domingo, 3 de maio de 2009

emigrazione e trauma

ARTICOLO (em italiano)
Articolo pubblicato sulla rivista elettronica Kumá.


Emigrazione e trauma
1

L’Italia ha vissuto subito dopo la sua unificazione del 1860 il gravissimo problema dell’emigrazione: espulsione, abbandono, esilio forzato e definitivo. Paradossalmente un marchio di nascita di questo nuovo Paese, determinante per la sua identità storica e culturale posteriore: una rottura radicale, oppure un vero e proprio trauma, a partire da una prospettiva freudiana, e cioè: un avvenimento che si definisce per la sua intensità e per l´incapacità dell´individuo di rispondere in forma adeguata (Laplanche-Pontalis). Se non esaminati ed esplicitati, gli effetti dell’emigrazione come trauma possono facilmente originare elementi di disturbo della personalità, portare al ritorno del rimosso, causare altri sintomi derivati oppure spingere il soggetto a una ricerca di identificazione forte o autoritaria. Tra gli effetti possibili, possiamo ipotizzare anche: una tendenza ad un´assimilazione particolarmente radicale nel tessuto di accoglienza (al contrario di altre comunità linguistico-culturali) e con il rigetto della propria origine, il rifiuto dell’altro, fino alla perdita (totale o parziale) della propria identità. Includere in maniera decisa il tema dell’emigrazione come trauma nella storiografia italiana è un modo per mettere in discussione il mito della penisola italiana come ‘culla della civiltà’ e altri stereotipi a questo legati e produrre, di conseguenza, una visione più aperta e etica della storiografia e dell’identità, pensando anche all´epoca della dittatura fascista come possibile “ritorno del rimosso”, dopo la disastrosa partenza del nuovo stato nazionale nel contesto europeo. In fondo, l´emigrazione di livello biblico fa precipitare la forte delusione di una coscienza “italiana” che incorporava un passato ipertrofico: un peso eccessivo per uno stato con elementi evidenti di arretratezza, mancanza di omogeneità, con l´obbligo implicito di assumere l´eredità pesante e eccessiva che andava dall´impero romano, al primitivo capitalismo e arrivava al cosmopolitismo rinascimentale: un patrimonio storico del continente europeo più che della sola penisola italiana.
“Perché correte in America? Ma vi può essere un’America più bella del vostro paese [...]? – No, - rispondeva il contadino; - l’Italia è l’America per voi, non per noi; noi lavoriamo, c’impoveriamo e crepiamo; voi vi arricchite”. Queste righe sono tratte da un saggio pieno di spunti narrativi dello statista Francesco Saverio Nitti (1868-1953), intitolato L`emigrazione italiana e i suoi avversari
2. La forte polarità dei pronomi in queste poche righe mostra una contrapposizione veemente non solo e non tanto fra classi sociali, evidenziata dalla creazione di un noi che accomuna le classi lavoratrici (“Noi lavoriamo, c’impoveriamo e crepiamo”) e un voi (“voi vi arricchite”) che indica “i ricchi”, analoga al conflitto fra berretti e galantuomini della novella Libertà di Verga. Si tratterebbe, in fondo, di una contrapposizione del tutto simile a tanti altri testi, letterari o no, fra contadino da una parte e latifondisti, borghesi e proletari, possidenti e diseredati, tipico della società e dell’immaginario europeo del sec. XIX. Nel testo affiorano, piuttosto, due altri miti antagonistici, anch’essi forti e comuni: quello dell´Italia (“il vostro paese”) e quello dell´America (“L´America per voi”, cioè il mito dell´America). Si tratta, evidentemente, di miti di segno contrapposto e contraddittorio. Italia “terra di briganti e eroi”, come lo stesso Salvemini scrive in un significativo saggio (“Briganti e eroi”) e l´America paese della libertà di Tocqueville, del progresso tecnologico e sociale e, per i diseredati europei, mito del paese dove si potrà realizzare il sogno della terra agognata: sogno tipico dei durissimi anni dell´emigrazione di massa di fine secolo, ma non circoscritto a quei tempi.
Nelle ultime pagine di Oceano, romanzo di Edmondo De Amicis dedicato all’emigrazione (ed uno dei pochi testi letterari sul tema nella tradizione italiana), il transatlantico Galileo sta per arrivare in terra “americana” (al largo di Fernando di Noronha, per andare a Montevideo e Buenos Aires). L’avvicinamento provoca un fervore: “Un fremito di vita giovanile correva da tutte le parti e al disopra del mormorio vivo della folla, s’udivan di tratto in tratto delle grida: - Viva l´America! [...] Dopo di che tutti i passeggieri (sic), appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l´apparizione del nuovo mondo” (p. 235). L’arrivo, o meglio, l’aspettativa dell´arrivo, provoca un’onda di vita che, facendosi consistente, prorompe nel grido di evviva e lascia poi il passo alla presentazione del nuovo mondo, una specie di Paradiso ritrovato, secondo un modello classico. L´impressione che emerge è che le parole portano con sé un insieme di rappresentazioni, complessi, residui, veri e propri macigni della memoria. Pesa sul testo un reticolo di incrostazioni, impressioni, idee e sogni che si fanno solidi stereotipi, preconcetti, schemi. Addensati come cespugli, fitti come gramigna, appiattiti e avvinghiati alle idee come rèmore, i residui di storia, zavorra della memoria, coagulazione di traumi non analizzati ed elementi rimossi che si aggrovigliano con spezzoni di sogni e di incubi, formano nodi densi di senso, una condensazione nel testo, terreno di un forte interesse ermeneutico. Certo, immaginare le due patrie (quella lasciata e quella d’adozione, l’Italia e l’America) del tutto prive di elementi affettivi sarebbe evidentemente un’ingenuità. Più difficile, però, è riconoscere quanto c’è di trasparente e obiettivo, verbalizzabile e dipanabile, dietro ad una visione così densa di ricordi e elementi spuri.
La visione aborrita e reietta di una patria che, inclemente, scaccia i propri figli, richiama la fiaba Hänsel und Gretel dei fratelli Grimm. È bene ricordare che, in questo popolare racconto, la madre, pur di sopravvivere in epoca di dura carestia (così dice il testo originale
3), convince il padre ed entrambi manderanno i figli a perdersi nella foresta profonda, da cui usciranno solo grazie alla sagacia di Hänsel. Vero è che il marito resiste inizialmente agli argomenti della moglie: “No, donna. Questo non lo faccio!”; ma poi cede rovinosamente.
Non si potrebbe pensare, per analogia, a una madrepatria che scaccia gli emigranti nel profondo della foresta metaforica, cioè lontano da ciò che è heimlich o familiare per spedirli in un mondo nuovo, quella della frontiera americana, la foresta della città? In questa immagine da fiaba della storia dell´emigrazione (la vera strega, qui, è la madre o madrepatria!), sovrapposizione arbitraria anche se probabilmente vicina all’insieme di sentimenti contraddittori dell’emigrante di allora, si incunea il concetto di unheimlich, il perturbante freudiano. Del resto, Caetano Veloso afferma in una canzone che “non ho patria ho una matria”. Per la maggioranza degli emigranti di allora, ai quali non giunge né può arrivare un’informazione più circostanziata dei luoghi di emigrazione, l’America non può essere qualcosa di tangibile, concreto, pratico. L’America è sogno materializzato, ad occhi aperti, un sogno diurno, Tagestraum, per definirlo con la metafora del testo freudiano. È probabile, quindi, che il “sogno americano o italo-americano”
4 rappresenti la coincidenza di vari piani di proiezione. Un piano messianico e religioso, inizialmente: una specie di riscatto per i secoli di indigenza etica vissuti. Un piano sociale e politico, che sposta le rivendicazioni del secolo XIX dagli obiettivi sociali in patria a quelli esterni, dalla lotta di classe alla lotta per la conquista della terra. Finalmente, si può presumere la dimensione psicanalitica, un piano nuovo o metaforico (dato che si tratta di un´ipotesi applicata a una collettività e non di una pratica psicanalitica vera e propria): il sogno esplicitato e rappresentato che maschera una realtà culturale e familiare ambigua, ma che nasconde crepe e ferite, risultato di uno o più traumi. Il sogno verbalizzato e pubblicizzato come forma di repressione o rimozione cosciente delle fratture vissute, che sono però sotto gli occhi di tutti, nella realtà personale del soggetto, sia in quella sociale e storica: una vera e propria catastrofe che si è abbattuta sulle popolazioni italiane, immediatamente a ridosso della costituzione dello stato unitario.
“L’altro figlio”, una novella di Luigi Pirandello di alcuni decenni successiva
5, offre nuovi spunti di riflessione su questo tema. La protagonista Maragrazia è una vecchia e decrepita abitante di un villaggio sperduto della Sicilia; abbandonata da marito e due figli (emigrati a Rosario di Santa Fé, in Argentina), vive di stenti, a margine di un villaggio della Sicilia della fine del sec. XIX. La sua tragedia, messa in scena quotidianamente come il dramma dei Sei personaggi, è di voler stabilire un contatto con due dei suoi figli, emigrati da oltre un decennio, negandosi veementemente a credere alla dura realtà del loro silenzio (vergognoso, aggressivo, impietoso): da quattordici anni Maragrazia, analfabeta, detta a Ninfarosa, un suo doppio giovanile allegro e sfacciato, una lettera indirizzata ai due amati figli, che dopo il marito l’hanno abbandonata per emigrare in America. Ninfarosa, come il nome suggerisce maliziosamente, anche lei una vedova bianca, abbandonata a sua volta dal marito emigrante, a differenza della vecchia protagonista, non ha scrupoli morali e sostituisce le relazioni affettive strappate dall´emigrazione con altre occasionali, e per questo viene criticata dalla comunità. Per leggerezza o sapendo dell´impossibilità di una risposta, ma senza comunicarlo a Maragrazia, Ninfarosa quelle lettere non le scriverà mai, limitandosi a riempire di sgorbi i fogli affidati aleatoriamente a nuove leve di emigranti, aumentando l´ansia della vecchia Maragrazia. Sarà un giovane e volenteroso medico, estraneo all’ambiente siciliano, simbolo di una volontà positivista di conoscere, di aiutare, di capire, a scoprire che Maragrazia ha un terzo figlio, l’altro figlio del titolo, che le causa un enorme dolore e che è prodotto di un trauma. Questo altro figlio, significativamente senza nome nel racconto, è nato a seguito di uno stupro subito da Maragrazia durante l’arrivo dei garibaldini in Sicilia, nel 1860. Maragrazia, finalmente, si dispone a rivelare al medico la ragione della sua perturbazione: Canebardo, il nome significativamente da lei storpiato dell´eroe dei due mondi, getta sul passato un velo perturbante: è stato proprio Garibaldi a liberare quegli assassini e criminali, di cui uno ha usato violenza a Maragrazia. Una violenza letterale contro Maragrazia, una violenza forse metaforica sull’isola e l´Italia, caro prezzo per la sua unità. Apprendiamo che gli occhi di Maragrazia, svuotati, come se fossero senza memoria, in realtà nascondono la violenza terribile da lei subita, che lei ancora non è stata in grado di accettare e di elaborare. La storia si ripete, ripetizione di un sintomo nevrotico, riflesso del trauma causato dalla nascita dell’altro figlio, frutto di una violenza, ma mai accettato. L’incipit del racconto (“C’è Ninfarosa...”), gli stessi rintocchi che il lettore immagina a partire dalla lettura, risuonano forti, poiché nel silenzio profondo, accentuato dalla forza allusiva del titolo, si apre uno squarcio sulla realtà drammatica del meridione e dell’emigrazione. Senza preamboli, l’attenzione si concentra immediatamente sulla catastrofica realtà di Maragrazia, il cui nome è cratiliano – come molti dei personaggi di Pirandello e sottintende tutto un programma. Si direbbe che Maragrazia è il prototipo di quei prigionieri dei campi di concentramento votati già a scomparire, i mussulmani, di cui parla Primo Levi, con cui “i vecchi del campo designavano i deboli, gli inetti, i votati alla selezione”6 e, più tardi, Giorgio Agamben (Quel che resta d´Auschwitz). “Gli occhi chiari – di Maragrazia – apparivano come lontani, quelli d’un infanzia senza memorie” (op. cit., p. 31).
Maragrazia è, dunque, senza volontà, senza più obiettivi nella sua vita: si aggrappa alla pura ripetizione di un atto di redenzione impossibile e inefficace. Il curioso e volenteroso medico senza nome, estraneo all’ambiente siciliano, simbolo di un anelito positivista di conoscere, verbalizzare e scrivere, è un testimone privilegiato del dramma che viene vissuto dalla protagonista e da quell´esercito di vittime dell´emigrazione: il medico come rappresentazione figurata del lettore, che è coinvolto suo malgrado e che deve operare una scelta, prendere posizione, far la parte del´ermeneuta-analista, realizzando una regressione al passato doloroso.
Risulta doppiamente emarginata, dunque, Maragrazia, per effetto dello stupro e dell’emigrazione (fuga, esilio) dei familiari che l’hanno abbandonata. L’intrigo del testo è legato al carattere forte di una lettera presente ma effettivamente non scritta, anche se reiteratamente citata, di una memoria vuota che contiene però un passato incombente e lo rappresenta tramite l’assenza, il silenzio, il vuoto. I miti dell’America e di Garibaldi-Canebardo sono svuotati, afflosciati. La loro realtà vera e amara si rispecchia nel volto di Maragrazia che “pareva un mucchio di cenci [...] La faccia giallastra era un fitto reticcio di righe, in cui le pàlpebre sanguinavano, rovesciate, bruciate dal continuo lacrimare...” (ib.). Gli scarabocchi senza senso sulla carta, i ghirigori tracciati da Ninfarosa rappresentano forse l’impossibilità di stabilire la comunicazione, ma anche la sollecitazione che il testo rivolge al lettore, perché scelga un’interpretazione, perché intraprenda una ricerca del senso. L’emigrazione senza ritorno viene simbolizzata dalle lettere senza risposta.
Occorre riconoscere che scrittura (o rappresentazione) e ripetizione rappresentano due degli elementi del trauma, tema freudiano per eccellenza
7. Maragrazia continuerà a scrivere ai figli e ripetere il suo movimento circolare ed il suo trauma non verrà effettivamente superato. Se lo studio del trauma si identifica nella pratica psicanalitica con la sua presentificazione, con una regressione che permetta una difesa, anche se a posteriori e, quindi, una sua elaborazione. Un´ipotesi da considerare è che anche nello studio dei fattori culturali avviene una certa regressione (qui usata come metafora dell’interpretazione). Poiché è tramite questa visione a posteriori che il trauma può essere fatto ‘rivivere’ e può essere verbalizzato, primo passo verso l’eliminazione dei suoi sintomi8. Ciò suggerisce che la letteratura e la lettura possono rappresentare – metaforicamente – una cura tramite la parola, qualcosa che Walter Benjamin aveva già accennato in un suo sintomatico racconto9. In questo senso, il trauma potrebbe indicare – per analogia – un nodo centrale per analizzare la questione dell’identità italiana, a partire dal tema dell´emigrazione, senza la pretesa di voler risolvere l´insieme dei problemi che possono aprirsi: superando però gli stereotipi della sedimentazione degli strati culturali, delle eredità storico-archeologiche, del peso del passato.
L’emigrazione è, in fondo, la prima grande radicale, inappellabile sconfitta del giovane stato unitario. Ciò che doveva diventare patria – un concetto familiare – tramite il processo d’espulsione violenta realizzatosi con l’emigrazione di massa, diviene ‘non familiare’, perturbante e, quindi, unheimlich, secondo uno slittamento semantico che Freud indaga, al momento del suo studio sul concetto di unheimlich, del 1919. Si può dire che esiste anche un processo del ritorno del rimosso (cioè grosso modo l’affiorare di ciò che veniva ‘ricordato’ incoscientemente, analogo al ricordo incosciente di Maragrazia). La protagonista non riesce a elaborare il suo trauma, nella novella di Pirandello, non perché non riesce a comunicare con i suoi familiari oltre Oceano. Maragrazia non è in grado di esprimere tramite parole il suo dolore, il suo sdegno, la sua vergogna, la sua perdita d’identità e per questo è incapace di comunicare e viene respinta al margine della vita sociale del suo paese. Reinterpretare l’episodio dell’emigrazione non significa cambiare radicalmente la prospettiva della storia italiana, ma ristudiarne i presupposti, verificarne le responsabilità, comprenderne le dimensioni, esplicitarne i nodi: rendere un necessario omaggio ai morti, agli sconfitti, agli sradicati. Realizzare un lavoro di lutto, anche questo in senso freudiano. Perché senza lutto non è possibile eliminare i sintomi del passato traumatico, un passato in cui, secondo la 7° “Tesi sul concetto di storia” di Walter Benjamin: “Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbárie”
10. Esiste, certo, una storia d’Italia, dello stato italiano, degli italiani, della lingua italiana, dei linguaggi d’Italia, come hanno affermato diversi autori, partendo da diverse prospettive. In questo quadro, il concetto di trauma, la questione dell´emigrazione dovrà essere considerata sempre un vero e proprio trauma, in senso freudiano, come qui si accenna? L’ipotesi di lettura appena accennata vuole proporre il concetto di trauma freudiano come un’analogia produttiva, quasi una metafora. Il trauma è frattura, rottura. Riconoscerne l´esistenza, anche solo in forma metaforica, può liberare delle forze creative che possono contribuire a elaborare un nuovo concetto d’identità.
Queste brevi considerazioni vogliono essere un contributo a una lettura del problema dell’identità. Non si tratta di considerazioni statistiche sull’emigrazione, né di una visione sociologica, bensì di una mera applicazione di un principio dell’etica della lettura
11, ma qui applicato a un contesto diverso. L’atto della lettura può essere inteso come un agire12 poiché la lettura afferma la centralità del lettore e può meglio sfruttare il testo, un debito grande questo dell’intera tradizione occidentale nei confronti della tradizione ebraica. Tramite l’accentuazione del ruolo dell’oralità e del conseguente conflitto fra oralità e scrittura, infatti, la tradizione ebraica afferma la necessità di una scelta, fondamento di qualsiasi etica non normativa, e accentua radicalmente il ruolo del lettore: “600 mila sono le interpretazioni ammesse (del testo biblico), e cioè tante quanti sono stati gli ebrei che hanno assistito alla Rivelazione…”, come afferma Gerschom Scholem nel raccontare il mito del Golem13. Una lettura, questa, che vuol partire dal punto di vista di fuori, cioè dalle Americhe e, quindi, accetta in parte una sua estraneità, una forma di guardare in sé stessi, nella propria identità, da un fuori che è dentro la nostra tradizione.
In un quadro di Böcklin intitolato Melancolia (oggi presso il Museo di Basilea), la malinconia è rappresentata da una donna in nero con uno specchio davanti, ma lo specchio è coperto da un panno nero
14. Di questa immagine si prendano strumentalmente solamente gli elementi simbolici più visibili: una donna in nero (il lutto), lo specchio (l’immagine riflessa, la riflessione), il panno nero (che suggerisce un possibile velamento di un elemento presente). La definizione dell’identità del soggetto in psicanalisi può essere presa come metafora della sua identità sociale e storica, salvaguardando le evidenti differenze. L'identità è qualcosa che non preesiste al soggetto, ma è frutto di una costruzione. In Lutto e Melancolia, Freud afferma che l’identità nasce tramite una costruzione violenta e dispendiosa: la minaccia di perdita dell’oggetto d'amore provoca una introiezione dell'oggetto, allo scopo di salvarlo. Non esisterebbe, dunque, identità senza questo processo di acquisizione. Inoltre: ogni persona è costituita da tutti gli oggetti, o frammenti di oggetto, con cui ha stabilito un legame affettivo, sin dalla sua vita infantile. Tutti gli oggetti mentalmente salvati dalla perdita, e internamente trattenuti, costituiscono un mosaico che sarà poi l'io della persona, sulla base di tutti coloro che ha incontrati e perduti. In fondo, la civiltà umana nasce col culto dei morti: la considerazione sulla morte è elemento per la definizione di ciò che è umano. “La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità”, dice Walter Benjamin, nel testo “Il narratore”. Ed è proprio una considerazione sulla morte quella che apre un modello di letteratura qual’è il Decameron di Boccaccio. Quasi una riflessione che dalla morte, dalla visione del corpo morto che cade o viene messo sotto gli attoniti occhi dell’osservatore medievale15, passa all’esame del corpo vivo, del corpo erotico, dello stesso testo del Decameron. Paradossalmente dunque, si può dire: senza perdita, senza dolore, non si costituisce identità.
Proporre un’analogia fra visione psicanalitica e considerazioni antropologiche, storiche o letterarie non è arbitrario: come antropologi, semiologi, critici letterari, sociologi ci troviamo a confrontarci con la tradizione, la memoria fatta invariabilmente di testi scritti e interpretazione. Secondo quanto ha affermato il linguista Jacobson: “Linguista sum: linguistici nihil a me alienum puto”, cioè sono un linguista e niente di ciò che appartiene alla linguistica mi è estraneo. In ogni campo del sapere siamo confrontati con il problema della lettura, un atto ermeneutico che stabilisce una tensione, una differenza fra testo e sua interpretazione, come se fosse fra partitura e sua esecuzione, fra scrittura e oralità. Un atto che sancisce la nostra libertà di interpreti e che è fondamento di un’etica della lettura.
Come glossa a questo testo, si valuti una citazione da un testo di Walter Benjamin: “Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo ‘come esso è stato di fatto’. Significa appropriarsi di una reminiscenza, così come balugina nel momento del pericolo... Il pericolo minaccia tanto l’esistenza della tradizione, quanto coloro che la ricevono”
16. a) Questa affermazione non mette solamente in discussione la nota tesi dello storico Leopold von Ranke, da Benjamin espressamente citata. Rigetta anche altre concezioni della storia, nella misura in cui la funzione dello storico o dell’ermeneuta, in un certo senso, è quella di fornire i paradigmi per un’interpretazione del passato, a partire dalla supposizione che esista o meno un unico passato, che è quello che dovrà essere rievocato. b) Benjamin suggerisce nel suo percorso un’articolazione: frammentazione e posteriore ricomposizione. La storia non ha valore senza questa articolazione che è, fondamentalmente, una lettura, un’interpretazione. c) Appropriarsi di questo passato non è un compito semplice. Diviene un atto di forza. È necessario un determinato atteggiamento, si mette in discussione il rapporto con la proprietà (della storia, delle cose). Esiste, all’orizzonte, un conflitto. d) Il ricordo (o la reminiscenza) balugina nel momento del pericolo. È possibile pensare a un momento del legame tra questa articolazione e il lavoro relativo al trauma. Il compito dello storico e quello dell’ermeneuta possono essere visti come ricerca di sparsi brandelli, di testimonianze e ferite che caratterizzano l’inconscio e sono responsabili per i sintomi nevrotici? “Solamente l’umanità redenta può appropriarsi totalmente del suo passato”, dice Benjamin17. Quando sarà possibile riconoscere il passato? L’immagine di un’umanità liberata è, evidentemente, in prima lettura un’immagine che evoca l’idea del messianismo18. A partire da una lettura di Freud, però, si potrebbe pensare a un’umanità che presenta, espone, indaga, convive, entra in conflitto e, finalmente, riscatta, dopo aver realizzato una rilettura. ‘Ricostruisce’ il proprio passato rimosso e, suo tramite, si libera (un processo che comincia a partire dal momento della lettura e dell’interpretazione posteriore). Un cammino metaforico, appunto. Una lettura.
Note
1Parte del testo è stato pubblicato in: Cultura italiana e cultura degli italiani. [Atti dell’incontro internazionale promosso dal Ministero degli Affari Esteri. Roma, Palazzo Firenze, 14 dicembre 2000], Roma, Adn Kronos libri, 2002, pp. 71-78.
2 Citato da Portinari, F., Intr. a De Amicis, E., Oceano. Milano, Garzanti, 1994, p. XVII.
3 “Als große Teuerung ins Land kam, konnte er das tägliche Brot nicht mehr schaffen”: “Quando intervenne un forte aumento dei prezzi [un´inflazione], non poteva comprare più il pane quotidiano”, ci dice il testo sul comportamento del padre dei due bambini della favola.
4 Martelli, S. (a cura di), Il sogno italo-americano, Napoli, Cuen, 1998.
5 Pirandello, L., “In silenzio”, in Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 1984. Proprio questa novella, che è del 1923, è stata trasformata liberamente in trama di un episodio del film Caos, dei fratelli Taviani.
6 Levi, P., Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1976, p. 111.
7 Freud, S., Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa, 1896, vol. II, pag. 308 “ … i nostri malati isterici soffrono di reminiscenze. I loro sintomi sono residui e simboli mnestici di determinate esperienze (traumatiche)… Tutti gli isterici e i nevrotici non solo ricordano le esperienze dolorose del loro remoto passato, ma sono ancora attaccati ad esse emotivamente; non riescono a liberarsi del passato e trascurano per esso la realtà e il presente. Questa fissazione della vita psichica ai traumi patogeni è uno dei caratteri più importanti e praticamente più significativi della nevrosi”.
8 Uso qui parte dell’argomentazione contenuta in Felman, S., “Education and crisis”, in Felman, S. e Laub, D., Testimony: Crisis of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History, New York, Routledge, 1992. Il senso dell’argomentazione da me sviluppata è che la psicanalisi possa rappresentare una metafora dell’interpretazione, non la sua mimesi.
9 Benjamin, W., “Erzählung und Heilung” (Narrazione e cura) in Benjamin. W., “Gesammelte Werke”, Frankfurt a. M, Suhrkamp, Bd IV, 1, p. 430.
10 Benjamin, W., “Tesi di filosofia della storia”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Solmi, R., Torino, Einaudi, 1962, p. 79.
11 Si veda, a questo propósito: Hillis Miller, J., The Ethics of Reading, New York, Columbia University Press, 1987, anche se il concetto di etica della lettura sviluppato dal critico nordamericano è differente da quello che viene accennato qui.
12 Ricoeur, P., Du texte à l'action. Essais d'herméneutique II, Paris, Seuil, 1986.
13 Scholem, G., Major Trends in Jewish Mysticism. New York, Schocken, 1995.
14 Devo questo rimando a un testo di Benvenuto, S., “Narcisismo e malinconia” in http://www.forumlousalome.org/Narcisismo%20e%20malinconia.htm
15 Come nel Trionfo della morte attribuito a Buffalmacco, enorme affresco nel Camposanto monumentale di Pisa. Si veda, a questo proposito: Battaglia Ricci, L., Ragionare nel giardino: Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della morte, Roma, Salerno, 2000.
16 Benjamin, W., Op. cit. Sul concetto di storia, tesi 6 (mia trad.).
17 Benjamin, W., Op. cit., tesi n. 3.
18 Scholem, G., Le messianisme juif, Paris, Calmann-Lévy, 1974, p. 415: “La parole de Dieux peut être à l’infini objet d’interprétation”.
Bibliografia
Agamben, G., Quel che resta d’Auschwitz, Milano, Bollati Boringhieri, 1998.
Battaglia Ricci, L., Ragionare nel giardino: Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della morte, Roma, Salerno, 2000.
Benjamin, W., “Erzählung und Heilung” [“Narrazione e cura”] in Benjamin, W., “Gesammelte Werke”, Frankfurt a. M, Suhrkamp, Bd IV, 1.
_________________. “Tesi di filosofia della storia”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Solmi, R., Torino, Einaudi, 1962.
Benvenuto, S., "Narcisismo e malinconia", Scibbolet, anno III, n. 3. 1996, pp. 35-56, consultabile in
http://www.forumlousalome.org/Narcisismo%20e%20malinconia.htm
Felman, S., “Education and crisis”, in: Felman, S. e Laub, D., Testimony: Crisis of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History, New York, Routledge, 1992.
Hillis Miller, J., The Ethics of Reading, New York, Columbia University Press, 1987.
Levi, P., Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1976.
Martelli, S. (a cura di), Il sogno italo-americano, Napoli, Cuen, 1998.
Pirandello, L., “In silenzio” in Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 1984.
Portinari, F., Prefazione in De Amicis, E., Sull’Oceano, Milano, Garzanti, 1994.
Ricoeur, P., Du texte à l'action. Essais d'herméneutique II, Paris, Seuil, 1986.
Scholem, G., A mística judaica (Major Trends in Jewish Mysticism), São Paulo, Perspectiva, 1978.
___________________, Le nom et les symboles de Dieu dans la mystique juive, Paris, Cerf, 1989.
___________________, Le messianisme juif, Paris, Calmann-Lévy, 1974.

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