sexta-feira, 11 de junho de 2010

Boccaccio e la creazione di un lettore ingegnoso

BOCCACCIO E LA CREAZIONE DI UN
LETTORE INGEGNOSO
UNA LETTURA DELLA NOVELLA VI, 1
DEL DECAMERON


La pratica della lettura può essere considerata come momento ideale di tensione fra parlato e scritto. La rilettura del Decameron ci permette di esemplificare due momenti che si trovano all’origine della narrativa e, pertanto, rendono più trasparente la trasformazione del tema e del genere, alla luce dei procedimenti metaletterari adottati: l’enfasi sulla scrittura (come riscrittura parodistica) rispetto all’oralità (e alla originalità), il procedimento della creazione ideale di un pubblico e la trasformazione della pratica dell’intertestualità. La rivalutazione del rapporto fra narrativa e pittura (secondo il paradigma oraziano ut pictura poesis) costituisce un secondo momento di adeguamento della nuova concezione della letteratura, volta a privilegiare la vista rispetto all’udito, come contributo alla creazione di un nuovo immaginario che sfocerà nel Rinascimento.
L’ipotesi di lavoro adottata vuole inserirsi idealmente nel dibattito relativo al canone letterario e tiene conto di alcuni problemi di ricezione della letteratura italiana presenti in Brasile visti, in generale, come lacune incolmabili. Si tratta, infatti, di rendere produttivo l’insegnamento della letteratura, partendo da un adeguamento al contesto universitario brasiliano e privilegiare, in una certa misura, il ruolo del lettore nel rapporto fra pubblico e testo.

Crisi dell’università, revisione del canone

A 1. Insegnare è impossibile. Imparare, invece no... Il docente è maieuta, levatore, ostetrico. Sterile, non ingravida niente e nessuno.
A 2. Insegnare è possibile. Questa attività appartiene... all’arte erotica, capitolo della seduzione. ... il docente valente corrompe il giovane discente. Lo spinge a ingravidarsi di corsa, lo induce a amorazzare immaltusianamente con questa o quella pratica intellettuale... Occorre, al possibile, scatenare una specifica libido disciplinare
Con queste paradossali battute inizia un breve testo di Edoardo Sanguineti[1] Partendo dal carattere dell’affermazione di Sanguineti, l’insegnamento può essere considerato sempre un punto di equilibrio tra una impossibilità e una necessità. Se da una parte è necessario insegnare, sono complesse le premesse dell’insegnamento. Uno degli aspetti, tra i vari che si presentano, è certamente l’adeguamento al contesto in cui si opera, cioè, in pratica, le caratteristiche degli studenti, tenendo conto che l'attuale fase dell’università non è certamente delle più brillanti e motivanti. In generale, l’insegnamento della cultura e della letteratura attraversano una crisi profonda, nonostante alcune ipotesi lusinghiere sui pregi della preparazione umanistica in una società complessa. Difficile analizzare tutti gli elementi di questa crisi e si può presumere che il processo non sia reversibile, senza un tentativo di trasformazione e adeguamento, almeno della didattica.
La crisi dell’istituzione viene quindi amplificata dalla crisi della docenza. Un problema che non nasce oggi. Una delle caratteristiche evidenti della critica italiana (con opportune e rare eccezioni) è l'influenza dello storicismo, il vincolo a filo doppio che viene stabilito con la storia. Non si tratta sempre di un elemento negativo. De Sanctis, per esempio, presenta questo filo conduttore sempre abbinato a frasi autorali (dense di autorevolezza, di stile, di brio) che, in sé, costituiscono già esempio di prosa letteraria. Difficile stabilire i motivi di questa enorme influenza dello storicismo, forse legato a un vero e proprio complesso d'inferiorità della cultura italiana, rispetto a un preteso ritardo dell’unificazione italiana (la visione del ritardo, però, deriva da una matrice idealistica, che attribuisce alla storia tempi "regolamentari"). Un altro elemento di questa influenza può essere certamente dicondotto alla radice cristiana della società italiana (sai nella sua versione cattolica, sai in quella fortemente anticlericale e eretica). Il problema morale (che in De Sanctis ha una radice hegeliana idealista) diviene un impegno nei confronti delle difformità della società italiana, diametralmente opponentesi alla concezione di un’alta cultura, di un peso sentito come schiacciante della tradizione classica. Qualcosa come un superego della tradizione italiana (se è lecito usare questo termine).
Nel citato Insegnare la letteratura molti degli elementi analizzati (oltre al testo di E. Sanguineti, sono interessanti i contributi di Jacqueline Risset, Cesare Cases e altri) possono costituire una base per una riflessione sulla nostra situazione, pur riferendosi il testo ai ritardi e alle resistenze nell’insegnamento della letteratura nella scuola secondaria superiore in Italia.
Nel testo introduttivo di C. Acutis si condanna il sistema d’insegnamento tradizionale individuato in tre momenti molto rigidi:
“I nuclei fondamentali di questo modello d’approccio al letterario che si pretende innocente sembrano essere tre: parafrasi (I) e valutazione (II) di un testo latitante; analisi psicologica (III) di un autore latitante. Mentre si evoca un personaggio - l’autore, lontano per forza di cose - al fine di sottoporlo a esercitazioni psicologistiche, si allontana il testo... L’insegnamento della letteratura si riduce dunque in sostanza a una serie paradossale di esercizi attorno a un oggetto assente.” (p. 8)

“La situazione non cambia con l’introduzione ... delle antologie... Dopo che gli si è raccontato come è fatta e la si è classificata nel suo genere e nella sua specie (funzione della parola magistrale e del manuale di storia letteraria), dopo che gliene si è mostrata un’unghia (funzione dell’antologia), si arriva a sollecitare dal paziente scolaro un giudizio sulla bellezza della bestia. Ed è chiaro che non si tratterà di un giudizio (su che base potrebbe essere mai formulato?), ma della ripetizione di un giudizio.”(p. 8-9).

Una serie di problemi specifici dell’università brasiliana sembra che possano solo confermare queste considerazioni. In fondo sembra che il tempo a disposizione sia così risicato, il background culturale degli studenti tanto appiattito, il contesto della formazione dei professori talmente precario che porsi obiettivi più avanzati può rischiare di sembrare irresponsabile.

Analoghe considerazioni appaiono nei testi degli altri collaboratori. Per C. Cases, per esempio,
“La vecchia concezione deterministica degli storici letterari per cui, dato il placito capuano o i giuramenti di Strasburgo, da questi modesti inizi si formava e dilagava a valle una valanga che si acquetava, per l’impossibilità di prevedere il futuro, con l’ultimo premio Strega o Goncourt e in cui ogni pietruzza era assolutamente necessaria e andava studiata in ordine sia storico che gerarchico, era tanto commovente quanto falsa.” (ib., p. 52)

Jacqueline Risset afferma che
“...la storia della letteratura in Italia viene concepita come una parte non separata -semplicemente secondaria- della storia generale, che ha solo il compito di il più fedelmente, il più umilmente possibile” (p. 17)

In sostanza, cerco di riassumere i limiti individuati, che possono essere sintetizzati così:
1. Allontanamento dal testo (sia attraverso l'enfatizzazione del ruolo subordinato della letteratura rispetto alla storia che attraverso la pratica della parafrasi). Il testo viene considerato un’espressione del suo tempo che, evidentemente, merita una trattazione privilegiata.
2. Psicologismo, o meglio biografismo, cioè tentativo di usare il testo come illustrazione dei dati biografici dell’autore.
3. Tentativo di fare entrare nelle poche ore di lezione tutto ciò che si considera essenziale nella storia della letteratura, con una tendenza alla cronologia e all’ecumenismo (parlare un po’ di tutto). Il risultato è -in genere- un programma che comprende un numero assolutamente inverosimile di autori.
Il principale effetto negativo di questa pratica (si usa diplomaticamente non dare luoghi e nomi: naturalmente mi riferisco principalmente alla USP) è una ripetizione pedissequa e generica di giudizi di critici attestati, svuotando questa trasmissione di ogni contributo soggettivo, di qualsiasi approccio personale del docente. Il primo risultato è, evidentemente, una noia terribile. L’utilizzazione di frasi generiche prende il posto di una concezione critica. Sorgono le seguenti frasi: “Una delle caratteristiche peculiari dello scrittore (o del testo) X è quella di essere, in una larga misura, riuscito a cogliere i principali dilemmi del suo tempo”; “è notevole questo testo, perché anticipa con molta chiarezza, problematiche e forme a lui molto posteriori”; oppure: “traspare dal testo una tensione straordinaria, che è appunto la forza del testo”; oppure: “è stupefacente quanto la forma usata corrisponda a un messaggio che percorre tutta l’opera dello scrittore”; quando non si arriva a affermare che: “non è a caso che gli elementi più singolari del testo lasciano chiaramente trasparire un atteggiamento analogo sul piano culturale e sociale dello scrittore X che, com’è noto, ha sempre svolto una pubblica battaglia per affermare una nuova concezione dell’uomo rispetto alla sua epoca”. Con una leggera dose di fantasia e di malizia, si potrebbe pensare di applicare queste frasi ai più svariati autori del panorama letterario internazionale. Quasi sempre tali affermazioni potrebbero essere accettate. Il risultato dal punto di vista didattico, non è neanche il caso di sottolinearlo, è nullo, anche perché, di fronte a questa pratica, tanto varrebbe far studiare gli studenti per corrispondenza, magari, per modernizzare, via internet (il ché non sarebbe affatto male, perché forzerebbe tutti a scrivere, anche copiando, imitando, con evidente profitto sul piano della memoria). Sarebbe possibile scrivere fiumi di parole non-sense (potremmo denominarlo il critichese, ossia una parodia della critica), ridondanze e tautologie che, in fondo, sono rilevabili in qualsiasi antologia media. Tic e ripetizioni forzate anche dal carattere opaco di antologia.
Trasformare questa situazione è forse utopico. Acquisire la coscienza del problema, però, è un punto che può permettere (volendo) un distanziamento (se non un superamento).

Quale il cammino da scegliere, nei labirinti e foreste inestricabili della critica moderna e contemporanea?
Esistono almeno due problematiche, partendo dalla critica italiana, che impongono una trasformazione della lettura:
1. Il tramonto dell’idea di storia nazionale (sia per motivi contingenti legati alla globalizzazione e all’apparire delle piccole patrie regionali o campanilistiche, sia dovuto all’unificazione europea, che fa naufragare una concezione ideale dell’ Europa, dentro alla quale molte - anche se non tutte- le principali letterature insegnate, almeno nel Dipartimento di Lettere Moderne, affondano le loro radici. Permangono ancora notevoli differenze fra scuola tedesca, francese o anglosassone. Urge rivolgersi, anche per contingenze topografiche e culturali, ai risultati delle scuole critiche americane (varie e in conflitto fra di loro), negli ultimi tempi particolarmente creative. Comunque, è tramontata definitivamente (non è possibile non essere d’accordo) una storia della letteratura così come la vedeva per es. De Sanctis e che, bene o male, è all’origine dei difetti individuati dal libro appena citati. Non essendoci più una storia nazionale da difendere (o da costruire) appare insufficiente il legame stretto (o pedissequo) tra letteratura e storia; il peso del paradigma storico dovrà, perlomeno, essere considerato pari al contributo di altri approcci: la psicanalisi in autori come Svevo o Gadda, la storia della cultura (e, particolarmente l'illuminismo) in Pirandello o Calvino (o almeno, una tendenza a enfatizzare la letteratura nella sua funzione didattico-illuminista), il rapporto della letteratura con il realismo, il naturalismo, il verismo e l’impegno in Pavese o Fenoglio. Ma penso, sopratutto, all’esame del testo nella sua materialità, nella sua composizione, nelle sue caratteristiche stilistiche, negli elementi di attualità (sempre nell’ambito della critica).
2. Tener conto del superamento della barriera fra critica e narrativa. La mescolanza o il pastiche fra critica e narrativa in autori come Gadda, Manganelli e Calvino (particolarmente questi ultimi in Centurie e in Se una notte d’inverno, così come in letteratura come menzogna o in Lezioni americane, mentre per Gadda si tratta di una contaminazione generalizzata). Non si tratta solo del rifiuto di una prosa lineare, obiettiva e antimetaforica nel testo critico, quanto della deliberata scelta di stile, unita a una dichiarazione d’intenzioni: la critica è diventata narrativa. Gli esempi non italiani di questa visione sono innumerevoli, anche se da sempre i testi critici densi mostrano valenza letteraria: si vedano brani dello stesso De Sanctis, romantico e impegnato, nel suo percorso attraverso la letteratura, ma anche autoriflessivo e attento allo stile: la prosa di critici quali Contini o , dei più contemporanei, oltre a quelli citati, Lavagetto e altri: da Benjamin, considerato giustamente un antesignano, a R. Barthes (ma si potrebbe risalire a Mallarmé), da Eliot (ma perché non citare il Dr. Johnson e Emerson) a Pound e Auerbach a N. Frye, fino ad arrivare alla generazione ultima degli americani: H. Bloom, J. Freccero, R. Mazzotta (per citarne alcuni che, tra l’altro, si sono occupati di letteratura italiana con interessantissimi risultati). Per l’Italia, forse, in opposizione a Croce e, in parte, Contini (virtuosistico, certo scientifico), la critica ha sempre avuto il complesso di non voler abbandonare una visione fondamentalmente storicistica, in contrapposizione al maestro. La critica internazionale è passata da tempo da una visione storica e storicistica a una visione materialista (dal new criticism allo strutturalismo, attraverso l’Ou.li.po e altre visioni, compresa quella multiculturale) e, successivamente, attraverso il superamento dello strutturalismo, si è liberata dalle varie zavorre, riapprodando a forme individualizzate, il cui oggetto non è più necessariamente l’analisi letteraria, ma la stessa critica: una critica della critica (si veda, ad esempio, l’ottimo panorama dato da J. Culler) che testimonia il solipsismo della critica, oppure, una valenza letteraria della critica del testo (sia esso letterario, filosofico, psicanalitico o storico-materiale). La critica, insomma è cresciuta nelle sue dimensioni.

Entrambi questi movimenti (superamento del legame con la storia e identificazione critica-narrativa o critica-poesia) non sono né definitivi né irrimediabili. Costituiscono però due elementi difficilmente ignorabili. La “morte dell’autore” (concetto di Foucault e, poi, di Barthes) e il pastiche sono gli effetti più tangibili, insieme al superamento della nozione di genere: sempre più si ha difficoltà, come detto, ad arginare fra poesia e prosa, fra prosa e saggio...


la rottura dell’oralità

Sul tema dell’introduzione della scrittura nelle varie culture, principalmente in quella greca (Havelock) e, in parte, in quella ebraica, esistono già molti studi ricchi di enormi conseguenze. La tradizione letteraria italiana dà meno enfasi a questa problematica, poiché l’introduzione del volgare avviene in un momento in cui la sedimentazione di un passato poderoso come quello latino è talmente consolidata che è l’opposizione fra codici (il latino-il volgare) ad acquistare la preminenza e non la sensazione di costruire un mondo concettualmente nuovo. Eppure proprio Dante accenna a questo tema (la lingua della madre o balia nel De vulgari eloquentia, una specie di metafora della nuova vita). Consideriamo appunto Dante-Boccaccio (e Petrarca) come all’origine di questa rottura. Una delle possibili “chiavi” di lettura del rapporto reciproco è l'accenno al Principe Galeotto nel Decameron. Si tratta di a) un riferimento intertestuale che già di per se è ludico, poiché avviene su un altro riferimento inertestuale: una specie di storia del libro alla seconda potenza (si veda quanto affermato da I.Calvino in proposito in Perché leggere i classici). b) è una evidente parodia: niente poteva opporsi meglio alla Divina Commedia della commedia umana di Boccaccio (termine di De Sanctis). È l’immanenza proclamata rispetto alla trascendenza: si tratta di un’immanenza del testo: il testo si avvolge vertiginosamente su se stesso, poiché non racconta la storia (del resto tutto il Decameron è presentato come una scrittura di una lettura, cioè il rifacimento di storie già presenti nel patrimonio culturale -si suppone orale- della tradizione italiana di allora), ma mette in luce il procedimento, cioè il come la storia viene raccontata e, sopratutto, i suoi limiti. Tutto ciò ha l’effetto di richiamare l’attenzione sulla funzione dell’artefice (o, per usare un termine caro a De Sanctis, l’artigiano) del testo, l’autore. Se Dante scrive il suo testo come una specie di autobiografia (questo secondo una interessante lettura di J. Freccero, che richiama Sant’Agostino), l’effetto è una mimetizzazione del personaggio Dante (l’autore) nel testo (secondo una logica di tre piani della narrazione, già individuata da G.Contini: Dante: autore, narratore, personaggio). Si tratta dell'innovazione più straordinaria. L’autobiografia, la confessione diviene testo narrativo. Boccaccio realizza una doppia operazione mimetica 1. L’autore dà vita ai narratori che raccontano le storie già raccontate da altri e pone l’accento su come raccontano 2. L’autore come narratore si introduce nel testo surrettiziamente, attraverso un’operazione di rimandi, e richiama l’attenzione su quello che potrebbe essere definita la macchina narrativa) dando vita alla concezione moderna del narratore che, con la sua nascita e tematizzazione, a sua volta, crea il suo pubblico (il pubblico composto dai narratori, dagli uditori e, sopratutto, daí lettori potenziali). È significativo che Boccaccio appaia nel Decameron solo come narratore, mentre Dante appare almeno raddoppiato come narratore e personaggio, se non triplicato, includendo, appunto, il ruolo dell’autore.

Il problema non è stabilire se la lettura contemporanea debba essere potenzialmente (e teoricamente) infinita, quanto accettare che ci possa essere un cambiamento dell’accento, del punto di vista critico. Questo approccio critico - è evidente- ha una conseguenza diretta sul nostro ruolo come docenti. Una buona analogia potrebbe essere quella della lettura di un testo e di una partitura (che, in fondo, anch’essa è un testo: del resto con un esempio analogo comincia Opera aperta). Qualunque buon ascoltatore sa che un’esecuzione dipende tanto dall’orchestra e dal direttore quanto dal compositore: una pessima esecuzione di Beethoven o di Mahler stravolge il senso completamente. Se si chiede a uno specialista che cosa ne pensa della possibilità di una ricostruzione dell’esecuzione originale, dirà che si tratta di un’ingenuità, di una pura illusione (la stessa cosa rispetto al concetto di Otto Ranke sulla storia): non è possibile documentare il gusto di un’epoca (e neanche, a volte, gli strumenti usati). Concorrono nell’esecuzione (e nella lettura) tanti fattori quali, ad es.: funzione (della musica/lettura), genere (ad es. in un genere musicale religioso l’acustica, in genere, è differente se presuppone ambienti chiusi, risonanza, ecc., e l’atteggiamento del pubblico è differente in rapporto alle sottigliezze: si tende più a privilegiare il rito, la “funzione” sacra...; timbro (una composizione per uno strumento trascritta, ad es. potrebbe equivalere a un testo letto ad alta voce o no); abilità dell’esecutore: si dimentica che la maggioranza delle persone è analfabeta musicalmente (cioe non sa leggere la musica). Mentre la totalità dei lettori è alfabetizzata (rispetto alla scrittura), mentre la maggioranza degli esecutori non ha quasi mai la funzione di scrivere neanche una nota, i lettori generalmente scrivono (tanto più se sono scrittori o critici potenziali o effettivi).

Una lettura della novella VI, 1 del Decameron

Immaginare nuovamente un testo come un tessuto significa pensare che questo tessuto è fatto di una sottile testura, che non esiste una via maestra per comprenderlo, capirlo, così come non esiste una via maestra per manipolare, usare, prendere un vestito (tranne le convenzioni, il galateo), che lo stesso processo di comprensione è destinato a disfare la natura testuale, poiché altrimenti, solo tramite l’intuizione, non sarà possibile seguirne la/le trame, che la sua apparenza è destinata a trasformarsi secondo il punto di vista (la luce, il colore, la capacità percettiva, i problemi della vista che rendono la percezione soggettiva), che -visto a una certa distanza- non sarà possibile individuare le sue cuciture, i suoi nessi interni ed esterni, come in un tappeto persiano. Forse non è un caso che la pratica dei tintori del tessuto sorga grosso modo nello stesso momento e luogo della pratica degli artefici del testo concepito in senso nuovo: dove sono in Boccaccio le suture, le cuciture, le sovrapposizioni? Sono esplicitate, ma non si percepiscono a una prima lettura.
Paradossalmente si potrebbe sostenere che il recupero del ruolo interpretativo (del contributo del lettore al testo) ci avvicini a una funzione che il testo in Boccacio doveva certamente avere: un esercizio per l’educazione ingegnosa del lettore il cui compito poteva essere quello di:

-verificare la possibilità di intervenire sul mondo tramite l’interpretazione (il senso del motto di spirito, che equivale a una enfatizzazione dello spirito... umano, rispetto alla predestinazione o al concetto di fortuna che in qualche modo è equivalente);
-elevare il senso del quotidiano (il quotidiano del nuovo ceto cittadino, avventuroso e produttivo) mostrando la possibilità di una produzione di senso partendo dalla descrizione-analisi di avvenimenti della routine - stabilire una democrazia di partenza basata sulle capacità (il lettore che si crea la sua strategia interpretativa equivale al commerciante che arricchisce tramite la sua intraprendenza), abbandonando la gerarchia fissa delle posizioni medievali, ma stabilendo una nuova differenziazione, che è essenzialmente culturale, ma non più mnemonica (nel caso di Dante, anche perché legata al verso) né erudita in senso classico: Apuleio e Ovidio, ma anche Petronio sono riferimenti mediati attraverso uno strato intermedio (se non Dante, altri) nel quale Boccaccio può ancorare un concetto di origine. Boccaccio non si presenta come un demiurgo (significativa l’assenza nella Divina Commedia di Cristo -interprete e traduttore della parola di Dio- una situazione che, evidentemente, induce a una sostituzione di ruoli) ma un artefice (è lui stesso prima di De Sanctis a affermarlo: si limita a riprodurre storie, non a crearle; la sua abilità è tutta compresa nel testo, non ci sono verità extratestuali da trasmettere): in questo stabilisce una nuova gerarchia, molto più modernamente antidemocratica, fra l’autore e il lettore, una gerarchia che solo recentemente è stata (apparentemente) spiazzata, se non rimossa;
- affermare (nuovamente, ma in maniera diversa) il concetto di moderno (Dante gli sta vicino e enormemente lontano, in quanto già classico), stabilendo un paradigma ancora valido. Anche l’attenzione di Boccaccio che afferma posizioni più tradizionali sullo stile, testimonia una libertà maggiore rispetto alle convenzioni classiche. Dante è umile solo in apparenza, inventa un sublime dell’umile; Boccaccio crea un umile letterale: vicino alla natura, alla terra.
- lasciare un’indeterminatezza nel testo (una sua apertura o ambiguità): Boccaccio non ha bisogno di esegesi del suo Decameron. Proemio e Conclusione, attraverso il gioco dei rimandi, fanno parte organicamente del testo, a differenza della Epistola a Cangrande di Dante, che è un esempio di esegesi teologica che integra un testo laico, ma che include nelle strategie interpretative non solo l’esegesi teologica ma quella poetica, anche se segue il cammino della prima.

La nascita del narratore
Il narratore Boccaccio nega a se stesso il ruolo di autore, creatore e demiurgo del genere della novella, e afferma aver ripreso dalla tradizione i suoi racconti:
“io non poteva né doveva scrivere se non le [novelle già] raccontate” (Conclusione).
Il Decameron si presenta, pertanto, como un’operazione di rilettura e riscrittura di materiale già noto. In effetti, la maggioranza dei temi svela modelli e situazioni affermate (da L’asino d’oro di Apuleio alle Metamorfosi di Ovidio, al Satyricon di Petronio), con l’inserimento di un vivace contesto degli episodi di cronaca del tempo di Boccaccio, alcuni racconti orientali che costituiranno in seguito le Mille e una notte, all’epoca conosciuti col nome di Libro dei Sette Savi, ma anche spunti da Il Novellino, una raccolta anonima di brevi storie e aneddoti. L’illusione realistica costantemente affermata viene così sostanzialmente negata: i riferimenti sono prevalentemente letterari e il narratore Boccaccio si presenta, all’inizio della nostra tradizione letteraria moderna (o neolatina), come semplice intermediario, non più un eroe classico della letteratura, ma un artigiano della parola, espressione del nuovo mondo che descrive. La profonda ironia del testo sta nella polarità fra affermazione e negazione: un mondo descritto in maniera realistica e palpabile che scopre l’artificio della parola e anticipa la letteratura come menzogna.
Architettura e realismo sono il prodotto di un nuovo genere, il cui ritrovato fondamentale non è tanto o solo quella della cornice (elemento giustamente valorizzato dalla storia della letteratura), il legame fra vari racconti, ma è la presenza nuova, esplicita e marcante, della nuova funzione del narratore. Boccaccio, al contrario di Dante e di autori a lui precedenti, entra in scena esclusivamente come narratore, con un understatement della propria funzione: non più creatore e demiurgo, ma interpretete, rilettore e redattore di un testo. Questa posizione è attestata in tre momenti strategici, nella struttura del Decameron: nel Proemio, nell’Introduzione alla I giornata, dove si racconta della finalità del libro e della peste a Firenze e nella Conclusione. Il narratore Boccaccio stabilisce il parallelo fra letteratura e pittura, rivendicando alla prima la libertà di descrivere il nudo, cosa che la seconda già faceva da tempo. Appare qui una vera e propria finalità del testo: mostrare non solo la giustapposizione delle due arti, quanto la necessità che il genere della pittura ha di affermare un appoggio ideale sulla consorella più affermata che è la letteratura. Necessità comune di un artista poliedrico e colto, che si rivolge a un pubblico di lettori, sia esso pittore o letterato. Il narratore Boccaccio crea dieci narratori che, raccontandosi delle storie, formano un pubblico che commenta le stesse, istituendo il piano del narratore, il piano del pubblico dei narratori e, infine, il piano dei personaggi secondari di ogni storia e così via, in una gioco degno del procedimento delle scatole cinesi. Le cornici concentriche, che rispondono al criterio architettonico, istituiscono una tensione decisiva fra il narratore (o i narratori) e il loro pubblico, in una dialettica crescente fra interno e esterno, fino a includere noi lettori contemporanei. Se l’erotismo è uno strumento di avvicinamento decisivo alla letteratura, innalzando la commedia umana a tema di interesse universale, l’inclusione del lettore e del pubblico (tramite la proliferazione del commento vivo ai racconti), crea un tipico gioco di specchi in cui, a partire da Boccaccio, nel testo vedremo principalmente la nostra immagine, la nostra genealogia. Letto in questa prospettiva il Decameron sfata due paradigmi considerati ancora recentemente validi in letteratura: l’illusione realista e il mito dell’autore. Nel primo caso il testo si mostra come prodotto di una strategia per catturare il lettore (“le già dette donne, che quelle leggeranno”, Proemio, p.3); nel secondo caso, l’abbassamento dell’autore a mero riproduttore, intermediario e traduttore di testi ripresi dalla tradizione, rende inutile una ricerca della personalità dell’autore, all’interno del testo:
se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle e lo ‘nventore e lo scrittore, che non fui, dico che non mi vergognerei che tutte belle non fossero, per cio` che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente... (Conclusione)
Alla virtù maieutica della poesia e del teatro corrisponde in Boccaccio un’arte profondamente laica, cioè non legata all’etica attraverso il filtro della filosofia, bensì derivante dalla funzione performativa del discorso, dalla pragmatica del quotidiano. Lo sfondo realistico è sempre giustapposto a una trama deformata, sostanzialnmente inverosimile, estrema, comica o grottesca. Il suo realismo sta nel riconoscimento di uno statuto nuovo del discorso, dell’arte della parola, dell’erudizione: non più alla ricerca del sublime o dell’intrattenimento, ma in bilico fra i due campi. Strumento di uso quotidiano dei mercanti, degli avventurieri, del loro milieu culturale, cioè di una nuova classe. Si potrebbe concludere con un paradosso: la nostalgia del narratore, di cui parla Benjamin nel suo famoso saggio su Nicola Leskow, di fatto richiama Boccaccio che, contrariamente a quanto potevamo supporre, mostrava in germe tutta la potenzialità della scrittura. Il narratore è etimologiamente “colui che è informato” e (rac)conta le sue novelle. La strategia del narratore nel Decameron indica un malizioso gioco di rimandi fra il narratore Boccaccio, i dieci narratori e il loro pubblico: “Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, già da più altre saputa dattorno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni consolazion ci torrebbe” (X,10, p. 940). Forse l’erotismo del testo, il realismo e l’architettura del Decameron volevano centrare solo una vera grande beffa: quella ai danni del lettore, maliziosa trovata che rende il Decameron ancora un libro a noi contemporaneo.

La novella VI, I
A metà esatta dell’originale (la cinquantunesima novella) si trova una metanovella dove si narra l’incapacità di un cavaliere di raccontare una novella. Si tratta, in sostanza di una falsa novella, inesistente. La IV giornata dell’originale si apre, viceversa, con un racconto del narratore (a circa 1/3 della raccolta originale), che racconta una sua novella (“una novella del narratore”) che, essendo posta a metà dell’insieme, scardina il conteggio. Il narratore dichiara questa sua novella soprendentemente incompleta, difettosa:
“acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia...mescolare”.
A seguito della morte dell’amata moglie e, volendo sottrarre il figlio dall’influenza morale nefasta della città, Filippo Balducci (protagonista della novella del narratore) vive con lui in eremitaggio. Invano cerca di distogliere il figlio diciottenne dalla vista delle “belle giovani donne e ornate”, nel corso della sua prima visita alla città di Firenze. Il figlio ne viene fatalmente attratto: “Elle sono più belle che gli agnoli dipinti”. Filippo tenta di distoglierlo (“elle son mala cosa”), o almeno impedirgliene la corretta identificazione: “Elle si chiamano papere”, afferma. Ma questo non diminuisce il desiderio del figlio: “Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere, e io le darò beccare”. La novella svela, dunque, la legge della natura, cioè l’istinto sessuale come vero e proprio motore della vita: “[Filippo] sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno”. La novella, come affermato, viene dichiarata inconclusa: “mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia... mescolare, ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle”. Si tratta però di una menzogna del narratore. Di fatto, si crea una contrapposizione nei confronti dei dieci novellatori, poiché qui più che in qualsiasi altra emerge la sua visione ideologica. Possiamo concludere con le parole di Boccaccio in un suo altro testo (L’ Elegia di Madonna Fiammetta): Io, semplicissima giovane e appena potente a disciogliere la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con tanta afflizione li modi del parlare di costui raccolsi, che in brieve spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni poeta; e poche cose furono alle quali, udita la sua posizione, io con una finta novella non dessi risposta dicevole (corsivo mio)
Si tratta di una novella che dà un senso compiuto del mondo del narratore e mostra la “legge della natura”: l’eros, che il libro come un tutto rivela. Di conseguenza, come si vedrà, senza il narratore i conti non tornano. Avremo così una vera e propria sovversione del principio architettonico enunciato: sottraendo la novella VI,I “l’arte della parola” già menzionata, si avranno dunque solo 99 novelle. Se però si aggiunge la novella del narratore (nell'introduzione a IV,I), che si può considerare più che completa, sì avranno, a seconda dei casi: 101 o 100 novelle, ma i narratori (con il metanarratore di IV,I) saranno divenuti undici e non più dieci. Affermazione ed elusione del principio della costruzione, quasi il testo volesse mettere a fuoco una crepa. L'edificio testuale si presenta imperfetto, incompiuto, parziale, ma, allo stesso tempo: stimolante, aperto, proiettato.


Bibliografia:
ACUTIS, C. "Quasi una premessa". In: ACUTIS, c. (a cura di). Insegnare la letteratura. Parma: Pratiche Ed., 1979, p. 5-12
BARBOSA, J. A. A Biblioteca Imaginária. São Paulo: Ateliê Editorial, 1996
CAVALLO, G. e R. CHARTIER. Storia della lettura. Bari: Laterza, 1995
CALVINO, Italo. Lezioni Americane. Milano: Garzanti, 1988
_____________. Perché leggere i classici. Milano: Mondadori, 1991

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[1] “Appunti di diattica letteraria” in: Insegnare la letteratura a c. di C. Acutis. Parma: Pratiche Ed., 1979).

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