terça-feira, 8 de junho de 2010

UNA TRADUZIONE AGONISTICA A proposito della traduzione del nome di Dio

Pubblico qui un mio testo, sul problema della Traduzione del nome di Dio. Si tratta di un testo già pubblicato dalla rivista Libri e riviste d´p Italia del ministero della Cultura italiana, nel lontano 1998.

Il senso dell´articolo è che esitono fondamentalmente due vertenti della tradizione le due vertenti della tradizione occidentale in merito alla valutazione sulla scrittura:

quella platonica e quella che viene dalla tradizione ebraica o della Cabala (Cabala e crítica di Harold Bloom). Queste ipotesi sono legate alla visione di Jacques Derrida (Grammatologia) e di altri (Havelock, Ong, ...). Sostengo che in questo nostro mondo postmoderno, nonostante tutte le istanze decostruttive o relativizzanti , è possibile difendere un´ipotesi che fra lettore e testo si instaura un conflitto, in cui il lettore puó avere il sopravvento (e dunque la sua ipotesi interpretativa trova una fessura nella macchina del testo e lo fa espplodere) oppure è il testo che prevale. In questo caso, il lettore si sottomette al testo e alla autoritá che da esso emana. Ma affermo che sia il lettore che il testo mantengono un´identità, per poter realizzare il lavoro di interpretazione. Non si verifica una dispersione del senso. Ogni lettore legge un testo (come una partitura) e dà la sua interpretazione. Il testo è slegato dall´autore (non esiste o non è rilevante "l´intenzione dell´autore, perché l´autore ha cessato completamente il controllo sul testo, quando il testo viene publicato).La lettura equivale a un lavoro doppio di identificazione completa e, allo stsso tempo (paradossalmente) di distanziamento completo. Questo procediumento può portare a perdere il controllo di sé e a impazzire, se non viene fatto con un certo equilibrio.

ed ecco il mio articolo:

UNA TRADUZIONE AGONISTICA
A proposito della traduzione del nome di Dio
Nel caso della traduzione del nome di Dio ci si trova precipitati inesorabilmente nel groviglio spesso e inestricabile, uno 'gnommero', nella densa e colorata espressione del genio linguistico di Carlo Emilio Gadda, un magma angosciante. La stessa definizione del tema, la sua formulazione, ne condiziona in un certo senso il risultato, al punto da inficiarne irreparabilmente la pretesa obiettiva. Si tratta di un tipico groviglio ermeneutico, la cui soluzione assoluta, evidentemente, non esiste. Secondo una lungimirante intuizione di Roland Barthes, che raccomanda di seguire il principio della Mathesis singularis , cioè della profonda, epidermica aderenza della spiegazione al testo, una quasi tautologia. Un critico contemporaneo nordamericano coraggioso e autorevole, ha affermato: "Non ci sono interpretazioni ma solo mis-interpretazioni, così ogni forma di critica è una poesia in prosa." L'analisi letteraria diviene, tramite questa sua concezione, una metafora della traduzione come problema specifico dell'interpretazione e, seguendo il ragionamento del critico americano, attribuirle un valore nel conflitto, nella tensione, nello scontro feroce fra autore e suo precursore o meglio tra mondi in bilico su un abisso insondabile e impossibile che è quello della interpretazione autentica, originale, primeva, una. Traduzione può voler significare due movimenti contraddittorii: da una parte dovrà mettere in movimento le energie per realizzare uno scontro fra le concezioni racchiuse in universi linguistici comunicanti (in una concezione intertestuale della letteratura, non esiste un testo che non si leghi ad un testo ad esso precedente o futuro); dall'altra, dovrà fare i conti con tradizioni separate, viste dal punto di vista dell'universo culturale con il quale convivono, grosso modo quella dell'orizzonte "nazionale" così come è stato delineato dal romanticismo tedesco . L'agonismo, a cui allude il critico citato nel titolo di uno dei suoi libri evidenzia questa concezione impudica, spuria, che nella lettura della psicanalisi ha trovato il grande momento ispiratore. Naturalmente l'approccio letterario al problema della traduzione può voler eludere una parte del problema (il vero problema?), che da alcuni può essere sentito come squisitamente linguistico e sul quale mi soffermerò più tardi. In un altro testo della Tetralogia dell'Influenza già citata, e cioè Una mappa della dislettura [A Map of misreading], Bloom prende posizione decisamente, in maniera dichiaratamente polemica, sull'approccio da lui scelto sul problema dell'interpretazione :
"Dopo Nietzsche e Freud, è impossibile ritornare interamente ad un modo d'interpretazione che cerchi di restituire significati ai testi. Eppure, anche il più sottile dei 'decostruttori' nietzschiani contemporanei di testi deve ridurre tali testi, in una digressione o fuga dalla psicologia e dalla storia. Niente impedisce a un lettore con le mie preferenze di risolvere tutti gli elementi linguistici di un testo letterario nella storia e similmente di rintracciare tutti gli elementi semantici del discorso letterario in problemi di psicologia."
L'opinione di Bloom è radicale, una forma diversa ma analoga a quella di Barthes, per affermare una sua Mathesis singularis. Come filo rosso nei suoi scritti corre, del resto, la consapevolezza di una sua lettura revisionista di Sigmund Freud, inteso come grande scrittore e traduttore (o saccheggiatore) dei miti letterari e culturali della tradizione occidentale, nella quale noi siamo immersi così profondamente, al punto da non riuscirne a emergere incontaminati, al punto da non poterne avere una visione obiettiva. La lettura di Bloom è "revisionista", in un senso diverso da quello cui noi siamo abituati dai dizionari o dalla pratica culturale : revisionismo per Bloom è più di una visione del mondo: riassume la nostra stessa maniera di pensare, poiché:
"il lettore più forte è quello che revisiona talmente, da fare di ogni testo un testo tardivo, facendo per contro di sé come lettore qualcosa di aurorale, di più iniziale e nuovo di quanto qualsiasi testo completo potrebbe mai sperare di essere."
In questo spirito e facendo mia una preziosa raccomandazione di Spitzer , in pratica una excusatio non petita, mi accingo a tracciare le coordinate del problema.

Si tratta della traduzione del verso 3,14 dell'Esodo, quella che nella versione a noi arrivata dei "settanta" dice: "Dio disse a Mosè: Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi> . Ricordiamone per brevi cenni il contesto: l'Esodo ci presenta la storia di Mosè, abbandonato dai propri genitori ebrei, neonato, in un cesto sul Nilo, per evitargli la morte decretata dal faraone. Raccolto (per curiosa coincidenza) dalla stessa figlia del faraone, viene educato a corte e, successivamente, acquisisce (inspiegabilmente) coscienza della sua apparteneza al popolo ebraico, al punto da arrivare a uccidere un egiziano "che colpiva [ ...] uno dei suoi fratelli" (Esodo, cap. 3, 11). Fuggito nel paese di Madian, ha una visione (il "roveto ardente"). Chi gli parla, si presenta dicendo: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" e gli attribuisce un incarico decisivo : "Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!" (corsivo mio). Visibilmente poco convinto della situazione che si trovava a vivere, Mosè esige ulteriori spiegazioni, che circostanzino l'incarico e gli diano una prova, un elemento su cui basare l'autenticità delle sue parole dinanzi al popolo ebraico. La domanda che rivolge al suo interlocutore è circa il suo nome: ". A questo punto, gli sarà data la risposta su cui verte questa piccola ricerca, la frase fatale, che in ebraico suona: 'Ehjeh 'asher 'ehjeh, la cui traduzione presenta i problemi che delineerò.

Il testo di questo capitolo dell'Antico Testamento ci suona molto familiare, poiché è fondante per la nostra cultura. Senza questa frase essa ci apparirebbe, probabilmente, orfana, monca, incompleta. Conviviamo con questo testo da sempre, prima di leggerlo, prima di discuterlo, senza avere, a volte, la possibilità di confrontarci realmente con esso, mai. Si tratta di un brano definitivamente classico della nostra tradizione, forse fra tutti il più classico (se è consentita la comparazione), analogo a quello del viaggio di Ulisse. L'uno, in un certo senso, ci dà una definizione, un punto fermo, una focalizzazione del problema delle nostre radici. L'altro simbolizza il viaggio nella nostra letteratura, il viaggio nel testo, il viaggio testuale . Un testo classico, si sa, contiene tutto: citazioni, intertestualità, testi (di altri autori) interi, testi iniziati e mai completati, allusione a testi possibili, inizi e finali di testi non ultimati, testi ancora mai pensati, del tutto ipotetici, impossibili; un testo classico contiene inoltre la lettura di altri testi, il loro commento, le nostre idee sul commento; infine, un testo classico esibisce le teorizzazioni sul valore relativo di ogni commento, idee su una rilettura nuova e, per restare nello spirito del commento che Foucault dedica all'enumerazione caotica di Borges all'inizio del suo Le parole e le cose, a volte, anche resti di una lista di letture ideali, la cui esistenza non sarà mai possibile verificare. Direi che un testo classico, di fatto, ci contiene. Un testo classico è un qualcosa nel quale noi viviamo. Un testo veramente classico, inoltre, deve permetterci di rigirarci tra le righe, mantenendo la nostra libertà (interpretativa) e così, ad ogni lettura, ci si presenta differente, o ci dà l'illusione di averne scoperto sfaccettature nuove, angoli reconditi poco esplorati, cammini evidenti, ma finora gelosamente celati, percorsi avventurosi nella linearità delle parole, ghirigori apparenti dietro ai quali si riflette un'antica (e a noi tanto necesssaria) saggezza. La differenza, con il curioso elenco di Borges citato da Foucault, forse, sta nel fatto che lui allude a "una certa enciclopedia cinese": E noi sappiamo che finge. A me sembra, invece, che un testo analogo noi lo abbiamo veramente, ed è, appunto, l'Antico Testamento: la nostra enciclopedia, quella occidentale, così classica e, ancora, tanto nascosta .

L'interpretazione che segue non ha la minima pretesa di tracciare linee, piani o orizzonti teorici, coerentemente con le premesse affermate. Semmai si vuole constatare che, assiomaticamente, la natura del problema che si è posto ai traduttori (sia linguistica che culturale o ideologica) ha condizionato, in maniera determinante, la soluzione trovata per un testo che ha avuto ed ha tutt'ora dei riflessi culturali, religiosi, ideologici al di là del suo valore specificamente letterario. Sull'autore effettivo della Bibbia a lungo si è discusso. Alla fine del secolo scorso la ricerca di studiosi (di formazione sopratutto tedesca) portò ad individuare vari "strati" del testo. L'ultima e (immancabilmente) più polemica e paradossale di queste opinioni è nuovamente quella di Harold Bloom che, in The Book of J, sostiene l'allarmante e affascinante tesi che l'insieme dei brani convenzionalmente denominati "J" erano stati effettivamente scritti da un'unica persona: una sacerdotessa della corte del re Salomone! Solo l'interpretazione successiva e la sovrapposizione di brani tratti da altre tradizioni ne avrebbero fatto un testo eminentemente religioso.
Una prima sorpresa sarà quella di constatare che l'episodio del "roveto ardente" non contiene nella versione jahvista la richiesta del nome da parte di Mosè, né la risposta che è stata citata . Il problema del redattore "J" non è tanto la certificazione del nome (e dunque) il problema dell'identità del suo interlocutore. Mosè, infatti, afferma: "Loro non mi crederanno". L'argomento viene dislocato su un tema diverso, rilevante, ma non identico: "Per favore, mio Signore [...] non possiedo il dono della parola [...] e da quando hai parlato al tuo servo, continuo ad avere la lingua pesante [...]" (ib 160-161). L'ultimo aspetto è tanto rilevante, da meritare un apposita considerazione nel saggio di Sigmund Freud Mosè e il monoteismo , che traccia delle conclusioni sicure: "Mosè parlava un'altra lingua che non poteva comunicarsi con i semiti neo-egiziani senza l'ausilio della traduzione." Ciò suona a Freud una conferma della tesi di questo suo scritto: "Mosè era un egiziano". Nel suo libro l'ipotesi da lui difesa piuttosto enfaticamente è che Mosè era un alto dignitario della corte di Akhenaton che, pur di non abbandonare la fede monoteista, si è messo alla testa di un popolo di schiavi liberatisi e ha trasmesso loro le proprie conoscenze linguistiche e religiose. Si tratta di una tesi di tutto rispetto, che spiega diversi punti oscuri, primo fra i quali la enorme e sospetta coincidenza del sorgere, in un raggio di poche centinaia di chilometri e di poche decine di anni, di due religioni monoteiste, pur molto differenti: quella di Akhenaton e quella di Mosè.
Tornando alla nostra sorpresa sulla omissione dell'episodio del nome nella versione jahvista, dovremo concludere che la comunicazione relativa al nuovo nome non doveva essere rilevante, poiché il nome già doveva essere era conosciuto (indipendentemente dal fatto che si trattasse di Jahvè o no). Non esiste altra spiegazione possibile, poiché la comunicazione del nome, che nella cultura e religione egiziana aveva tanta importanza , in quella ebraica doveva averne una decisiva. Come si giustificherebbe quel precetto della Torà che suona: "Non pronunzierai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronunzia il suo nome invano." (Esodo cap. 20, 7). Il groviglio continua e, se possibile, più spesso di prima. Come volevasi dimostrare. Quale sarà il nome che dovrà essere invocato? Gerschom Sholem, il più grande studioso contemporaneo del misticismo ebraico, attribuisce al profeta Zaccaria la seguente affermazione:
"Il nome di Dio attesterà un giorno l'unicità di Dio e lo testimonierà in tutte le lingue e presso tutti i popoli. Un giorno muterò la lingua dei popoli in una lingua più pura perché possano invocare il nome di Dio all'unisono. Ecco, il senso originale messianico del nome divino."
Si potrà obiettare che nello stesso Pentateuco (per restringere l'analisi al testo del Vecchio Testamento ebraico) Dio aveva ricevuto diversi nomi: Jahweh, El Shaddai, e altri ancora.
La seconda sorpresa sta nella risposta, del tutto enigmatica, contenuta in Esodo, 3, 14: nessuno fra i nomi da noi conosciuti viene usato nella risposta, nessun nome proprio . La frase ha un suono quasi oracolare. Appare plausibile, secondo l'ipotesi avanzata tra gli altri da Freud, che il Dio di Abramo diviene in questo momento il Dio di Mosè, giustificando quindi un'identificazione che prima non doveva esistere o non doveva essere conosciuta, tranne a pochi iniziati (il che, grosso modo, si equivale). Il suo nome, quindi, non è un nome proprio, anche perché "[ciò presupporrebbe] l'esistenza di altri dèi. Il monoteismo puro, invece, non dà nessun nome a Dio," . La novità nell'atteggiamento di Mosè si chiarisce in un altro nebuloso episodio, che costituisce una terza sorpresa. Il motivo per cui Mosè viene accolto come leader del popolo e interprete del dio, del suo dio, del nuovo dio, del dio che gli aveva confidato il suo nome, è legato alla natura "segnica" di questo dio, al suo convertirsi, tradursi in linguaggio:
"Mosè e Aronne andarono e adunarono tutti gli anziani degli Israeliti. Aronne parlò al popolo, riferendo tutte le parole che il Signore aveva dette a Mosè, e compì i segni davanti agli occhi del popolo. Allora il popolo credette." (Esodo, 4, 28, corsivo mio)
Il popolo crede solamente quando vede dei segni, di cui però non capisce il significato. Solo Mosè potrà tradurli; e era Aronne il suo interprete (e traduttore) designato. L'elemento caratteristico della nuova religione ebraica è un dio indissolubilmente legato a una maniera astratta di esprimersi, al potenziale sprigionato dal sistema alfabetico della lingua ebraica (rispetto ai geroglifici egiziani, ad esempio). La scena dell'investitura, quella che ha impresso un marchio indelebile fino ai nostri giorni, è quella del capitolo 19 dell'Esodo: Mosè avrà un incontro "faccia a faccia" con il Signore, ma riuscirà a comunicare l'incomunicabile, a tradurre l' intraducibile: il suo incontro avverrà "faccia a faccia" con il mistero insondabile. Nessun altro potrà testimoniare, né contestare questa scena originata nella coscienza (o nella fantasia) di Mosè (o del poeta che l'ha elaborata, il ché per noi lettori tardivi in fondo si equivale). Mosè si conferma all'altezza della situazione. è un leader carismatico e come tale viene riconosciuto. La suspension of desbelief, ossia la fiducia del popolo ebraico, è totale, incondizionata: nelle parole di Aronne, così come in quelle (tradotte) di Mosè, così come in quelle (trasmesse) del Dio. Non tutti i traduttori, si noti, godranno di questo privilegio e, comunque, non in questa misura. La scena è sovraccarica di suoni e immagini forti, degna del Giudizio Universale, ed è invece solo l'aurora del nostro mondo moderno:
"Ed ecco al terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo che era nell'accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento incontro a Dio.
Il monte Sinai era tutto fumante perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace. Tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono."
Interessante notare, in questa scena, l'enfasi data all'aspetto auditivo (la voce di tuono di Dio). A. Momigliano critica implicitamente la tesi (sostenuta fra gli altri da Bultman), secondo cui "la conoscenza greca è fondata sull'occhio, mentre la conoscenza ebraica [...] è fondata sull'orecchio" . Personalmente ritengo si tratti, invece, di una tesi estremamente interessante e produttiva, da perseguire secondo il principio revisionista di Bloom, già citato. Non occorre infatti cadere in banali contrapposizioni razziali (che Momigliano pare tema, date le posizioni dell'autore della tesi che lui critica), quanto di stabilire alcune connessioni. Il legame che esiste, ad esempio, tra il concetto di conoscenza greco e neolatino e la visione: il nostro verbo vedere, testimoniato da una radice (indeuropea):
"WHEID largamente attestato, che definisce il 'vedere' come mezzo di conoscenza. Il perf[etto] significa , ed è attestato nelle aree indiana, greca, germanica, armena, slava, celtica, latina." e veda "dal sanscrito veda, forma sostantiv[ata]del perf[etto] veda 'io so', identico al gr[eco] (w)oida, al lat[ino] vidi e al ted[esco] weiss 'io so' "
Veniamo finalmente alla frase dell'Esodo 3, 14, che dovrà contenere, anche se enigmaticamente espressa, la risposta sul nome, e che spesso è stata tradotta con "Io sono colui che sono". Il filosofo tedesco Martin Buber, autore insieme a Franz Rosenzweig di una nuova traduzione della Torà ebraica (il Vecchio Testamento ) in tedesco, preferisce la dizione : "Io sarò presente come colui che sarà presente . Dice lo stesso autore:
"'ehjeh 'asher 'ehjeh '. Spesso viene interpretato come nel senso che l'interlocutore interpellato da Mosè definisce se stesso come colui che è o colui che è in eterno, colui che persiste immutabilmente nel suo essere. Ma questo sarebbe semplicemente un tipo di astrazione come di solito non avviene in periodi di crescente vitalità religiosa; il verbo, nella lingua biblica, non rende affatto questo significato di esistenza pura, ma significa accadere, divenire, esserci, esser presente, essere così e così, ma non essere in sè." (ib., p. 122)
Un grande pensatore di origine ebraica, Walter Rehfeld, ha dedicato, tra i molti altri, un ampio studio a questo tema, pubblicato con il titolo Tempo e religião .
"É tramite il verbo hayá que Dio si identifica, quando, al momento di ricevere la missione di liberare i figli d'Israele in Egitto, Mosè chiede quale risposta dovrà dare circa l'identità di chi gli aveva dato tale investitura. La risposta fu Ehyeh asher Ehyeh [...]: , o , o ancora . "
La traduzione della forma durativa del portoghese "irei-a-ser" e "virei-a-ser" e "farei" usati da Rehfeld nel suo testo ripropone seri problemi di traduzione. La traduzione in italiano potrebbe essere espressa tramite la seguenti perifrasi, la cui resa supera di molto il limite dell'inaudibile: "starò per diventare", oppure, letteralmente: "andrò a diventare" e "diventerò a essere" e "farò", (in questo contesto: "starò per fare"). Il tutto suona molto caricato, perché giustamente privilegia la resa del carattere imperfettivo dell'affermazione su cui mi soffermerò più avanti.
Il nome dell'interlocutore di Mosè è da considerarsi decisivo, sia se nel testo biblico riusciremo a scovarne una definizione convincente, sia che questa definizione non si trovi (confermando l'impossibilità di pronunciarne il nome), sia che la definizione si trovi, ma sia interpretabile in vari sensi, lasciando quindi un grande spazio alla scelta, a quello che potremo chiamare, in questo caso specifico, un aspetto del "libero arbitrio" del traduttore. La conferma di una qualsiasi di queste ipotesi o la plausibilità dell'insieme delle tre ipotesi apre lo spazio a una distorsione borgesiana della questione: trattandosi di un tema di tale importanza, la stessa formulazione della domanda, in sé, costituisce parte della risposta, poiché, nella formulazione già è contenuta in gran parte la risposta possibile, come in un assioma matematico. Se ci possiamo chiedere quale è il vero nome di Dio, e non scartiamo a priori la questione come uno dei tanti "falsi problemi", come uno dei problemi "non pertinenti", vietato dall'ortodossia interpretativa, del canone, dell'autorità, già ammettiamo la possibilità che le risposte possano essere ambigue, plurime, infinite. Vale qui la pena di ricordare due cose:
1. La Kabbalah, che etimologicamente vuol dire "tradizione" e si lega alla tradizione di esegesi orale e scritta del misticismo ebraico , può essere considerata una versione ebraica della retorica e come tale può essere rivalutata, liberandola dal velo brumoso di misticismo protoromantico che aleggiava su di essa, a partire dal suo uso rinascimentale cristiano. L'operazione potrebbe produrre gli effetti del polemico restauro degli affreschi della Cappella Sistina: colori sgargianti e grande sorpresa.
2. La stessa tradizione cabalistica, in fondo, è costruita attorno alla problematica di una definizione: essa si presenta come la vera tradizione, assioma che porta a un paradosso estremamente produttivo: la Kabbalah è infatti tradizione orale relativa a testi scritti (ed altamente astratti, come lo è il Sefer Yetzirah), ma è, allo stesso tempo, una tradizione scritta di momenti essenzialmente orali. Si veda, ad esempio, il momento fondante già citato (Esodo 4, 28), quando Aronne traduce i segni comunicatigli da Mosè, ed il popolo dimostra fiducia nelle sue capacità traduttorie. Dentro alla tradizione cabalistica, una sua corrente più radicale è la cabala luriana secondo la quale:
"ogni parola della Torà possiede seicentomila , ossia, stratificazioni di significato, o entrate, una per ognuno dei figli d'Israele che si trovavano ai piedi del Monte Sinai. Ogni faccia si dirige unicamente a uno di loro; e unicamente questi potrà vederla e decifrarla. Ogni essere umano ha il suo proprio e unico accesso alla Rivelazione. L'autorità non risiede più in un singolo e inequivocabile della comunicazione divina, ma nella sua infinita capacità di assumere nuove forme. "
Possiamo aggiungere che il messaggio che Mosè trasmette è chiaro, solo nella misura in cui lo riteniamo tautologico, autofondante, il che significa anche limitato alla sua forma. L'idea è che Mosè trasmette un messaggio il cui contenuto è, in una certa misura, irrilevante (torniamo all'ipotesi del falso problema), poiché quello che per noi conta, nella economia della lettura, è il suo effetto sulla trama: non sappiamo quello che effettivamente sia stato detto da Dio a Mosè (si trattava di un "faccia a faccia", probabilmente incomunicabile); non sappiamo quello che Mosè abbia detto a Aronne (l'ha detto in lingua egiziana, ammettendo l'ipotesi di Freud?); non sappiamo quello che Aronne ha detto al popolo ebraico, o meglio, abbiamo alcune, poche frasi, di cui non conosciamo l'intero contesto, tranne le efficaci pennellate del nostro redattore. Sappiamo però che si è scatenato un effetto enorme: il testo è divenuto, grazie alla sua forza poetica (ipotesi di Bloom) o retorica , un testo fondante della nostra tradizione culturale. L'effetto del messaggio (indice della capacità di persuasione di Mosè nei confronti del suo popolo o della credulità di quest'ultimo) è la libertà conquistata, la traversata del deserto, l'affermazione di un utopia, la fondazione di uno stato.
Non tutti, però, vissero felici e contenti. Freud, in una maniera singolarmentre autolesionista per la tradizione ebraica a cui apparteneva, sostiene di essersi trovato di fronte all'evidenza di una fine tragica dell'uomo Mosè, ucciso dal suo stesso popolo alla vigilia dell'arrivo alla terra promessa. Preparando il lettore alla terribile rivelazione dell'orribile gesto, ci affida preziosissimi elementi del suo metodo ermeneutico-poliziesco, creando una vivacissima e letteraria atmosfera di attesa :
"Saltano agli occhi quasi in tutto [il testo] vistose omissioni, ripetizioni fastidiose, contraddizioni palesi, segnali che ci tradiscono cose, la cui comunicazione non era stata intenzionale. La Entstellung di un testo è simile a un assassinio. La difficoltà non sta nell'esecuzione dell'atto, bensì nell'eliminazione delle tracce. Alla parola Entstellung occorrerebbe attribuire il doppiosenso che rivendica, anche se oggi non se ne fa uso. Entstellung non dovrebbe significare solamente: modificare nella sua manifestazione, bensì anche: portare in un altro luogo, dislocare altrove. Nel caso delle Textentstellungen [deformazioni del testo], troveremo certamente nascosti in un brano qualsiasi il represso [das Unterdrückte] e il denegato [das Verleugnete], anche se modificati e strappati al contesto.
Ma questa della distorsione e dell'assassinio è già un'altra storia. È difficile seguire tutti i fili che si originano in questo momento tanto drammatico e produttivo. Tornando al momento citato. Assistiamo a una tripla comunicazione che coinvolge tre piani differenti: quello della psicanalisi (sostanzialmente incomunicabile), poiché ciò che nel "testo" del discorso psicanalitico viene ricercato è l'omissione, l'atto mancato, cioè un'assenza. Questo stesso piano, potrebbe però paradossalmente essere quello del misticismo, il cui orientamento è l'attribuire a un testo ciò che non c'è, ciò che il (lettore) mistico crea, aumentandolo a dismisura, sino a farlo prevalere sul testo originario. Un secondo piano potrebbe essere quello della storia o di qualsiasi altra visione "basata sui fatti", che riconosce al concetto di "realtà" uno statuto autonomo, indipendente dal linguaggio. Infine un terzo piano, che è quello della linguistica, della retorica e della letteratura, piani dove l'attenzione è concentrata sulla forma, sugli elementi del linguaggio, sui segni, sulle connessioni. Quest'ultimo piano è quello che a noi interessa di più. Naturalmente tra i tre piani c'è un incrocio costante di informazioni, approcci, connessioni. Nessuno dei tre si presenterà mai completamente indipendente dagli altri due. Difatti, nella letteratura è comune cercare ciò che nel testo è stato omesso (nel procedimento di H. Bloom, già citato, questo è uno degli aspetti essenziali) o attribuire al testo ciò che (apparentemente) non c'è o, infine, in una visione mimetica della realtà, paragonare i livelli di "realismo" in un determinato testo. Ma, se consideriamo la traduzione dell'episodio citato in Esodo 3, 14, troveremo che la comunicazione del personaggio-Mosè (tramite il personaggio-Aronne e tramite il testo del Vecchio Testamento) avviene sui tre piani, quasi a pari merito. Mosè, infatti, riferisce un episodio e un interlocutore suo personale (che gli appare "faccia a faccia"), un interlocutore della tradizione patriarcale (il Dio di Abramo, che simbolizza la tradizione, la storia) e, infine, il nome, tradotto al popolo, con la funzione retorica di convincere della possibilità dell'impossibile. Il nome di Dio (o la sua assenza, la sua ambiguità) viene quindi ad assumere la funzione di una metafora: una metafora delle metafore, che preannuncia e contiene tutte le altre: la traversata del deserto, la terra promessa e altri miti e, agli occhi di almeno tre delle tradizioni fondanti della cultura occidentale (ebraica, cristiana e islamica), regge l'edificio della piramide linguistica e concettuale della nostra cultura, cioè condiziona in maniera determinante il mondo concettuale, letterario, psicologico in cui viviamo.
"Si può intendere l'Esodo come un esempio di quella che oggi si chiama 'liberazione nazionale' "(Michael Walser: Esodo e Rivoluzione, p. 28). Un' altra versione accentua il carattere linguistico della lettura, connettendone la visione del mondo trasmessa ai problemi della struttura del linguaggio usato. E. Arcaini afferma giustamente che:
"il traduttore deve essere un linguista; anzi è il linguista che è nella migliore posizione teorica per essere traduttore, in quanto possiede gli strumenti di analisi del codice ed è in grado di tener conto dei fenomeni di cui tratta"
Dobbiamo quindi cercare nel nostro brano l'aspetto specificamente linguistico della questione e lo troviamo strettamente connesso con quello culturale. Si veda, ad esempio, l'interessante analisi antropologica di Jack Goody che si pone la seguente domanda: "In che maniera dipendono i sistemi cultuali dai loro modi di comunicazione specifici? "(op. cit., p. 13) e chiarisce: "Il fatto che la parola sia scritta [...] spiega la diffusione caratteristica delle religioni chiamate religioni universali (islam, cristianesimo e ebraismo" (ib. p. 14). In altre parole, si tratta qui dell'ipotesi più volte rielaborata, a partire dal Romanticismo tedesco, di un rapporto vincolante fra lingua e cultura. La risposta implicita alla annosa domanda riproposta da Sapir-Whorf , sta nel rapporto fra i due universi, quello linguistico e quello culturale e teoricamente non è definibile. Per noi, infatti, è divenuta essenziale la posizione del lettore che non è altro che la enfatizzazione del ruolo del 'libero arbirtrio', inteso nel senso della libera scelta del lettore-traduttore, che assume però la sua responsabilità. Una pietra miliare di un'etica della letteratura ancora tutta da indagare.
Nel suo ampio studio sul testo biblico già citato, Walter I. Rehfeld enfatizza una particolarietà sintattica della lingua ebraica, che assume un'importanza decisiva per la traduzione dell'Esodo 3, 14 preso in esame.
"La prima cosa che richiama la nostra attenzione è [...] il fatto che le flessioni verbali non significano solo che un'azione o un avvenimento si sono realizzati prima o durante il momento presente o si realizzeranno dopo di esso; [...] se un'azione o un avvenimento sono avvenuti appena un'unica volta e in uno spazio di tempo relativamente breve, al punto da essere visto come un tutto semplice e completo, senza poter distinguerne fasi costituenti al suo interno (perfettività) o se, al contrario, l'azione o l'avvenimento durano a sufficienza per concentrare l'attenzione sulla struttura temporale interna; se il processo sta iniziando, si sta sviluppando, si sta completando, se possiede fasi ripetute o ingloba un periodo relativamente lungo (imperfettività). Tali caratteristiche del tempo grammaticale sono chiamate 'aspetti'. Nella maggioranza delle lingue è possibile distinguere tra tempo e aspetto. Nell'ebraico biblico tale distinzione non è possibile [...] L'imperfetto ebraico ha pertanto un significato più ampio dello stesso termine applicato alle flessioni delle grammatiche greche e latine. Il 'perfetto' ebraico generalmente esprime un'azione conchiusa, completa e, pertanto, passata, anche se ancora si fa sentire nel presente e perfino nel futuro. L'imperfetto, al contrario, designa quello che sta per succedere, ma ancora non raggiunge la sua conclusione, il cui processo perdura nel presente e, forse, si estenderà al futuro."
Riunisco i brandelli dell'abbozzo di ipotesi che sto delineando:
1. Esiste un unico passo del Vecchio Testamento, in cui viene formulata a Dio la richiesta di identificarsi tramite il suo nome.
2. La risposta è enigmatica, poiché non contiene un nome proprio, bensì una frase oracolare, interpretabile in molti sensi diversi. Secondo Buber: "Come tutte le spiegazioni di nomi 'ehjeh 'asher 'ehjeh non è un nome, ma una frase realmente pronunciata" (M. Buber: op. cit.). Si può dubitare della sicurezza dell'affermazione quasi mistica di Buber (la frase è stata "realmente pronunciata"?), ma non si può negare che essa è presentata in un contesto in cui la sua natura oracolare e la sua enigmaticità appaiono plausibili, poiché sono frutto di una doppia traduzione (da Mosè ad Aronne e da questi al popolo ebraico).
3. Possiamo considerare la risposta da vari punti di vista, cioè che l'ambiguità le è inerente ed è intenzionale e ne costituisce il nucleo, o che si tratta di un falso problema, poiché l'assenza della risposta in sé è già una risposta, poiché volge i riflettori non più sul contenuto (il significato, il rispecchiamento mimetico della realtà), ma sullo stesso materiale linguistico, mistura di parole, suoni, spazi bianchi .
4. Se è effettivamente il modo imperfettivo ad esprimersi (secondo le considerazioni di W. I. Rehfeld citate), qualsiasi traduzione dovrà essenzialmente tenerne conto e farcene percepire la presenza in modo tangibile, solido, inequivocabile.
La scelta del tempo presente per la traduzione della frase in questione ("Io sono colui che sono") è certamente la più lontana di tutte le possibili soluzioni e non riproduce affatto l'effetto desiderabile. Al contrario di una risposta aperta ("sarò quel che sarò"), che un futuro del tutto enigmatico potrebbe darci (ma cosa vuole effettivamente dire questa frase al futuro? Indica una possibilità, una semplice ipotesi? Indicano la facoltà divina di creare?), il presente presenta una definizione lapidaria, ontologica, marmorea, pietrificata: "sono colui che sono" e, (ci viene spontaneo di aggiungere), colui che è stato, è e sempre sarà. La forza ideologica di un'interpretazione di Dio presente nella storia culturale occidentale, a partire da una visione e una cosmologia platonica (ossia sempre una traduzione)ci induce in tentazione e insinua il sospetto che, dietro al dislocamento (alla deformazione) della traduzione ci sia qualcuno o qualcosa che viene assassinato, nel senso della frase citata di Freud. C'è una enorme differenza, fra il pensare un Dio che è perfetto nel nome, è compiuto, e, dunque, vede, prevede e provvede il nostro futuro, dall'alto della sua predestinazione e un Dio imperfetto, la cui azione deve essere integrata da quella dell'uomo .
Sarebbe semplicistico concludere questo testo con una nuova proposta di traduzione. Vari esempi interessanti si possono trovare in prestigiosi nuovi tentativi, come quello di Martin Buber e Franz Rosenzweig in Die fünf Bücher der Weisung, già citato, probabilmente il maggiore sforzo moderno a partire dall'originale ebraico. L'unica risposta forse può essere cercata, in un racconto che, non a caso, figura allusivamente alla fine del fondamentale libro di Scholem Major Trends in Jewish Mysticism. La storia in questione racconta in poche parole la storia di una persona che racconta la storia di una persona, che racconta la storia di una persona... che cerca di raccontarci qualcosa. Qualcosa come il procedimento caratteristico di 'mise en abîme' borgesiano, fra realtà e finzione. O forse, più banalmente, la riproduzione del suono di un disco incantato, che ripete incessantemente una melodia troncata, spezzata e sprigiona un fascino illimitato, indescrivibile. O forse si tratta di un'allusione, da parte di Scholem, al fatto che l'evocazione, la memoria del contesto possibile di un testo, sia da giustapporre al significato del testo (nel senso in cui lo suggerisce la stessa Cabala, che richiama sempre l'interdipendenza tra oralità e scrittura): poiché entrambe sono da considerarsi parte integrante del contesto, della cornice, dell'orizzonte di significato di un testo . Il grande interesse che si è sviluppato attorno alla teoria della traduzione, di cui la stampa di questo numero speciale della rivista è un evidente esempio, potrebbe essere visto non solo alla luce dell'esigenza, implicita e ribadita, di stabilire ponti fra le culture, bensì quella di recuperare, in un'epoca di apparente unanimismo postmoderno, il valore del dibattito, della polemica, del conflitto: una concezione, appunto, agonistica della traduzione.

Andrea Lombardi
docente di lingua e letteratura italiana

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