. Ma può dare una spinta a paesi giovani-vecchi come l´Italia che a 150 della sua storia non riesce a liberarsi di una cariatide, senile e perversa. Solo perché appoggiato dalla massoneria, quella più nera (P2).
L´Italia deve  essere rifondata. Per farlo, deve cessare quell´imposizione centralizzatrice che si è verificata 150 anni fa. Va rivalutato Carlo Pisacane, l´unico che strenuamente ha lottato contro la centralizzazione unitaria, tanto monarchica quanto repubblicana. La federazione dei Municipi - che era la sua proposta - forse non è realizzabile (e non lo era) ma è una base etica. Inutile criticare la Lega per il suo federalismo. Su questo hanno pienamente ragione! Bisogna reinventare la partecipazione.

(dal Brasile)

terça-feira, 18 de outubro de 2011

Mosè balbuziente e barbaro


Quasi tutti i risultati che si ottengono, 
sono già prevedibili fin dall’inizio. 
Per questo, sarei tentato di sostenere che 
sono i modelli più stravaganti e meno ben fondati,
che danno i risultati migliori 
René Thom

Le figlie di Ietro dissero al padre:
siamo state salvate da un egiziano.
Mosè ascoltò, ma rimase in silenzio.
Mica Iossef Bin Gorion
 Le leggende del popolo ebraico



Mosè balbuziente e barbaro
di Andrea Lombardi

docente di letteratura italiana 


Un classico, diceva Giorgio Manganelli, più che la sua trama, lascia sempre una scia, un brusìo, un sottile rumore della prosa: “sono libri che talora affaticano alla prima lettura, ma sbocciano superbamente ad un rilettura; e sono libri che vogliono la rilettura” . Viviamo in un mondo decisamente forgiato dai classici. Il nostro insieme di memoria, concezioni e percezioni si fonda su moduli stilistici e descrizioni contenute nei classici. La nostra tradizione si poggia, evidentemente, su due basi: quella greco-classica e quella ebraico-cristiana. Di fatto, la tendenza prevalente è sempre stata quella di rileggere i classici greci (reinterpretandoli, studiandoli, imitandoli, scordandoli, riprendendoli, in un movimento incessante). Una minore attenzione è stata data, fino a poco tempo fa, ai testi biblici, considerati a lungo destinati a letture prevalentemente teologiche. Secoli di esegesi ci hanno tolto il piacere di una rilettura. Eppure, come tutti i testi classici, anche il testo biblico nasconde fra le sue pieghe possibilità immense di riletture e il suo brusìo di fondo incide in maniera particolarmente forte sul nostro comportamento, sulla nostra ideologia, sulla nostra capacità di lettura. 
La nostra tradizione culturale mostra spesso una certa difficoltà nel riconoscere problemi nei rapporti con le altre culture, nonostante il fatto che questi rapporti, nella storia, siano più il prodotto di reciproche invasioni che di pacifica convivenza e collaborazione. Rivolgimenti e conflitti, aggressioni e violenza rimangono nelle pieghe del discorso, anche quando il proposito appare del tutto opposto: “L’atto etico consiste nel riconoscere e ricevere l’altro in quanto altro... Accogliere l’Altro, lo Straniero, invece di rifiutarlo o di cercare di dominarlo”. Si tratta di un testo di Antoine Berman a proposito della teoria della traduzione (in: Les tours des Babel)  che vuole affermare l’importanza di un rapporto dialogico fra culture, come premessa necessaria alla traduzione. Una citazione di Schlegel, lo scrittore romantico tedesco, sull’importanza che deve essere data all’originale rispetto al testo tradotto, che appare subito dopo nello stesso testo di Berman, mostra un impercettibile lapsus. Dice Schlegel: “La mania [degli arabi] di distruggere o di gettare via gli originali appena fatta la traduzione caratterizza lo spirito della loro filosofia. Per questo loro potranno essere magari infinitamente più coltivati, ma, con tutta la loro cultura, saranno nettamente più barbari degli europei del Medio Evo” (ib., corsivo mio). Secondo Berman, il rapporto di appropriazione che caratterizzava la cultura araba, evidenziato da Schlegel, costituisce “l’archetipo di un rapporto di appropriazione non-dialogica, non-etica”(ib) e continua, in maniera significativa “poco importa se la valutazione di Schlegel sulla civiltà araba è fondato o meno”(corsivo mio). Il lapsus  di Schlegel si trasforma qui in una vera e propria gaffe. Se la distruzione dell’originale è effettivamente poco difendibile (ma non rafforza il paradosso richiamato da Benjamin, di una ricerca di un testo originale tramite la traduzione?), ancor meno difendibile è la citazione di una valutazione tra culture, che parte proprio dal concetto di barbaro (“saranno nettamente più barbari...”, dice Schlegel)! 
È probabile che abbia ragione Agamben (Stanze.Torino: Einaudi, 1993) quando ricorda la tendenza della cultura greca (e quindi della nostra tradizione) a privilegiare il concetto di armonia. Come dice Agamben: 
“Nel linguaggio aurorale del pensiero greco, questa <> della presenza prende il nome di armonia. Intorno alla radice indoeuropea di questa parola si dispone una costellazione di termini che fa segno verso una nozione cardinale dell’universo dei popoli indoeuropei: quello dell’ordine giusto che regola il ritmo dell’universo, dal movimento degli astri, al succedersi delle stagioni, ai rapporti fra gli uomini e gli dei... “
La tendenza a dare un’immagine fantasiosa, un quadro idilliaco, prodotto di una sovrapposizione armonica che, di fatto, elimina tutte le asperità, le differenze, in nome di una omogeneità fittizia fa tuttora parte della nostra concezione. Se possiamo considerarci eredi di due tradizioni distinte, quella greco-romana e quella ebraico-cristiana, possiamo, a ragione, interrogarci sul grado di omogeneità delle due tradizioni, cercando di indagare quelle differenze, asperità, dissimmetrie che una visione armonizzante e livellatrice può aver cancellato. In questo senso, una rilettura del testo biblico dovrà fare attenzione a sottili cambiamenti di tono: la lettura del testo dovrà tenere conto di un contrappunto il più delle volte casuale e dissonante, indizio di nodi non risolti che qui e là sono rimasti e testimoniano deformazioni nel testo e nel tessuto della cultura. In questo senso, anche la tradizione ebraico-cristiana deve avere sofferto questa lettura deformante e livellatrice. Come dice De Luca, nella sua introduzione alla sua traduzione dell’Esodo  a proposito delle differenze linguistiche, che hanno reso complessa la traduzione dall’ebraico e dall’aramaico:
“Non ha giovato alla nostra lettura della Lingua sacra lo scalo di Atene, tappa decisiva del suo smistamento nel mondo. È stato un dirottamento e una sciagura... L’intima inconvertibilità di una lingua/moneta in un’altra non poteva trovare ragione di scambio più sfavorevole. L’ebraica, magra e esatta, ne uscì sfigurata, colonizzata, interpretata dal dotto e torrentizio vocabolario del Greco, abituato a considerare barbaro ogni altro idioma...”(p. 5). Eugene Chen Eoyang ricorda che, l’Antico Testamento è forse l’unico testo fondante di una religione che fin dall’inizio è stato scritto in lingue diverse, facendo sì che il problema della traduzione e l’incorporazione della diversità faccia parte integrante della tradizione .
Ancora una volta il testo biblico, ed in particolare l’Esodo, si presta a una rilettura . Mosè, un alto dignitario probabilmente egiziano, dell’entourage del faraone Akhenaton, così come ipotizza Sigmund Freud (in Mosè e il monoteismo), lascia una traccia visibile della sua natura di straniero nella sua balbuzie, documentata dal testo biblico. L’introduzione della scrittura alfabetica, simbolizzata dall’episodio della rivelazione (roveto ardente e Monte Sinai) è l’elemento nuovo e rivoluzionario, tramite il quale Mosè, uno straniero balbuziente e dunque barbaro (secondo indizi etimologici), viene accreditato come leader carismatico del popolo ebraico. Il Dio di Mosè, enigmatico e astratto (così come si mostra in Esodo 3,14) rappresenta una metafora del testo (o meglio, della scrittura alfabetica), le cui caratteristiche vengono posteriormente attribuite a Dio, un Dio intertestuale, perché da allora legato indissolubilmente al testo e a tutti i testi nella tradizione occidentale, e quindi eterno, onnipotente...  La rivelazione, dunque, rappresenta il momento della traduzione (simbolicamente richiamata dal ruolo di traduttore di Aronne), da parte di Mosè di un insieme di conoscenze, ossia un momento conflittuale, di incorporazione dell’elemento barbaro, che la tradizione tenderà a cancellare. La balbuzie, l’incapacità di Mosè di esprimersi, costituirà la testimonianza di questo conflitto, diluito e attutito. La tradizione ebraico-cristiana si mostra assolutamente non omogenea; al contrario, rivela essere prodotto di una rilettura a posteriori, nella quale si presenta in una sua ipotetica armonia. Prendiamo proprio la scena del dialogo fra Mosè e Dio, che segue il momento in cui questi si è presentato a Mosè e gli ha rivelato il suo nome, nella nuova versione di Erri De Luca che, recentemente, ha pubblicato una nuova traduzione corredata da stimolanti note.

4,10. E disse Mosè a Iod: “O Adonài non sono uomo di parole Io, né da ieri né da prima di ieri e neanche da quando la tua parola è al tuo servo. Perché sono pesante di bocca e pesante di lingua Io”. 11. E disse Iod a lui: “Chi ha messo una bocca all’uomo e chi renderà muto o sordo o vedente o cieco? Forse Io Iod? 12. E adesso vai. Io Sarò con la tua bocca e ti insegnerò ciò che dirai”. 13. E disse: “O Adonài manda per mano di chi vorrai mandare”. 14 E si accese d’ira Iod con Mosè e disse: “Non c’è Aaron tuo fratello il levita? Ho saputo che parlare parlerà lui... 15. E parlerai a lui e metterai le parole nella sua bocca. E io Sarò con la tua bocca e con la sua bocca e insegnerò a voi ciò che farete. 16. E parlerà lui per te al popolo. E sarà che lui sarà per te come una bocca e tu sarai per lui come Elohìm. 17. E questo bastone prenderai nella tua mano, per mezzo del quale farai i segni (prodigiosi)”. 

Mosè egiziano

Freud non è certamente stato il primo a sostenere l’origine egiziana di Mosè che, già in antiche leggende ebraiche, riportate nell’epigrafe di questo articolo, veniva considerato straniero. Nel suo testo: Mosè e il monoteismo  si mostra visibilmente imbarazzato, inizia una difesa di posizioni che reputa, in una certa maniera, eretiche: “Sottrarre a un popolo quell’uomo che viene celebrato come il più grande fra i suoi discendenti non è cosa che si faccia volentieri o a cuor leggero, specialmente quando si è parte di quel popolo” . In questo testo, la cui stampa viene da lui stesso ritenuta problematica negli anni del nazismo imperante , le sue argomentazioni partono da considerazioni etimologiche. La stessa origine del nome Mosè (Moshe in ebraico) mostrerebbe, secondo Freud, un’origine egiziana (si tratta dei nomi di alcuni faraoni:  Ah-mose, Thut-mose e Ra-mose). Freud esclude che quella di Mosè sia una leggenda ebraica: che senso avrebbe, infatti, l’attribuire un’origine straniera a un eroe nazionale ebraico? D’altra parte, non si vede, secondo Freud, il motivo per cui un eroe egiziano dovesse essere mostrato come facente parte di una tribu di schiavi. Per Freud, dunque, la leggenda aveva la funzione di provare l’ origine ebraica di un Mosè evidentemente egiziano. Mosè l’egiziano avrebbe tramandato-tradotto , in quanto rappresentante della religione di Akhenaton (fautore di una versione del monoteismo), la sua religione al popolo ebraico. Le conclusioni sono abbastanza singolari, irte di paradossi e ipotesi piuttosto impervie: Mosè sarebbe stato ucciso in una ribellione del popolo da lui eletto (l’ebraico), che avrebbe abbandonato la religione. Impossibile riportare anche solo per sommi capi la sterminata letteratura (storica, pseudostorica, teologica, mistica) sul personaggio Mosè. Tra gli altri, cito Lehmann (Mosè l’egiziano nella Bibbia e nella leggenda) , che conferma le ipotesi di Freud: “Mosè, che ha condotto gli israeliti in quella Terra Promessa dove oggi si trova lo stato di Israele, molto probabilmente non era ebreo, era egiziano.” (p. 8). Ciònonostante Lehmann contraddice l’ipotesi etimologica su cui si era appoggiato Freud: “la derivazione etimologica [del nome di Mosè] dall’ebraico è errata e artificiosa, poiché Mosheh... è ‘colui che trae fuori’ e non - come dice la Bibbia - ‘colui che è stato tratto’“(p. 21). L‘autore menziona un mito accadiano (quello di Sargon) in tutto e per tutto analogo al ritrovamento della cesta con il piccolo Mosè e concorda sul legame fra Akhenaton e Mosè ; del resto, per Lehmann esiste un ragionamento deduttivo difficilmente confutabile: “Non può essere stato un caso che nella medesima area geografica e culturale, pressappoco nello stesso periodo, si sia sviluppato per due volte, in maniera completamente indipendente l’una dall’altra, il medesimo concetto di un Dio unico, un’idea veramente rivoluzionaria per le concezioni religiose di allora” (ib. p. 104-5). Questa tesi, che di fatto stabilisce un rapporto organico fra cultura egiziana e ebraica, si lega a un’ipotesi della nascita dell’alfabeto sostenuta da Ong, nel suo testo Oralità e scrittura : “La cosa più notevole a proposito dell’alfabeto è che esso fu inventato una volta sola. Questo avvenne intorno all’anno 1500 a.C., ad opera di una o più popolazioni semitiche nella stessa area geografica in cui due millenni avanti era apparsa la prima di tutte le scritture, quella cuneiforme...Tutti gli alfabeti del mondo... derivano in un modo o nell’altro dallo sviluppo di quello semitico originario...”.
Si potrebbe pensare alla nascita del monoteismo e alla nascita dell’alfabeto (che avvengono nella stessa regione e nello stesso periodo), come una forma di apice della rivoluzione neolitica: un coronamento dal punto di vista tecnico (la scrittura alfabetica) e ideologico (la religione del verbo scritto) . 
Quale Dio

Uno dei punti centrali della rivelazione mosaica è la traduzione dell’Esodo 3,14, cioè quando Mosè chiede a Dio il suo nome ("). Rispetto a un nome Jahwe pronunciato circa 6800 volte nel testo biblico , evidentemente qualcosa di nuovo doveva esssere trasmesso a Mosè, perché chiedesse a Dio di esplicitare il suo nome. In Esodo 3, 14 il nome di Dio (o quella che è una risposta alla domanda sul nome di Dio) suona ““: così lo ha tradotto, per esempio De Luca. L’uso del tempo presente (“Sono colui che sono”), che risale alla traduzione dei Settanta, a cui corrisponde ‘ego sum qui sum’ di San Girolamo nella Vulgata, travisa, evidentemente, questo nome  (l’unica risposta a una vera domanda pronunciata a proposito del nome di Dio nel testo biblico) che è nell’imperfetto della lingua ebraica. Si tratta di un modo e non di un tempo. Walter Rehfeld, un eminente ebraista brasiliano , ha mostrato le implicazioni dell’imperfetto come modo nell’ebraico antico: “L'imperfetto [in ebraico antico] designa quello che sta per succedere, ma ancora non raggiunge la sua conclusione, il cui processo perdura nel presente e, forse, si estenderà al futuro”. 
Un nome di Dio imperfetto allude a una creazione ancora da concludere, in cui l’uomo svolge una funzione determinante e rimette forse a una metafora del testo alfabetico, una metafora delle metafore. Una traduzione al presente suona come un’affermazione ontologica, che indica un Dio della predestinazione (“Sono colui che sono”). La trasformazione del nome di Dio (al futuro) in un nome al presente è un evidente travisamento dalle conseguenze radicali. Difatti, De Luca aggiunge alla sua traduzione la seguente nota: “L’incredibile è che quelli che qui traducono l’ “Eiè” al presente, due versi prima e in tutti gli altri luoghi della Lingua sacra lo traducono con il futuro.” E ancora: “La frase di Iod  non è una definizione ontologica, dunque filosofica come piace ai Greci, ma è la risposta di Iod, unica in un momento unico, al suo prescelto.” (nota 49, p. 23). A questo problema Walter Rehfeld (op. cit.) aveva già proposto varie soluzioni, parallele:
"É tramite il verbo hayá que Dio si identifica, quando, al momento di ricevere la missione di liberare i figli d'Israele in Egitto, Mosè chiede quale risposta dovrà dare circa l'identità di chi gli aveva dato tale investitura. La risposta fu Ehyeh asher Ehyeh [...]: , o , o ancora . " 
Occorrerà ricordare alcune implicazioni di questo passo: a) è l’unica volta che il nome di Dio viene effettivamente pronunciato; b) la risposta è enigmatica ed oracolare, cioè assomiglia a una frase realmente pronunciata (si vedano i testi di M. Buber e F. Rosenzweig ), cioè non è un vero e proprio nome; c) non si tratta tanto di un rinnovamento del patto del vecchio Dio (di Abramo), quanto di un nuovo patto con un nuovo Dio (quello di Mosè, l’egiziano), con nuovi interlocutori e nuove regole, e sopratutto, una nuova forma. È proprio in questo momento che il Dio di Abramo diviene il Dio di Mosé. Si tratta di un momento di traduzione tra culture che avviene in forma agonistica, cioè conflittuale: il nuovo Dio soppianta il precedente; d) la conoscenza del Dio avviene tramite dei segni (in particolare, tramite la scrittura alfabetica, con cui si manifesterà tramite il Decalogo); e) l’aspetto linguistico (un Dio nel modo imperfetto, cioè che richiede all’uomo un intervento essenziale per completare la creazione, invece di un Dio perfetto, già completo) è connesso a quello culturale; in fondo, un Dio con queste caratteristiche (un Dio non solo rappresentato dal testo, ma un Dio del testo) permette a una lingua un tempo nuovo (rispetto ai modi tradizionali della lingua ebraica). Tramite la scrittura alfabetica, il messaggio può diventare autoreferente, esplicitare il suo codice, aprire la possibilità della mise en abyme .
L’importanza del legame fra nome e concetto di ciò che viene nominato è sufficientemente attestata nella tradizione, dal Cratilo di Platone alle polemiche fra nominalisti e realisti del Medio Evo. La lettura del nome di Dio permette varie interpretazioni, ciò significa che dipendiamo da una tradizione che, al suo interno, si divide in vari rivoli. Il cammino alla ricerca della genealogia del libero arbitrio porta alla conclusione che il nostro passato è frutto anch’esso di una scelta deliberata, una lettura o una rilettura (un esercizio del libero arbitrio nella traduzione). Occorre tener presente che all’interno della tradizione ebraica esistono vari strati del testo biblico  e solamente uno di questi menziona la novità della rivelazione mosaica, la scena del “roveto ardente”. Per alcuni (Buber , Lehman ) si tratta del cosidetto redattore Elohista, per von Rad (op. cit.), invece, si tratta del testo più tardivo, cioè quello sacerdotale (P o Priesterschrift). La singolarità della problematica sta nel fatto che il nostro mondo dipende da una tradizione che fa della concezione Dio la pietra miliare di una visione del mondo completa, anche se, come si è visto, non priva di ambiguità.

Mosè balbuziente e barbaro 

Per Devoto  esiste un nesso evidente fra barbaro, nel senso di balbuziente e il termine straniero: “bàrbaro, dal lat. barbarus, che è dal gr. bárbaros ‘straniero’, nel senso di ‘balbettante’, ‘incapace di farsi capire’. Nello Zingarelli barbaro viene definito “straniero, probabilmente balbettante, perché non sa farsi capire” . Una specificazione interessante è quella di G. Genette: “Nelle lingue più antiche le parole che servono a designare i popoli stranieri provengono da due fonti: da verbi che significano balbettare, o da parole che significano muto” . Chen Eoyang (op. cit., p. 48-9), affronta varie definizioni e problematiche del termine barbaro:  
”Sul significato fondamentale della parola che designa qualcosa di inintellegibile, ‘sembra che non ci sia disaccordo... Si tratta di una parola onomatopeica che imita, originalmente, ogni sorta di suono inintellegibile, di animali, oggetti o dell’uomo’... Boisacq lo mette in rapporto con il greco Babai, Babalein, e con il latino balbus, balbutio”. Continua Chen Eoyang: 
“Le definizioni di “barbaro” alludono e propendono all’ambiguità. Inizialmente si tratta di una definizione di ciò che era straniero, non indigeno, con una lieve patina di superiorità culturale, che in genere differenzia (se questa è la parola giusta) l’altro incolto dall’io colto. Per i drammaturghi greci barbaros comprende tre significati...: si riferisce a ciò che era inintellegibile, ciò che era straniero, non greco; e, finalmente, ciò che era straniero, con qualche implicazione di inferiorità...”(p. 48). Barbaro, dunque, non allude solo alla balbuzie, a ciò che è inintellegibile, a ciò che è straniero ma, in una certa misura, a ciò che è inferiore.
Lo stesso autore affronta la problematica dell’origine etimologica di Babele, le cui allusioni vanno nella stessa direzione e che aprirebbe la possibilità di numerose congetture. Ricordando la scena biblica, Yahweh ha confuso le lingue in tutto il mondo, Chen Eoyang osserva che “La parola ‘confuso’ traduce la parola ebraica balal, che significa ‘mescolato, confuso’, un gioco di parole in questo contesto su Babele e ‘Babilonia’”(op. cit., p. 5). Se la scena di Babele è stata presa come paradigma della traduzione (“Le passage de la Genèse sur la tour de Babel est la scène primitive de la téorie du langage, et de la traduction” ha affermato, per es. Henri Meschonnic ), si dovrà considerare che nella stessa tradizione ebraica esistono almeno due scene fondanti della traduzione, quella di Babele e quella della rivelazione mosaica.
Un’altra considerazione di Chen Eoyang appare molto interessante quando sottolinea che il mito di Babele si riferisce a un’epoca in cui non esisteva lingua scritta, o perlomeno, non era menzionata (op. cit., p. 6). Si tratta, dunque, di un “documento scritto di una storia orale che non ha preso in considerazione l’avvento della scrittura. Poiché la storia di Babele non amette la possibilità che mentre la lingua orale può venire confusa fra i popoli della terra, altrettanto non può avvenire con la scrittura” (ib.). Il mito di Babele rappresenta certamente il mito di una caduta, dall’unità alla molteplicità: forse un indizio del contatto fra culture orali, nella fase neolitica. Il mito di Mosè, al contrario, potrebbe significare il suo contrario: dalla molteplicità (o dalla differenza fra cultura egiziana a cultura ebraica) all’unità, incorporando alla scrittura gli elementi di magia che hanno sempre caratterizzato l’uso mistico della lingua , che aveva la sua ragione di essere fondamentalmente nell’oralità.
Il mito di Teuth, che Platone inventa di sana pianta nel suo Fedro, mostra quanto Platone fosse pessimista. Derrida  commenta il pessimismo di Platone dal suo punto di vista, cioè come dimostrazione di un momento di fondazione dell’essenzialismo a partire dallo schema di Platone “che assegna l’origine e il potere della parola, precisamente del logos, alla posizione paterna”(ib., p. 13). La leggenda di Theuth è il prodotto della fantasia di Platone, ma sempre “sorvegliate e limitate da una rigorosa necessità” (ib. p. 20). Tutto ciò che Derrida sottolinea, a proposito di Theut-Thot (il corrispondente Dio egiziano), la subordinazione di Thot, in quanto mero esecutore del progetto di Horus, la sua funzione di intermediario, la cui parola è “seconda e secondaria”(p. 23) [?].  
Occorre tenere presente che la scena originaria dell’invenzione della scrittura in Platone non è l’unica nella nostra tradizione e non è necessariamente la più forte, quella le cui radici sono più profondamente intrecciate con le nostre origini. Esiste un altro mito fondante, che è quello dell’invenzione dell’alfabeto da parte di Mosè, oppure il mito dell’introduzione della scrittura alfabetica a partire dalla rivelazione mosaica (ché la scrittura fosse del Dio o di Mosè, le versioni bibliche non lo chiariscono, ma stabiliscono un nesso inscindibile tra testo-Dio e Mosè): un  elemento inoppugnabile, presente in maniera immediata nella eredità culturale occidentale (nella tradizione biblica e nel cristianesimo) e mediata, tramite il legame intertestuale di tutti i testi con quello biblico. Un legame, del resto, tra le due tradizioni affiora nella versione del Fedro di Platone utilizzata da Derrida, quando Socrate attribuisce al testo scritto la doppia funzione di indurre all’esodo e caratterizzare come straniero colui che è sotto l’effetto del testo.
“[Socrate] Les feuilles d’écriture agissent comme un pharmakon qui pousse ou attire hors de la cité celui qui n’en voulut jamais sortir, fût-ce au dernier moment, pour êchapper à la ciguë [sic]. Ils le font sortir de soi et l’entraînment sur un chamin qui est proprement d’exode: PHEDRE: ...tu fais l’effet d’un étranger qu’on guide, et non pas d’un indigène... (corsivo mio, op. cit., p. 8)
Le due scene originarie dell’introduzione della scrittura, quella costruita da Platone (il mito di Theut) e  quella della rivelazione mosaica, sono contrapposte, ma analoghe e avvengono su piani differenti: prepotente, quasi cinematografica, quella biblica, (le scene sono piene di effetti iperbolici, comunque iperrealistici), una scena letterale. Metaforica e allusiva, quella platonica, da vedersi in controluce, il cui contesto è quello dell’introduzione dell’alfabeto nella cultura greca e la necessità di definire una sorta di ancoraggio, di interpretazione canonica del senso, contro gli attacchi dei sofisti (e dei poeti), cioè contro tutti coloro che avrebbero potuto creare un senso differente. Se il pharmakon In Derrida è una specie di lapsus del testo platonico, in rapporto a una sovversione dell’ordine, tra voce e testo, tra logos e apparenza, il mito mosaico è un’assenza significativa e interpretabile nel testo di Derrida. La contrapposizione tra l’eredità greca e quella ebraica non potrebbe essere più radicale, su questo punto. Ong (op. cit.), citando anche Havelock, fa luce sul contesto storico e culturale della polemica di Platone e spiega anche il perché della sua scelta così pessimista in rapporto alla scrittura: 

“Ma all’epoca di Platone... un cambiamento era ormai avvenuto: i greci avevano finalmente interiorizzato la scrittura... Havelock mostra che Platone escludeva i poeti dalla sua Repubblica ideale essenzialmente (se non proprio consapevolmente) perché si trovava in un mondo intellettivo nuovo, regolato dalla scrittura, in cui la formula o il cliché, amati dai poeti tradizionali, erano fuori moda  e controproducenti...il rapporto fra la Grecia di Omero e tutto ciò che la filosofia dopo Platone rappresenta è, per quanto superficialmente armonico e senza soluzione di continuità, di fatto profondamente antagonistico [corsivo  mio], anche se spesso a un livello inconsapevole. Di tale conflitto inconsapevole risentí anche Platone, che nel suo Fedro nella Settima lettera esprime riserve sulla scrittura... essa segnò il momento della storia umana in cui per la prima volta [corsivo mio], una cultura alfabetica scritta profondamente interiorizzata si scontrò con l’oralità... né Platone né altri furono- o potevano essere- consapevoli di quanto stava succedendo”(p. 48).

L’introduzione della scrittura è un avvenimento traumatico: se nella cultura greca è legato a una visione pessimistica, che Platone ha espresso, inventando un mito sostanzialmente negativo, nella cultura ebraica è indissolubilmente legato alla definizione del libero arbitrio e all’Esodo, proprio perché la scrittura alfabetica introdotta in un contesto culturale sostanzialmente arretrato da parte di un rappresentante di una cultura più sviluppata come quella mosaica (egiziana), produce effetti visibilmente nuovi e positivi.

Torniamo, ancora una volta, al testo biblico, nella traduzione di De Luca. (Esodo 3,10) non sono uomo di parole, dice Mosè al Dio che gli si sta rivelando, cioè sono un uomo di poche parole, oppure sono un uomo laconico. Dio si è rivelato, con il suo nuovo nome, a Mosè il quale -testardo- insiste sulla propria incapacità. Fin qui, niente di strano: potrebbe trattarsi di una manifestazione di modestia di Mosè, di fronte a tanti aspiranti condottieri dell’epoca. Von Rad (op. cit.), per esempio, ci informa che l’elezione di un capo carismatico fra le varie tribu ebraiche, era molto comune: la realizzazione di un “patto anfizionico”, cioè con caratteristiche religiose e la scelta di un condottiero in caso di pericolo grave, è più che giustificata. Può voler dire che si considera un uomo d’azione (in fondo era lui che, senza tante parole, aveva ucciso un egiziano e lo aveva sotterrato sotto la sabbia, senza sprecarci più di una frase, appunto ). Può, però, voler dire che non parla la lingua degli ebrei, che non è in grado di farsi capire.

3,10 Perché sono pesante di bocca e pesante di lingua Io: qui la descrizione è più specifica. Perché insistere sulla bocca e sulla lingua? Non potrebbe alludere a una balbuzie consolidata, al suo essere balbuziente per formazione? De Luca, commenta, a questo proposito: “Neanche la balbuzie è ostacolo per il chiamato. Le bocche dei profeti vengono spesso investite da provvedimenti misteriosi... Nessuno però come Mosè sarà ‘chevòd pe’, pesante di bocca, balbuziente...”(ib., p. 27). Più tardi (Es. 6,12) in un’altra versione della rivelazione, Mosè dichiara: “io sono incirconciso di labbra”. Commenta De Luca (p. 33, nota 71): “come se la balbuzie fosse un’escrescenza di carne... la circoncisione serve a sgomberare ostacoli al seme, la balbuzie che ostruisce la parola equivale a un prepuzio. È qui evidente il legame tra parola e seme.” Se effettivamente Mosè è egiziano, questa sua caratteristica di straniero si riflette nel suo rapporto con la lingua ebraica.

3,12 E adesso vai. Io Sarò con la tua bocca e ti insegnerò ciò che dirai. Commento di De Luca: “ Sarò con la tua bocca: altro ritorno del ‘Sarò’, nome comune d’ intesa e di patto tra Iod e Mosè.”(ib.). Ricordiamo che si  tratta dell’Ehyeh che richiama il nome di Dio, appena proferito per la prima (ed unica) volta (in 3,14). Se Dio usa il verbo essere  al futuro, per designare una sua presenza nella bocca di Mosè, dobbiamo attribuire al gesto un motivo sufficientemente drammatico o essenziale. Nonostante questa presenza di Dio, Mosè avrà bisogno di un intermediario, cioè Aronne: 4,14 “Non c’è Aaron tuo fratello il levita? Ho saputo che parlare parlerà lui...” 4,15. “E parlerai a lui e metterai le parole nella sua bocca...”. Mosè parlerà a Aronne che parlerà al popolo. ‘E Mosè sarà per Aronne un Elohim”, un Dio, uguale al Dio della Genesi (per la tribu di Abramo).

4, 14 E si accese d’ira Iod con Mosè. Nell’episodio biblico, la rabbia di Dio, la sua impazienza, appare in un certo senso fuori posto: se Dio sapeva già da prima (4,10 non sono un uomo di parole - così aveva detto Mosè -  né da ieri né da prima di ieri) che il suo interlocutore, l’intermediario prescelto era pesante, perché lo ha scelto? Perché insiste? D’altra parte, se il redattore scrive dopo l’episodio (almeno 300 anni dopo, secondo von Rad) e cerca di dare omogeneità e coerenza al testo, perché lasciare tale segno di incongruenza? Altrettanto misterioso appare l’episodio in 4, 24 “E fu nel cammino nel luogo di pernottamento: e lo incontrò Iod e cercò di farlo morire”, cioè Dio cerca di far morire Mosè. Sua moglie risponde in maniera altrettanto misteriosa: taglia il prepuzio di uno dei figli. Non è chiaro di chi si tratti, ma potrebbe essere proprio Gershòm, che qui rappresenterebbe Mosè. ‘
Altrettanto incomprensibile, quasi un lapsus del testo, è l’episodio di Iethro, il sacerdote di Midiàn, che compare nell’infanzia e adolescenza di Mosè: Mosè si trova per caso a difendere due delle figlie di Iethro che al padre raccontano: 2, 19: “Un uomo Egiziano ci ha liberato dalla mano dei pastori...”(corsivo mio).

Secondo la definizione citata di Chen Eoyang, barbaro è incomprensibile, straniero e in certo modo, inferiore. È possibile che il distacco, la diffidenza fra ebrei ed egiziani trasparisca ancora tramite questa tensione fra Dio e Mosè (del resto, anche altri episodi comprovano che il rapporto non è certo molto facile) e dai lapsus del testo. Mosè, se egiziano, è un barbaro, un inferiore per gli ebrei. Dice Walter Ong, a proposito della differenza tra culture: “Dobbiamo ricordare sempre che ogni cultura si mostra in alcuna maniera barbara in rapporto a tutte le altre culture” .
Evidentemente, la risposta risiede nel fatto che il testo tradisce la sua origine, tradisce la differenza, l’estraneità tra la cultura di Mosè e la cultura del popolo ebraico di allora. Non era stato Mosè che aveva chiamato uno dei suoi figli Gerschòm 18, 3 “perché disse: ‘Straniero sono stato in terra sconosciuta’? In una commento al nome dato a uno dei suoi figli, Gerschòm, appunto, De Luca scrive: 
“È Mosè a dargli il nome. Lo si legge con evidenza in ebraico che ha nella seconda e terza persona dei verbi una forma per il maschile e una per il femminile ... Ghershòm: ‘gher’ è straniero. Le altre due lettere, shin e mem, compongono sia l’avverbio di luogo là, sia la parola nome. Sono due delle tre consonanti di Mosè. I nomi che i genitori Ebrei mettevano ai figli non provenivano da un calendario, né da un uso precedente: erano spesso coniati per l’occasione, per contenere in una sigla un riassunto di eventi”.
Possiamo considerare questo episodio, inserito nel sintetico capitolo della nascita, della creazione e dei fatti fondamentali della vita di Mosè, come una presenza metonimica: Gershòm è straniero e viene ciconciso in ritardo. Gershòm al posto di Mosè: una metonimia del testo, una mera sostituzione di persona.
Mosè e l’introduzione della scrittura

Mosè si sostituisce al Dio di Abramo e, ripetendone la simbologia, diviene il Dio del popolo ebraico in lotta contro la schiavitù e Aronne sarà il suo profeta e traduttore, l’interprete designato. Se Dio aveva creato il mondo, Mosè lo ricreerà, tramite il segno, la parola scritta. Fin’ora, il brano 4,17 (i segni (prodigiosi) è stato interpretato nel senso dei prodigi, dei miracoli che Mosè compirà per convincere il faraone. Ma non è l’introduzione della scrittura l’invenzione più prodigiosa di Mosè? Non è lui l’intermediario di un Dio che si mostra (ma non appare) che si ascolta, ma non si comprende e non si vede. Un Dio che viene reso eterno dal suo Decalologo, un Dio del testo. Harold Bloom ha sollevato questa ipotesi in forma allusivamente eretica: 
“Dapprima i cabbalisti osarono identificare le sefirot con l’effettiva sostanza di Dio, e lo Zohar arriva a dire di Dio e delle sefirot che “Lui è Loro, e Loro sono Lui”, il che genera la formula piuttosto pericolosa che Dio e il linguaggio sono una e la medesima cosa” (p. 28).  “la Kabbalà cerca di ristabilire il significato originario inteso da Dio quando diede la Torah a Mosè. Ma la Kabbalà tratta la Torah come un alfabeto, come il linguaggio stesso... L’atto originario consiste nel fatto che Dio insegnò; l’insegnamento  originario consiste nella scrittura...” .
Jack Goody (op. cit.) ha difeso l’ipotesi dal punto di vista storiografico: la diffusione delle religioni universalistiche (islam, cristianesimo e ebraismo) sarebbe legata in forma inscindibile al loro carattere scritto e, in particolare, alla scrittura alfabetica che dava loro la possibilità di essere, allo stesso tempo, religioni universalistiche e nazionali (p. 14-5). “Una delle componenti dell’universalismo, ed in particolar dell’universalismo etico, caratterizza.... tutte le principali religioni universalistiche ed è direttamente connesso all’impiego che esse fanno della scrittura”(23-4). Le religioni scritte, infatti, sostiene Goody, vengono “in un certo senso dall’esterno, sotto l’effetto del processo di conversione e propagazione, le sue norme sono applicate necessariamente a più di un gruppo o a più d’una società” (corsivo mio, p. 24). Un’altra delle caratteristiche interessanti della scrittura è che “Una volta che le è data una espressione scritta, anche la dissidenza stabilisce la sua tradizione”(ib. 42). Pur trattandosi di una semplice ipotesi, un Mosè egiziano, colto dunque e, probabilmente, al corrente delle varie tradizioni scritte della casta sacerdotale egiziana, ha potuto usare, di fronte a un popolo che già conosceva la scrittura (ma al quale la stessa non doveva essere troppo familiare), le sue conoscenze, la sua formazione, il suo carisma, per dare loro la sensazione della fondazione di una nuova tradizione. 
L’Esodo/Nomi non fa che riprendere il concetto di alleanza, fra la tribù di Abramo e Iahwe, in nome di un futuro migliore. La rivelazione mosaica, apparentemente non diversa da quella di Abramo, viene però testimoniata da tutto il popolo (19 e 20), poiché il Decalogo viene effettivament visto da tutti e interpretato come dettato da Dio e scritto da Mosè (o scritto da Dio, il cui testo viene consegnato a Mosè). Del resto c’era una stretta connessione, all’epoca, fra conoscenza di una scrittura tecnicamente avanzata (risultato della tradizione egiziana) e capacità di impressionare larghe multitudini. 19,9:  E disse Iod a Mosè: “Ecco Io vengo a te nel folto di nuvola affinché ubbidisca il popolo al mio parlare con te e così in te crederanno sempre”. 19,19: “E fu la voce di shofàr che va rafforzandosi molto. Mosè parlerà ed Elohìm gli risponderà in voce”. Tutto ciò di cui solo Mosè è testimonio, il popolo lo apprende da lui direttamente o tramite il suo traduttore Aronne. Come ausilio (d’autorità o di memoria) Mosè userà la scrittura: 24,3 “Tutte le parole che ha detto Iod faremo...” 24, 4: “E scrisse Mosè tutte le parole di Iod”. La tradizione scritta introdotta da Mosè a testimonianza dell’alleanza cambia completamente la natura delle tribù ebraiche, che solo ora divengono popolo, stabiliscono una tradizione nuova (che reinterpreta l’antica), partono alla conquista di una nuova terra. Non è possibile non pensare a una profonda rottura della tradizione ebraica, avvenuta a questo punto, e che giustifica lo stesso mito attorno alla figura di Mosè (ebreo o egiziano che fosse). La scrittura, evidentemente già nota agli stessi ebrei all’epoca di Mosè, acquista ora una simbologia, differente da quella che aveva nella tradizione ebraica prima di lui: equivale da quel momento alle manifestazioni di Dio, è espressione di Dio, è Dio. Del resto, come avrebbe potuto una tradizione basata solo sull’insieme di miti e leggende relative al Paradiso originario, alle promesse in sogno di un Dio e ai sacrifici animali (una religione come tante altre) imporsi a una delle più forti tradizioni antiche, cioè quella greco-romana? L’insieme di insegnamenti legati alla persona di Mosè, l’introduzione del Decalogo e della scrittura, come premessa teorica alla liberazione dall’Egitto, ne fanno un insieme autonomo, di forza completamente indipendente dal resto del testo biblico. 
È possibile concludere, anche se provvisoriamente, che il mito di un Dio mosaico diviene universale esattamente grazie al legame inscindibile a) con la scrittura alfabetica (cioè con il massimo grado di universalizzazione e decontestualizzazione che è stato possibile all’umanità a partire dalla rivoluzione neolitica) e b) con la liberazione dalla schiavitù in                                                                                     Egitto che conferisce alla Rivelazione un suo carattere ottimista e positivo. Il Dio di Mosè, pur essendo fortemente enigmatico, a cominciare dal suo nome, pur non potendo essere raffigurato, pur essendo infinitamente  poderoso ed eterno, è un Dio i cui effetti pratici si vedono e si sentono, cioè in grado di realizzare una trasformazione della realtà. Un tale Dio, infinitamente più complesso di tutti gli altri, anche perché difficilmente influenzabile tramite sacrifici e che, tendenzialmente, vigila su un’intera esistenza, è un Dio leggibile e, nonostante l’apparente divieto (un paradosso), pronunciabile (ma non invano). Un Dio del testo o un testo che equivale a Dio. Il Dio-testo si mostra (nei suoi legami intertestuali) infinito, e,  completamente decontestualizzato, eterno. Si tratta di un Dio vero intermediario della lettura dell’universo, per cui è infinitamente potente. Un tale Dio, paradossalmente, è possibile interpretarlo molto meglio, mostrarlo nella sua natura essenzialmente segnica in maniera molto più universale, chiara, democratica.
Si potrebbe dire, in questo senso, che il riconoscimento di un Mosè egiziano, balbuziente e barbaro, rappresenta la vera scena primitiva della teoria del linguaggio e della traduzione, dopo l’introduzione della scrittura alfabetica. I miti di Babele, quello del Paradiso perduto precedono la revisione mosaica, alla luce della scrittura. Dovranno quindi essere riletti e mostreranno, probabilmente, forti analogie (e nostalgie) rispetto al mito dell’armonia di cui parla Agamben a proposito del mondo greco. Mosè egiziano, barbaro e balbuziente, ci ricorda un momento di rottura nella nostra tradizione (o forse il momento dell’istaurazione della tradizione tramite una rottura) che privilegia il conflitto, il contrasto, l’agonismo, il dislivello. Si tratta di un rumore di fondo, forse analogo a quello del Big Bang. Ricordo di una catatrofe, per evitarne altre.

Uma língua de deus ou um deus da língua

Publico aqui o Texto Um Deus da língua ou a língua de Deus relativo à problematica das duas tradições: a tradição judaica e a tradição greco-crostã, que se entrecruzam denrto da tradição ocidental. Com diferentes mitos da origem da escrita (Platão/ Fedro e Moisés a cena do Monte Sinai) elas simbolizam uma atitude diferente (e oposta) em relação ao peso da escrita e, portanto, da transformação.
Os outros artigos publicados nesse Blogue (e que apareceram emvárias línguas) são:
Una traduzione agonistica. A proposito della traduzione del nome di Dio http://eticadaleitura.blogspot.com/2010/06/una-traduzione-agonistica-proposito.html
Mosé barbaro e balbuziente http://eticadaleitura.blogspot.com/2011/10/mose-balbuziente-e-barbaro.html
Onde está nosso irmão Abel

Andrea lombardi.andrea@gmail.com

Uma língua de deus ou um deus da língua 
Andrea Lombardi



Resgatar na sua própria língua
 essa linguagem  pura 
exilada na língua estrangeira 

Jacques Derrida
Torres de Babel
     
Escrito como contribuição ao simpósio Escrita de Babel (Abralic/ 2008), esse texto foi idealizado com um título “O exílio da língua ou a língua do exílio”, mas acabou, no caminho, tendo que se concentrar sobre uma única questão, que está resumida no título novo. Seu tema inicial era a análise e o questionamento de alguns conceitos utilizados no texto As Torres de Babel, por J. Derrida. Por se tratar de um problema muito complexo, gostaria de proceder, focalizando a atenção unicamente sobre o conceito de deus e seu nome (o nome de deus), para exemplificar um problema preliminar ligado ao tema da leitura e da hermenêutica, um procedimento que se liga a um tema que gostaria de definir como a ética da leitura. O que chama atenção é que, na narrativa bíblica de Babel e no texto de Derrida, “deus”, “confusão” e “Babel” estão vinculados um ao outro, como aparece nessa citação: 

“E o nome próprio de Deus já se divide o bastante na língua, para significar também, confusamente, ´confusão.´” “Babel é ao mesmo tempo nome próprio e nome comum, Confusão torna-se também nome próprio e nome comum” 

     Não é aqui o caso de contestar o mito, dentro de nossa tradição, que vincula efetivamente  o nome de Babel à confusão das línguas e que gerou inúmeros textos e comentários, tornando essa narrativa um paradigma para a teoria da tradução contemporânea. São inúmeros os textos que exploraram a ambigüidade gerada pela relação entre “deus”  e “confusão” . A questão levantada aqui, portanto, tem a ver com um problema preliminar, relativo à leitura dentro da própria tradição desconstrucionista, que aqui quero defender como percurso a ser seguido e não como um método esquemático. De resto, é o próprio Derrida que afirma que a desconstrução deve sempre ser considerada um caminho aberto: 

 “A desconstrução não é um método e não pode ser transformada em método... não é uma regressão em direção ao elemento simples, em direção a uma origem indecomponível. Estes valores, tais como os de análise, são eles mesmos filosofemas submetidos à desconstrução” 
     
     Não sendo um método, a desconstrução não pode ser apreendida dentro de uma definição única e absoluta; trata-se mais uma declaração de princípio, como afirma sempre Derrida: “O que a desconstrução não é? Mas tudo! O que é a desconstrução? Nada!” (op. cit., p. 105), que pela ênfase adquire um tom quase dadaísta. 
    O problema torna-se relevante teoricamente, pois aqui se está falando de uma interpretação do conceito e do nome de Babel, a partir de duas línguas e duas culturas diferentes: a cultura mesopotâmica, baseada na língua acadiana, e a cultura judaica ou a língua hebraica, como se poderá-se comprovar depois. O problema é o estatuto do conceito de “original” no texto (em contraposição a sua tradução) e se pode ser utilizada a categoria “originário”, “fundante”, “arquetípico”, a propósito de um texto, de um conceito (ou de um nome), levando em conta a crítica radical que Derrida na Gramatologia dirigiu contra o essencialismo platônico. Ou seja: há uma ambigüidade entre Babel como nome (a torre de Babel, a cidade Babylônia) e Babel, em sua  dupla tradução como “confusão” ou “nome de deus”. No início de seu texto, Derrida afirma: “[Babel] seria o mito da origem do mito, a metáfora da metáfora, a narrativa da narrativa, a tradução da tradução” (op. cit., p. 11) e, logo depois, citando Voltaire:
     
“Babel não quer dizer apenas confusão no duplo sentido dessa palavra, mas também o nome do pai, mais precisamente, o nome de deus como nome do pai. A cidade carregaria o nome de deus o pai e do pai da cidade que se chama confusão” (op. cit., p. 13-4)
     
      A objeção em relação à formulação utilizada por Derrida (e outros autores) é que cada palavra, cada nome, cada frase e cada conceito têm sua marca de “origem”, portanto podemos pensar, no lugar de uma maneira “essencialista” de definir uma origem única, uma forma múltipla de origem, embora sempre “histórica” e documentável (ou deduzível): pois, na história da escrita, há, sim, algo de “original” ou “originário”, com o “uso” específico de uma palavra, seja como neologismo – com o uso de uma palavra ou um conceito em sua leitura posterior, seja sua reinterpretação  como metáfora (ou qualquer figura) da linguagem. 
De resto, Derrida reconhece, com Benjamin, que a questão da origem é algo que deve ser perseguido: 

“Dito isso, afastando a origem histórica ou natural, Benjamin não exclui, em qualquer outro sentido, a consideração da origem em geral... ‘O conceito de origem (Abstammungsbegriff) permanece indispensável’. Onde procurar então essa afinidade originária?” (DERRIDA, op. cit.,  p. 65)

Em outro sentido, podemos aqui admitir que a procura da origem ainda tem um efeito produtivo. Uma palavra (um nome, uma narrativa etc.) pode tornar-se uma chave de leitura do texto, manifestar, em relação ao texto, uma marca particular, que pode constituir-se numa das múltiplas marcas de origem. Para dar um exemplo: o nome de deus, o de Babel, o conceito de confusão podem, sim, estar ligados ao mesmo texto, mas em épocas diferentes, que, modificadas pelos próprios conceitos utilizados, ou um deles, deverão ser lidos de forma diferente. Há uma evidente imprecisão ou ambigüidade no que se refere à palavra (ou ao nome) Babel. Pois Babel pode significar “porta de Deus” segundo uma etimologia e, por outro lado, “confusão”, segundo outra tradição, o que contradiz a opinião de Derrida, segundo quem: “O nome próprio de Deus já se divide o bastante na língua, para significar também, confusamente ‘confusão’”  . Ao contrário do que aparece nessa citação de Derrida, devemos pensar numa leitura dúplice, a partir da língua hebraica (“confusão”) ou, a partir do acadiano cuneiforme (“porta ou portal de deus”). The Oxford Companion to the Bible,  afirma a este propósito:  

Babel is the Hebrew word for *Babylon, which the Babylonians themselves explained as meaning “gate of God”. This etymology is probably not original, but the meaning is significant for a famous city whose central temple tower was said to reach the heavens (Gen. 11.4) . In Genesis 11.9, the meaning of Babel is explained buy the Hebrew verb balal, ‘to confuse, mix’, and the confusion of speech.“

No verbete imediatamente posterior, Babylon, há uma versão mais complexa: 
“Cuneiform sources interpret its name [Babylon] as bab-ilim,‘gate of the deity’ The Bible rejected this popular etimology in favour of a more scurrilous [sic] one that linked the name to the confusion of tongues”... , and so the city is called Babel. [itálico meu]. ..

No verbete  “Ziggurat” o mesmo texto remete à construção de edifícios altos, com tijolos de argila queimados ao sol, uma novidade para o segundo milênio (data de origem do mito mesopotâmico) e, certamente, refere-se à construção do ziggurat, ou seja a uma palavra acadiana . 

The Akkadian word ziqqurratu (cfr. zaqru, “high”) refers to the sacred stepped tower built of sun-baked bricks that was part of the tempe complex in many Mesopotamian cities. .. The earliest ziggurats were constructed during the reign of Ur-Nammu (ca. 2100 BCE). Their design transformed the older architectural tradition of temples set on plataforms, and may have been influenced by the Egyptian pyramids...It is likely that the fabled *tower of Babel of Gênesis 11 is a reminiscence of this ziggurat [the seven-staged ziggurat, was probably built during the First Dinasty of Babylon (ca 1900-1600 BCE)], retrojected to the dawn of human history.
A etimologia hebraica, portanto, leva a conclusões diametralmente opostas às das fontes cuneiformes, afora o deslize do Oxford Companion, quando afirma que “a Bíblia rejeitou essa etimologia popular” (desde quando as “fontes cuneiformes” equivalem a fontes “populares”?). Trata-se de uma visão diametralmente oposta, em que uma tradição (a hebraica) visivelmente tenta denegrir e rebaixar a outra (definindo “confusão” aquilo que para outra cultura é “deus” ou “porta de deus”), inclusive seus templos temerários (a tradição dos ziggurats). A leitura a partir da língua hebraica está em oposição a uma cultura diferente, a uma religião diferente e, portante, a uma concepção diferente de deus, com diferentes tradições arquitetônicas dos templos etc. Sem citar o fato de que, nas duas tradições – a hebraica e a mesopotâmica ou acadiana – o nome de deus devia ser, evidentemente, muito diferente, correspondendo, portanto, a um deus muito diferente. Assim como a palavra ou o nome próprio Babel, o conceito ou o nome de deus, deve ser explicitado em sua própria tradição, na tradição de uma ou de outra língua, portanto, da língua original, e não fazendo uma confusão entre língua original e tradução: o deus evocado é o da tradição mesopotâmica?  É o da tradição hebraica?  É o da tradição cristã – neste caso é o deus de origem platônica?  Em se tratando do deus da tradição judaica, dever-se-á especificar se o nome visado é o de Elohim, ou o de Jahve, ou um dos 6.200 nomes que aparecem no texto bíblico. Deus, em suas ligações etimológicas (DEVOTO, verbete Dio , p. 128 ), indica a raiz indo-européia deiwo- (luz) e o grego  theós (espírito), o alemão Gott (o espírito evocado), o russo bog  (distribuidor de destino). Na língua hebraica (ou no aramaico), línguas em que o Pentateuco inicialmente foi redigido (ou seja, antes da tradução dos Setenta ), há um grande número de nomes para deus, o que  justificou, na leitura bíblica, a definição dos quatro conjuntos de sub-textos, que formam o Pentateuco, anteriormente citados, ou seja, J de Jehová (ou Jahve) e E  de Elohim, D de Deuteronomista e P de redator  sacerdotal (Priesterschrift,  em alemão) .
Em se tratando de um nome (conforme Benjamin, os nomes vêm de deus ou partilham algo com deus) e tratando-se de um nome que tem um efeito grandioso, pois marca uma origem nos textos (uma origem no contexto dos textos), ele próprio indica uma marca de origem: quando um ou outro nome é mencionado pela primeira vez (no texto do redator J de Jehová ou do redator E de Elohim), ele indica um início (que seja o início do texto da camada do respectivo redator para os especialistas cotemporâneos, ou o início do texto de um deus x ou y: de qualquer forma, isto se torna o  marco do início, da origem, de um texto ou da narrativa). O texto, portanto, muda, e o protagonista absoluto não é mais o deus x, mas passa a ser o deus y, pois a mudança de nome, necessariamente leva a uma mudança do referente, que a esse nome está ligado. O mesmo deve valer para o conjunto do campo semântico das expressões ligadas ao nome (ou aos nomes) de deus: a língua sagrada, a questão do que é divino, da origem (ou das origens), a problemática daquilo que é original etc., pois a proximidade em relação a um conceito que definimos a “metáfora das metáforas” provoca um respingar da autoridade e da força da definição (do nome de deus) para os outros conceitos do mesmo campo semântico. O que é divino tornar-se-á o que é divino segundo o deus x ou y, e a mesma coisa valerá para a origem, pois será a origem segundo o deus x e y, ou a origem de onde o deus x ou y é nomeado, ou a origem em geral. 
O nome de deus, portanto, assim como Kafka e kafkiano, no entender de Borges em “Kafka e seus precursores”, subverte a historiografia literária e sua hierarquia. De resto, é o próprio Derrida que abre para uma desconstrução da desconstrução, para que seja considerado um caminho, sem dogmas, conforme já anteriormente assinalado: “A desconstrução não é um método...” O texto bíblico, a narrativa relativa a Babel, o nome de deus, a “metáfora da metáfora” e outros nomes ou conceitos a que estes estão ligados (o conceito de deus, se é que pode ser pensado separadamente do seu nome, a língua divina, o sagrado) são elementos evocados pelos dois textos de Walter Benjamin que Derrida cita: "Sobre a Língua em Geral e a Língua dos Homens” e “A Tarefa do Tradutor . Não há espaço para entrar no mérito das questões levantadas por Benjamin, mas uma observação de Gerschom Scholem a esse propósito serve perfeitamente para contextualizar o estilo de Benjamin . Scholem afirma que Walter Benjamin “foi por muito tempo um puro místico da linguagem”, e os elementos da tradição mística são, entre outros, os que tornam seus textos mais enigmáticos, que não exulam dessa análise, mas a tornariam complexa demais.
     Derrida cita a narrativa relativa a Babel em tradução de André Chouraqui (aqui citada em sua tradução em português!)  que, em seu prefácio “Ler a Bíblia Hoje”, afirma: 
     
 “Oferece-se, deste modo, uma leitura não fragmentada do Livro dos livros. Não confissional, ela estabelece uma ponte entre religiões e confissões aproximadas pelas realidades essenciais de Deus, de sua lei de amor e de justiça, na esperança de vê-las reunirem-se um dia para a realização de seu objetivo comum, o de salvar o mundo” (CHOURAQUI: 1995, p. 10)
     
     É legítimo e produtivo pensar numa tradução (a de Chouraqui) que, querendo recusar explicitamente uma ideologia prévia (um pré-texto, um pré-conceito), optando por uma leitura “não confessional”, assume em seguida uma outra ideologia (“superior”? mais “neutra”?), que é apresentada como portavoz de uma verdadeira missão: a de estabelecer “pontes”, ou afirmar as “realidades essenciais de Deus”, suas “leis”, querer “salvar o mundo”? Em sua tradução, Haroldo de Campos, mais interessado em deixar aflorar o lado poético do texto bíblico, chega a uma determinação parecida (dialogando com a tradução de Chouraqui), quando confunde o nome de Deus (o Tetragrama) com o conceito de nome, em geral, embora use a maiúscula e a minúscula . De que nome está falando aqui o texto, quando o nome, no primeiro parágrafo (“façamos para nós § um nome §§§”) designa a fama, notoriedade, glória, enquanto o nome que aparece no próximo parágrafo (“E baixou Ele-O Nome”) designa o Tetragrama (portanto Iahwe). Superpor o “nome” ao “O Nome” (com N maiúscula), não será origem de uma (nova) confusão? 
Talvez uma solução dessa problemática possa estar na identificação da língua em que foi escrito “o original” a ser traduzido. Teremos que perguntar se há uma ou mais versões desse “texto original”? Há variantes do mesmo “autor”. É legítima, também, a pergunta sobre a natureza desse “autor” e outros elementos interessantes sobre o “redator” ou o “narrador” e a natureza literária, religiosa, filosófica da composição do texto bíblico (embora a determinação da natureza do texto não impeça sua análise segundo outra ótica), a data de sua primeira publicação ou edição e outros elementos interessantes? 
     Essas perguntas, como é intuitivo, que seriam corriqueiras na tradução de um texto contemporâneo, no caso da narrativa de Babel, adquirem outras conotações, em se tratando do Pentateuco: um texto que, por sua vez é muito complexo, que carrega uma sua própria tradição de leitura, que, ao mesmo tempo, influencia não unicamente sua interpretação (trata-se de um texto em que o conceito de cânone e de origem, como foi dito, adquire conotações particularmente “fundantes” e marcantes), mas tem efeitos sobre o próprio ato de leitura em geral, pois, como foi dito, a definição do nome de deus terá, necessariamente, um efeito – evidentemente! –  sobre o próprio conceito de deus e, posto que este nome-conceito tem algo a ver com a questão da origem, terá uma influência decisiva sobre a definição da questão de uma origem (única ou múltipla), do texto (portanto do texto original) e, assim, retroagindo, será fundamental para a definição do nome de deus que nesse texto aparece, todos problemas que podem ser lidos como problemas de interpretação eminentemente textual. Pois o nome-conceito a ser evocado (o nome que define o deus que, por sua vez, define os outros conceitos ou os influencia, que é certamente um protagonista do texto bíblico, enquanto texto literário) não pode ser citado no texto (no original e em sua tradução) sem relacioná-lo com a questão da origem.  
    Preliminarmente, portanto, é indispensável estabelecer se o texto bíblico pode, ou não, ser lido como um texto homogêneo. E a este propósito, há duas versões radicalmente diferentes e contraditórias, a serem examinadas. A primeira afirma que o Pentateuco, embora composto de várias camadas redacionais, deverá ser lido como um “único texto”, tese essa defenida em O Guia Literário da Bíblia, por Alter e Kermode : 

”Os estudiosos há muito tempo concluíram que o conto é uma montagem de três ´documentos´ separados, convencionalmente designados E, J e P... de acordo com um consenso periodicamente contestado, os dois primeiros teriam se originado nos dois primeiros séculos da monarquia davídica, provavelmente empregando tradições folclóricas mais antigas, e todos os três foram então recortados e colados para formar um único texto por redatores sacerdotais anônimos algum tempo depois da destruição da Primeira Nação, provavelmente no século VI ou V a.C.” (e acrescenta): “Os estudiosos bíblicos modernos são um produto da era-pós-Gutenberg, o que talvez explique por que estão predispostos a conceber a autoria em termos um tanto estreitos e exclusivos” 
     
     Analogamente, um comentário à tradução de Haroldo de Campos da narrativa babélica reconhece a fragmentação do texto bíblico, identificada pela crítica bíblica, mas reafirma uma unidade de leitura, pela coesão do texto:

Com respeito à crítica bíblica, conviriam alguns esclarecimentos. O estudo moderno do texto bíblico – desde o século XVIII, no mínimo – saiu da esfera religiosa para construir a história de sua formação. Grande parte da crítica examinou a Bíblia como documento composto, buscando identificar as partes heterogêneas que foram amalgamadas num conjunto. Entre os estudos diacrônicos, a hipótese documental é a mais conhecida. A Bíblia resultaria da junção de vários documentos escritos (os mais antigos remontam ao século X a.C.), que seriam pelo menos quatro – o javista (J), o elohista (E), o deuteronomista (D) e o sacerdotal (P) –, compostos em diversos momentos e lugares do antigo Israel, com marcas específicas no estilo, concepções teológicas e mesmo intencionalidades particulares. Tal corrente nos estudos bíblicos renovou-se com informações de campos como a arqueologia, procurando refazer o contexto de produção desses textos em termos históricos, sociais, antropológicos. 
Ao operar com o fracionamento do texto em partes, essa crítica bíblica veio ignorando os padrões retóricos e poéticos que o mantêm coeso. Isso freou, de certa maneira, o desenvolvimento da análise literária da Bíblia, já que para estudá-la como literatura é preciso supor a unidade textual. Sem negar sua origem múltipla, a Bíblia hebraica resulta de enorme trabalho editorial realizado em torno do século VI a.C., reunindo e alinhavando o material disponível à época, que aí toma determinado formato de composição 

Nessa interpretação, a análise literária presupõe uma unidade do texto bíblico, o que não é necessariamente um critério produtivo. Para os estudiosos bíblicos, anteriores a essa leitura, e, principalmente, para Georg von Rad , autor de um estudo internacionalmente reconhecido sobre o tema (Teologia do Antigo Testamento), as camadas do texto diferentes devem sempre ser consideradas separadamente, por elas terem um efeito completamente diferente em sua interpretação, a partir de contextos diferentes de sua origem e de sua leitura.    
     É significativo, que Alter e Kermode e, de certa maneira, Daisy Wajnberg (e inúmeros outros leitores), embora negando (com argumentos diferentes) a necessidade de uma separação na leitura das camadas diferentes do texto bíblico, admitam, mesmo assim, que: 1. O texto bíblico é reconhecidamente resultado de uma “colagem” (Alter e Kermode afirmam que o texto é fruto de três “documentos separados”, enquanto Daisy Wainbereg confirma quatro camadas, como defendido pela tradição dos estudos bíblicos). 2. Que há elementos de uma tradição “folclórica mais antiga”, que teriam sido incorporados na narrativa bíblica. 3. Que há uma indicação cronológica provável, da época de sua redação: VI ou V séc. a C. 4. E, finalmente, Alter e Kermode afirmam que nossa leitura seria influenciada pela “era pós-Gutenberg”, uma forma de criticar as escolas de leitura estruturalista ou pós-estruturalista, pois elas colocariam em discussão a “autoria” e, portanto, a “unicidade” do texto.
     Em A câmara clara, Barthes afirma sua procura por  uma "[...] ciência nova por objeto [...]. Uma Mathesis singularis (e não mais universalis)", ou seja um percurso teórico que seja fruto do texto examinado e não um pré-texto, “aplicado” à leitura desse ou daquele texto.  Devemos concordar, pois, na leitura, não há um método determinado, assim como (aparentemente) há nas ciências “exatas”. O caminho (que corresponde etimologicamente ao método, na língua grega) se contamina com o objeto, ele surge do objeto, ele é a cada vez repensado e reestruturado, em conjunto com a pesquisa que o objeto vai produzindo e, com isso, modifica o próprio objeto enquanto surge um texto interpretativo. “Pois um método que não se consegue ajustar à ´verdade´ do seu objecto só pode ensinar o engano”, diz Paul de Man .
A unicidade e homogeneidade do texto bíblico e, particularmente, do Pentatêuco foi colocada em discussão pela tradição de leitura especialística, assim como os dois autores reconhecem (bricolage do texto). Para Gerhard von Rad, as camadas diferentes do texto bíblico devem sempre ser consideradas separadamente, por elas terem um efeito completamente diferente em sua interpretação. Veja-se, por ex., o que esse autor afirma, sobre a questão – aqui considerada decisiva – da revelação do nome divino, ou seja, o versículo 14 de Êxodo 3 : 

Sobre as ligações religiosas e de culto dos antepassados pré-mosaicos de Israel, do ponto de vista do historiador das religiões, pode ser dito o seguinte: que não se tratava de adoradores de Jahwe, que a revelação de Jahwe entrou em sua vida somente num momento determinado. Disso há recordações determinadas em Êx 3 e Êx 6. Essa ruptura [“Bruch”] na história da revelação é justificada pelo Elohista e pela redação sacerdotal [“Priesterschrift”], nomeando o Deus dos Pais Elohim, enquanto o nome de Jahwe é utilizado somente a partir da autorevelação de Jahwe, ou seja a partir de Êx. 3  ou Êx 6.” 
     
Para von Rad, portanto, há uma ruptura entre as concepções e tradições dentro da própria herança cultural e religiosa judaica, que se manifesta pelo nome diferente dado a deus, ou seja: afirma-se assim que a própria tradição judaica não é única e não é unívoca: a continuidade e a linearidade – podemos acrescentar – devem ser fruto de uma releitura religiosa (ou filosófica), mas não textual, não literária. O autor nega que os antepassados (as tribos judaicas anteriores a Moisés) fossem seguidores de Jahwe, o que nos leva a presumir que fossem seguidores de uma divinidade com outro nome. Em se tratando de outro nome, esse deus devia pertencer, portanto, a outra tradição. Dessa forma, a tradição judaica deverá ser considerada uma tradição múltipla, uma tradição sujeita a transformações, por meio de mudanças nas tradições culturais, que posteriormente foram relidas, para torná-las homogêneas (ou, mesmo não sendo homogêneas, foram relidas, passando por cima de sua heterogeneidade). É lógico pensar que essa mudança deve ter sido efeito (ou sintoma) da mudança no nome de deus. Dito de outra forma: a mudança do nome de deus testemunha uma mudança na tradição cultural e religiosa judaica, assim como o Pantheon grego pode ser considerado a memória de uma série de transformações na cultura grega, em suas várias fases. A afirmação mais radical da alteridade dessas camadas do texto bíblico veio da publicação do Livro de J, uma tradução de David Rosenberg, com um prefácio de Harold Bloom, com fortes intenções irônicas. Contestado por Robert Alter, na época, que criticava a falta de competência de Bloom e do tradutor em relação à língua hebraica, ficou em segundo plano o efeito  que, do meu ponto de vista, é central: que uma tradução autônoma do texto javista, ou seja, do redator J (um dos quatro redatores do texto bíblico, junto com o E, o D e o P) é possível. Isso traz, sem dúvida, elementos novos e produtivos para a releitura do texto bíblico, separado finalmente de sua vocação missionária e essencialista, a que estava condenado, por uma leitura religiosa e teológica, hoje totalmente injustificada em sua reveindicação de linearidade e homogeneidade, a ter uma “missão”, antes de sua fruição literária. A leitura homogênea é, nesse sentido, um produto ideológico, um pré-texto da leitura religiosa (dentro da tradição judaica-rabínica, assim como da tradição cristã, posterior ou contemporânea). Para um leitor leigo e para um leitor de literatura, a “unificação” a posteriori do texto bíblico, de que falam Alter e Kermode e que von Rad e Bloom negam veementemente, corresponde a uma intenção de continuidade que nada tem a ver com o texto em sua historicidade e “materialidade” e que pode distorcer sua compreensão, ou pode impedir que outros sentidos possíveis sejam liberados da tradição conservadora e canônica. Ler um texto em sua suposta “unicidade”, de forma tautológica, promove o conceito de linearidade da tradição a algo que é fruto somente de um “pré-texto”. 
Negar essa continuidade, num primeiro momento, não significa negar a validade teológica da leitura que foi proposta, nem a possibilidade de uma leitura poética do conjunto de textos bíblicos, a partir da recepção do texto nos séculos, mas tem a intenção de defender uma leitura criativa e predominantemente literária do Pentateuco, algo que libera uma força própria, que pode ter evidentes efeitos interessantes na própria teoria literária, no conceito de deus, na compreensão de seu nome (ou um dos seus nomes) e no conjunto de elementos do campo semântico a eles ligados.
Tratando-se de uma leitura pós-estruturalista e pós-psicanalitica, parece-me que a desconstrução deve unir à vocação desintegradora uma escolha ética e autobiográfica deliberada. Dito de outra forma: uma escolha ética, por ser autobiográfica, é índice de uma responsabilidade pessoal. Neste sentido, parece que há, na obra e na autobiografia de Derrida, uma dupla limitação (que teve certamente um efeito produtivo, mas que não deixa de ser sintoma de um problema): as limitações do monolingüismo do outro , o texto em que ele afirma a limitação de ter uma língua única, junto ao sentir-se privado de sua própria língua, por ela ser outra, por ser ele argelino de origem judaica. De forma diferente mas análoga em sua Gramatologia , a origem da escrita é indagada somente em sua vertente grega (particularmente, no Fedro de Platão), e não na tradição judaica, de grande importância dentro da tradição pessoal de Derrida e da tradição ocidental, pelo peso da Bíblia e de seu núcleo que é o Pentateuco em geral e nesse texto aqui examinado. Pois, como negar que a tradição da escrita esteja ligada à tradição judaica e, particularmente, à revelação do deus de Moisés, que se expressa por meio de signos e palavras, que serão traduzidas ao povo inteiro, no Monte Sinai? Afinal, é intuitivo pensar na ligação entre o novo deus e a escrita, algo confirmado por Jack Goody . Segundo esse autor, há uma relação próxima entre a “descoberta” do monoteísmo e a introdução da escrita e, particularmente, a introdução da escrita alfabética: 

“O fato que a palavra seja escrita ... explica a difusão característica das religiões chamadas religiões universais (Islam, Cristianismo, JudaÍsmo) (p. 14). “Um dos elementos do universalismo, e particularmente do universalismo ético, caracteriza ... todas as principais religiões universalistas e está diretamente ligado à utilização que elas fazem da escrita”(23-4). Outra característica interessante da escrita é que “Uma vez que lhe foi dada uma expressão escrita, até a dissidência estabeçlece sua tradição” (ib., p. 42) 
Como afirma Scholem a propósito da cabala, portanto, não há somente uma tradição a ser considerada (a grega), mas duas tradições: a tradição platônica e aquela judaica (ou judaico-gnóstica), que se encontram na tradição cabalista, assim como na tradição ocidental como um todo: 
“nous avons affaire à une tradition judéo-gnostique originelle d´une texture religieuse intégrale, denuée de considérations vraiment philosophiques, qui recontre le neo-platonisme, s´en impregne et se défend contre lui; la kabbale n´est guère pensable sans cette vive opposition entre ces deux traditions.” 

Deus, pode-se concluir portanto, não está nada tão morto. Ou, de outra forma, vale a pergunta: “Que deus é este que, mesmo morto, é objeto de um longo raciocínio”, entre outros, no texto de Derrida examinado (que, evidentemente, herda conceitos e nomes usados por Benjamin nos dois textos citados)? Afirmar que “deus não está morto” contradiz Nietzsche (de A Gaia Ciência), embora a frase do filósofo alemão deva ser contextualizada, pois, deus  - para Nietzsche – é a mais antiga das mentiras, ainda em seu tempo repleta de significados (“nossa mais longa mentira”), ou a mentira que resume as outras mentiras, pois ele representa as diferentes “certezas” metafísicas, morais e religiosas que a humanidade elaborou. A “morte de deus”, portanto, vem a representar o fim dessas certezas. E nós estamos tão afetados por essa nova verdade (mas com Nietzsche, podemos afirmar que sua própria frase, não deixa de ser uma interpretação), que vivemos, como Woody Allen, no luto e no efeito dessa morte. Como o diretor de cinema disse: “deus está morto, Marx está morto. E eu também não estou–me sentindo muito bem...!”. Para Nietzsche é o deus da tradição cristã, mutuado do essencialismo platônico, o que morreu. 
Mas, admitir que deus não está morto significa afirmar que o deus do texto, desse texto (que foi aqui examinado) e aquele deus específico, assim como ele se apresenta nessa cena crucial, no Êxodo 3, 14, nos leva a um problema de tradução (um erro, uma distorção, uma problema intercultural, uma releitura de uma perspectiva pretensamente alegórica). Há algumas considerações, anteriormente por mim desenvolvidas, e que sintetizo assim : 
1. O nome de deus que consta no Pentateuco, aparece – apesar da proibição – pronunciado de forma reiterada e quase obsessiva (mais de 6200 vezes). Mas há um único nome, que será pronunciado uma única vez no texto bíblico, no trecho em Êxodo 3, 14. Quando Moisés pergunta à voz que ele ouve no deserto (episódio conhecido como o da sarça ardente), qual é o nome que o chama (que o convidará a liderar as tribos judaicas). A revelação (para Moisés e para nós leitores) do novo nome divino pertence somente à versão E (o redator E de Elohim), mas deve ser considerada de importância decisiva para interpretação do texto inteiro (pois o texto de Êx, 3, 14 está intimamente ligado  ao nome Jahwe, como afirma Scholem  em op. cit., p. 58). Para a moderna teoria da leitura, esse trecho deve ser considerado paradigmático, na medida em que ele aparece também como potencial mise-en-abyme da problemática do nome de deus, do nome em geral (um nome único, diferente, portanto, de forma quantitativa e qualitativa de todos os outros nomes), um nome cuja interpretação reverte sobre o código lingüístico, na medida em que interpretá-lo como único nome “verdadeiro” e “original” propõe uma discussão hoje pertinente, a propósito dos conceitos de “verdade” e de “origem”. 
2. Em hebraico, a resposta do interlocutor de Moisés é: Ehyeh asher Ehyeh, ou seja, uma frase em que há uma repetição e que convém analisar de forma mais atenta, cuja tradução é exatamente o problema... Na tradução dos Setenta, o trecho foi traduzido como : “Eu sou aquele que eu sou”, com algumas variações (“Eu sou aquele que é...”). Na maioria das traduções, foi utilizado o tempo presente: “eu sou”, com a exceção da tradução de Lutero.
3. Em hebraico bíblico, porém, não havia tempos, mas havia somente modos (perfeito-imperfeito). A indicação do tempo foi acrescentada posteriormente, com uma partícula (ex.: “ser aquele que é” hoje, ontem, amanhã). Segundo Walter REHFELD:

“Tais características do tempo gramatical são chamadas ´aspectos. ... No hebraico bíblico esta distinção [entre tempo e aspecto] não é possível... Ao aspecto imperfectivo pertencem o futuro e o presente, e ao aspecto perfectivo o passado...O ´imperfeito´ hebraico tem, portanto, um sentido mais amplo do que o mesmo termo aplicado às flexões das gramáticas grega e latina. O ´perfeito´ hebraico geralmente expressa uma ação encerrada, completa e, portanto, passada, mesmo se ainda se faz sentir no presente e, até, no futuro. O ´imperfeito´, ao contrário, designa o que está começando a acontecer mas ainda não alcançou seu fim, cujo processo perdura no presente e, talvez, estender-se-á até o futuro”  . 

4. Scholem  acrescenta uma consideração interessante: 

“le passage de la Torah (Ex 3, 6-14) qui rapporte la révélation du nom de Dieu JHWH pres du buisson d´épines ... est redige dans um style três emphatique... mas même dans ce passage ... l´aspect magique est visibilement absent.... Le nom dont l´explication est donné à Moïse pres du buisson d´épines n´est même pás désigné comme étant le tétragramme bien que son étymologie ‘je serai qui je serai’ y renvoie” 

O “estilo muito enfático”, de que fala Scholem leva Buber a afirmar que se trata de uma frase “realmente pronunciada”. Scholem nota que o nome é diferente do Tetragrama, embora esse deva ser considerado o novo nome de deus, por ser a resposta à única pergunta sobre seu nome. Mas Scholem indica que a frase citada  “reenvia” ao Tetragrama, algo que tem sua importância dentro da tradição, pois em ambos (no novo nome, em Ex. 3, 14 e no Tetragrama JHWH há uma utilização do verbo haya, ou seja, o verbo “ser”, que no hebraico bíblico aparece sempre em relação a deus .  Traduções realizadas por Scholem, por Rosenzweig-Buber e nos textos retraduzidos diretamente do hebraico ou do aramaico, apontam para uma referência ao imperfeito do verbo haya e apresentam soluções análogas: “ ‘Serei aquilo que Serei’, ou ‘Tornar-me-ei Aquilo que me tornarei’, ou ainda  ‘Tornar-me-ei Aquilo que farei’ . " A tradução de Lutero é a única leitura, dentro da tradição cristã, que use o tempo futuro, embora não constem a este leitor comentários de Lutero em relação à novidade traduzida: um novo nome de deus, a ruptura realizada na tradição e os efeitos dessa ruptura.
É esta  a única vez que o nome de deus é realmente pronunciado ou, nas palavras de Martin Buber: uma frase que soa como frase realmente pronunciada .  Essa cena deve ser considerada a premissa da cena da revelação  no Monte Sinai: pode ser considerada uma revelação psicológica ou psicanalítica (um deus se revela a Moisés, sozinho no deserto, assim como um deus apareceu a Abrahão e faz Moisés refletir sobre sua própria condição e sua missão). É Moisés que relata aqui sua própria conversão, mas essa cena será a premissa necessária da revelação ao povo, que confirmará, por sua vez, a liderança carismática de Moisés. Portanto, essa revelação terá como seu efeito uma ascensão meteórica de Moisés, de estrangeiro a líder carismático. Por outro lado, esse nome – resposta ao pedido e à curiosidade de Moisés – é altamente enigmático e oracular, pois não se trata de um nome verdadeiro e convencional. O nome citado (em se tratando efetivamente de um nome) não é o nome da tradição de Abrahão . Há como concluir que não se trata da mesma tradição (mudando o nome, muda a divinidade, em princípio). Trata-se de um novo deus, proclamado por Moisés, com um novo pacto, novas regras, mas – é isso que importa para nós hoje – uma forma que é nova também. Trata-se de um momento de tradução e que, mais tarde, deverá ser traduzido por Aarão ao povo no Monte Sinai: uma dupla tradução, pelo elemento auditivo da cena e pelos signos, que Aarão decifra e que Moisés conhece, mas que nem o povo nem nós leitores podemos entender, sem um texto que os deixe aflorar e os cristalize (da mesma forma que um sonho só poderá ser analisado, após sua verbalização pelo analisando).
O texto da revelação do novo nome de deus (ou do novo deus de Moisés) está escrito no imperfeito (algo como: “eu estou sendo aquele que está sendo feito”). O imperfeito, literalmente, expressa algo não perfeito, não acabado, não concluído. Por outro lado, a tradução (a partir dos setenta citados): “eu sou aquele que sou”, corresponde, pela lógica, ao perfeito (e leva a pensar, por analogia: “eu sou, eu fui e eu sempre serei”, sempre com a louvável e interessante exceção da tradução de Lutero : “eu serei aquele que será”, 
Nesse momento (o de Êx 3,14) nasce um deus, que é, ao mesmo tempo, um deus de Moisés (o egípcio) e um deus do texto. Pois o nome de deus que é pronunciado (pela única vez em toda a Bíblia, ou é pronunciado dessa forma pela única vez) corresponde a uma concepção da linguagem da tradição judaica, que  liga deus ao texto. Nas palavras de Scholem :

“Nous trouvons ensuite la position centrale du nom divin pris comme l´origine métaphysique de toute langage, et la conception du langage comme décomposition et déploiement de ce nom qui se trouve principalment dans le textes reveles, mais aussi dans tout langage em general” 

Ou seja: a autenticidade da cena da sarça ardente, a rigor, repousa unicamente no efeito performativo do texto e, portanto, dispensa testemunhas. Dito de outra forma, é o efeito do texto que “testemunha aqui pela testemunha”  (que é Moisés), pois se trata de um texto que irá modificar a história: sem a conversão de Moisés e a conversão do povo, a ascensão de Moisés a líder carismático, como foi dito, e os episódios citados não fariam muito sentido. Por meio dessa seqüência de revelações, Moisés assume a liderança (mesmo sendo egípcio) e permite que o povo aceite (e use) o conhecimento desse deus, para realizar uma dupla libertação: da escravidão do Egito e a conquista da terra prometida, ou seja, de uma terra que está fora do alcance e fora do contexto e que somente um deus do futuro, um deus inacabado e do modo imperfeito, pode intermediar. Um deus do texto evidencia algo ainda não acabado, um deus, portanto, que, longe de ser o criador de tudo, é um interlocutor do homem (ou de seu leitor) e que precisa deste para realizar-se de forma mais completa. Algo que o aproxima (e o fato talvez não seja causal) da moderna crítica literária, pela qual – em época pós-nietzscheana – o texto precisa sempre de seu leitor para voltar à sua vida, para ser posto em vida ou para ter sua sobrevida, no sentido benjaminiano, analogamente a uma partitura, que não dá vida a uma música sem o indispensável auxílio de um regente, mas que a cada interpretação alcança efeitos completamente diferentes, admitindo um número de interpretações infinitas (pois infinitos são os regentes possíveis). O texto admite infinitos contextos em que a leitura será realizada, pois infinitas são as modificações da recepção, do timbre, da harmonia e dos outros detalhes que integram o texto como uma partitura.
O conceito  de futuro, numa língua como o hebraico bíblico, em que esse tempo não existia, assim como não existiam os outros dois tempos convencionais, leva a crer que a invenção-revelação-criação do tempo futuro  possa ter passado a existir por meio do conceito de deus, que acaba de ser introduzido . Essa frase (a resposta à pergunta sobre o nome em Êx 3, 14) torna-se, portanto, criadora de um novo nome e de um novo conceito fundante. É esse deus, o deus que Moisés entrevê em sua consciência (seu ouvido, sua percepção) que lhe permitirá vislumbrar o futuro e, portanto, de se propor como profeta de uma liberdade não contextualizada, abstrata mais hipotizável (no pensamento abstrato, por meio do futuro, por meio do nome de deus). É o futuro que permite vislumbrar uma ruptura (“ein Bruch”, uma ruptura, segundo von Rad, anteriormente citado), não como repetição de um passado mítico, mas como algo totalmente e completamente novo, algo que somente o mundo virtual da escrita alfabética apresenta. Pois a linguagem da tradição judaica está intimamente ligada à escrita e, particularmente, à escrita alfabética. 

“C´est lá la Torah primordiale à proprement parler ou – fai altament significativ – l´écriture, la signature occulte em Dieu precede le parler, de sorte qu´en définitive c´est le langage qui naît d´une vocalisation de l´écriture e non l´inverse.“ 

Na tradição cabalista, a ligação entre linguagem, nome de deus e letras do alfabeto está particularmente clara: 

“Lorsque Dieu associa les lettres de ce nom à celles de l´alphabet, lorsqu´il les combina, les permuta et les intervertit selon des règles fixées par le livre Yesira, les autres nom set appelations de Dieu se formèrent” 

A novidade (da língua alfabética) está nessa capacidade de originar transformações ou traduções, pois ela permite traduzir algo que se realiza na consciência da personagem Moisés, algo pelo qual Moisés (o egípcio) se transforma, para tornar-se o líder aceito das tribos judaicas e algo pelo qual Moisés consegue comunicar essa sua transformação, conseguindo um carisma e um prestígio tributado aos grandes líderes, portadores de novas verdades. 
À luz das considerações anteriores, o que Derrida afirma em seu Detours de Babel ser a “metáfora das metáforas”, a “narrativa da narrativa”, a “tradução da tradução” (p.11) deveria, mais propriamente, ser refirido ao nome de deus, assim como ele aparece na narrativa da ruptura do redator E, no Êx 3, 14., que – como vimos – também não designa, propriamente, um “nome próprio”, nem designa um verdadeiro nome, ou pelo menos, não um nome pela perspectiva da língua e da cultura hebraica, a partir da qual o texto bíblico é visto e redigido. É esta sua novidade e sua força.
A questão das origens (“o mito da origem do mito”, em Detours de Babel) aponta para uma procura das origens que um filósofo contemporâneo, Peter Sloterdijk releva em “Derrida, o egípcio” (Derrida, der Ägypter ). Esse texto (irônico e  nostálgico, originado por um discurso em memória de Derrida) ecoa o famoso texto de Sigmund Freud, Der Mann Moses, und die monotheistische Religion, traduzido em português com Moisés e o Monoteísmo originalmente: “O Homem Moisés e a religião monoteísta”), em que o primeiro capítulo é intitulado: “Moisés um egípcio”. 
Para Sloderdijk, paradoxalmente, há uma tentativa de superar a morte, , que ele identifica na teorização do último Derrida da pirâmide egípcia, como forma da imortalidade. Pois 

“a pirâmide se ergue no seu lugar inabalável; ... sua forma não é outra coisa a não ser o resto indesconstrutível de uma construção, que foi erguida pelo arquiteto com a forma com que ela apareceria após sua queda  

Sloterdijk mostra um Derrida em contraluz, analisando sete autores diferentes, entre eles Sigmund Freud e Boris Groys: esse último que aponta para a s pirâmides como lugar museológico (questão central para os seguidores contemporâneos de Derrida). Nesse apontar para a ligação egípcia (de Derrida, o judeu argelino), assim como de Freud, o vienense, há em Sloterdijk o interesse em mostrar o paradoxo, algo além ou contra a opinião comum ou o senso comum: uma questão importante, que é o problema da ruptura entre tradições, como fundante (novamente uma ruptura, “ein Bruch”): Derrida entre Argélia e França, Freud entre judaísmo e cultura mitteleuropéia e, finalmente, Moisés entre herança egípcia (do Faraó revolucionário e inovador Akhenaton) e os judeus (tribos primitivas, mas disponíveis a serem lideradas por um príncipe egípcio, como o Moisés de Freud aparenta ser).
A partir de uma leitura do texto de Derrida, que remete ao texto de Benjamin e que – ambos – por sua vez remetem à leitura do episódio de Babel –  da revelação do nome de deus, à função da língua sagrada, ao conceito de origem, como metáfora das metáforas – há um elemento que, na ótica da desconstrução, parece estar confirmado: a absoluta predominância do texto, sua enorme importância, seu lado “sagrado” e “intocável”. Nisso a desconstrução parece bem mais perto da literatura e da poesia do que da filosofia, analogamente a quanto aponta G. Scholem, concluindo seu estudo sobre o nome de deus e a teoria da linguagem cabalista : 

“En guise de conclusion je voudrais revenir sur l´idée centrale de mes développements. Le nom de Dieu est le “nom essentiel” qui est à l´origine de tout langage. Tout outre nom para lequel Dieu est nommée ou invoquée designe une activité déterminée ainsi que l´atteste l´étymologie des autres noms que la Bible donne á Dieu; ce nom est le seul qui ne se rattache à aucune activité. Pour le kabbalistes ce nom n´a pas de signification au sens courant, ni de “sens” concret. ... 
Quelle será l´éminence du langage d´où Dieu se será retiré, c´est la question que doivent se poser tous ceux qui croient encore percevoir dans ce monde l´écho diffus du verbe créateur. C´est une questtion à laquelle les poetes sont aujurd´hui les seuls à pouvoir apporter  une réponse, eux qui ne partagent pás le désespoir de la plupart des mystiques du langage et qu´une chose au moins rapproche des maîtres de la kabbale, mêmes s´ils en rejettent la formulation théologique du fat qu´elle esta au premier plan: il s´agit de la croyance au langage conçu comme um absolu, si déchiré qu´il soit par la dialectique, la foi en un mystère que l´on peut entendre dans le langage” 

Resta a ver se a própria evocação das pirâmides remete, como afirma Sloderdijk, à cultura e tradição egípcia e ao problema da imortalidade ou, lembrando os ziggurats e Babel, os templos que desafiam deus ou, melhor, os deuses mesopotâmicos: uma forma, talvez, de expressar ironicamente uma distorção (a Entsellung, termo usado por Freud e por Sloterdijk nesse pequeno texto) ou uma releitura contemporânea do texto bíblico, à luz da morte de deus, afirmada e negada. Ou se, confome a citação de Scholem, algo no texto remete para uma perspectiva de leitura diferente, do ponto de vista da cabala, que quer dizer propriamente tradição (e, portanto, também origem, princípio, etc.). Mas esta perspectiva tornaria necessária uma análise bem mais complexa, que aqui não é possível desenvolver... 

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Apêndice:

Por uma ética da leitura
Antecipando algumas conclusões, talvez prematuras neste curto texto, eu gostaria de definir ética da leitura  o procedimento de leitura que é produto desse raciocínio. Joseph Hillis Miller  propõe uma ética da leitura, num sentido diferente, mas que tem o mérito de vincular o conceito de ética com o universo da leitura e da literatura. “Boa leitura quer dizer a leitura não canônica”. Aqui gostaria de tentar definir um procedimento, que comecei a desenvolver em outros textos  
1. Acredito que a leitura, na época contemporânea, continue tendo um papel decisivo, em nossa relação com o “mundo”, o “referente” e, mais especificamente, com qualquer texto com que estejamos obrigados a nós confrontar. 
2. A leitura literária evidencia, de forma mais direta e produtiva, os procedimentos da ética da leitura, embora eles se manifestem em qualquer ato de leitura, desde que a leitura seja realizada com a intenção de uma compreensão do texto (de forma radical e “agonística”). 
3. A compreensão de um texto (diferentemente de quanto Primo Levi afirma em É este um homem?), inclui uma etapa de construção do processo de identificação do sujeito. Ou seja, mais do que premissa, a definição de uma identidade é fruto da compreensão, na medida em que a leitura é realizada com objetivo de reverter radicalmente o sentido do texto: ela terá portanto como efeito uma transformação tão radical do texto lido, quanto da identidade do leitor, incluíndo uma retificação (que representa uma transformação) do próprio método de leitura, conforme hipótese da Mathésis singularis enunciada por Roland Barthes. A transformação radical do texto e do leitor é, naturalmente, uma hipótese, que se realiza em parte ou pode não ser realizada (caso a leitura não seja radical), mas não nega o procedimento.
4. O processo de leitura configura-se assim como uma ação, pois realizando um processo hermenêutico, ele muda, em princípio, a compreensão do texto (anterior), de forma a criar uma necessidade, posterior, de releitura do texto, via nova interpretação. Desta forma, muda a compreensão do mundo, sua “leitura”: nisso, como uma fórmula mágica, muda o mundo (representado pelo texto). Paul Ricoeur afirmou que “l´action humaine est à bien des égards um quase-texte. Elle est extériorisée d´une manière comparable à la fixation caractéristique de l´écriture ”. Invertindo os componentes da frase de Ricoeur, pode-se afirmar que a ação produz um texto e é idêntica a um texto (um quase-texto), ou, melhor, representa uma interpretação, uma leitura. Poder-se dizer que a nova interpretação é produto de uma leitura, pois realiza uma exteriorização (ou melhor: uma verbalização), que é uma característica da escrita. A nova interpretação (o resultado da interpretação, da nova leitura) é um texto que se contrapõe ao texto anterior. 
5. A ética da leitura pode ser utilizada para leitura de qualquer texto. Em se tratando de textos bíblicos e, particularmente, em textos relativos à definição do nome de deus, haverá uma múltipla tendência a reforçar o potencial ético: pois numa determinada tradição (a que carrega a problemática do nome de deus, dentro da narrativa bíblica, ou seja o texto que será identificado dentro do Pentateuco) a relação com o texto bíblico e o nome de deus incorpora a problemática da liberdade (de escolha: escolha entre textos, escolha entre deuses, escolha do nome de deus) ou da liberdade de escolha em geral, como pardigma de qualquer leitura. Pois nesta mesma tradição, a entidade divina encontra-se ligada á tradição da escrita, ou melhor, está intimamente ligada a essa tradição. Trata-se de um deus do texto ou um texto que leva a deus (um deus que depende do texto ou que representa sua simbolização). Além disso, a definição do nome, dentro da tradição cultural ocidental, tem uma tendência a identificar-se com a problemática do sagrado, que é idêntica ao campo da definição do próprio nome de deus.
6. Dentro do procedimento sugerido pela ética da leitura, o respeito pelo texto original deve ser absoluto. Imediatamente surge uma analogia com a tradição exegética, pela qual o texto é sagrado (ou intocável). O caráter sagrado não é produto do caráter “divino” do texto, quanto de seu efeito “original”. Ou seja, a expressão escrita (o texto) dá origem ao conceito e ao nome, incluindo, portanto, o nome de deus. É, portanto, na expressão escrita que deverá ser identificado o nome de deus, que será idêntico á problemática da escolha de liberdade e do mito do surgimento da escrita.
7. Segundo Jack Goody, anteriormente citado,  há uma relação particularmente próxima entre a “descoberta” do monoteísmo e a introdução da escrita e, particularmente, a introdução da escrita alfabética. Deus, portanto, é um deus do texto, assim como o texto, portanto, é um texto “de deus”, na medida que expressa o poder atribuído a deus ou que “a metáfora das metáforas” indica. O monoteísmo é um produto que emana – de certa forma – das características da escrita, sobretudo, da escrita alfabética, em sua capacidade de permutação mágica da letras, que permite à escrita alfabética influir sobre a interpretação e, portanto, transformar a leitura (do texto e, portanto, do “mundo” que é representável somente por um texto). 
8. Em princípio, os efeitos do texto (da escrita, do texto alfabético), estão ligadas ao aspecto mágico da linguagem, algo que segundo o lingüista Roman Jacobson , pertence às propriedades da função poética da linguagem: “Assim, a função mágica, encantatória, é sobretudo a conversão de uma pessoa ausente em destinatário de uma mensagem conativa”. 
9. Nessa ética da leitura, o vínculo com o método limita-se ao respeito pelo original quase como um texto sagrado e, ao mesmo tempo, está ligado à intenção e à necessidade de explodir o mesmo texto original, num movimento paradoxal e aporético (defesa até o extremo e luta contra, de forma radical). Dito de outra forma, há uma necessidade de que a interpretação seja pertinente, ou seja: pertencer ao texto original, estar rente ao texto, palavra por palavra, vírgula por vírgula, se depreender do original, como cada cáco do vaso quebrado na imagem da cabala continua pertencendo originalmente ao vaso “arquetípico”. E, ao mesmo tempo, de forma radicalmente oposta: a interpretação deverá-se distanciar do original, quanto a abstração o permite, em oposição ao texto original, mas realizando ainda uma expansão produtiva, um Fortleben do texto que possa ser reconduzido ao original e dele se distancie de forma absoluta. A interpretação deverá desenvolver, portanto, uma leitura produtiva, quer dizer, uma leitura que consiga explodir o texto original em mil pedaços, garantindo ao texto posterior (a interpretação) a única possibilidade de reconstruí-lo . 
Esta perspectiva nova deverá ser, de tal forma, desestabilizadora, ao ponto de realizar uma explosão (ou implosão) do texto herdado: que deverá perder sua autonomia, que não poderá mais ser lido na forma tradicional, ou seja: sem a nova interpretação. O ato de leitura, portanto, pode ser considerado mesmo uma ação (e não uma quase ação), cujo resultado será um texto novo. De outra forma, a novidade da interpretação deve reverter no texto antigo, de forma a mudá-lo tão significativamente, que ele mudará a perspectiva de leitura dos leitores futuros e dos passados: dessa forma, mudando a perspectiva de leitura, mudará a relação entre texto e referente, ou seja, terá sido realizada uma transformação (na relação entre os dois). A hipótese, portanto, é que o ato de leitura seja o efeito e o trámite de uma ação: ela constitui-se numa ação, resolvendo a dicotomia entre interpretação e ação, que é típioca da tradição esotérica e mágica, mas que se encontra também na tradição marxiana (por ex. no dilema posto na 11. Tese sobre Feuerbach). Ética da leitura define essa ação hermenêutica. Ela será, ao mesmo tempo, fruto da nova leitura e produto de um conflito entre duas leituras possíveis, simbolizando uma potencialidade infinita de leituras. Essa ética da leitura, que é realizada sobre qualquer texto, precisa de um rigor maior, quanto mais ela se aproximará de textos “fundadores”, por serem esses textos que, por sua vez, influenciam e influenciaram a leitura.