terça-feira, 18 de outubro de 2011

Mosè balbuziente e barbaro


Quasi tutti i risultati che si ottengono, 
sono già prevedibili fin dall’inizio. 
Per questo, sarei tentato di sostenere che 
sono i modelli più stravaganti e meno ben fondati,
che danno i risultati migliori 
René Thom

Le figlie di Ietro dissero al padre:
siamo state salvate da un egiziano.
Mosè ascoltò, ma rimase in silenzio.
Mica Iossef Bin Gorion
 Le leggende del popolo ebraico



Mosè balbuziente e barbaro
di Andrea Lombardi

docente di letteratura italiana 


Un classico, diceva Giorgio Manganelli, più che la sua trama, lascia sempre una scia, un brusìo, un sottile rumore della prosa: “sono libri che talora affaticano alla prima lettura, ma sbocciano superbamente ad un rilettura; e sono libri che vogliono la rilettura” . Viviamo in un mondo decisamente forgiato dai classici. Il nostro insieme di memoria, concezioni e percezioni si fonda su moduli stilistici e descrizioni contenute nei classici. La nostra tradizione si poggia, evidentemente, su due basi: quella greco-classica e quella ebraico-cristiana. Di fatto, la tendenza prevalente è sempre stata quella di rileggere i classici greci (reinterpretandoli, studiandoli, imitandoli, scordandoli, riprendendoli, in un movimento incessante). Una minore attenzione è stata data, fino a poco tempo fa, ai testi biblici, considerati a lungo destinati a letture prevalentemente teologiche. Secoli di esegesi ci hanno tolto il piacere di una rilettura. Eppure, come tutti i testi classici, anche il testo biblico nasconde fra le sue pieghe possibilità immense di riletture e il suo brusìo di fondo incide in maniera particolarmente forte sul nostro comportamento, sulla nostra ideologia, sulla nostra capacità di lettura. 
La nostra tradizione culturale mostra spesso una certa difficoltà nel riconoscere problemi nei rapporti con le altre culture, nonostante il fatto che questi rapporti, nella storia, siano più il prodotto di reciproche invasioni che di pacifica convivenza e collaborazione. Rivolgimenti e conflitti, aggressioni e violenza rimangono nelle pieghe del discorso, anche quando il proposito appare del tutto opposto: “L’atto etico consiste nel riconoscere e ricevere l’altro in quanto altro... Accogliere l’Altro, lo Straniero, invece di rifiutarlo o di cercare di dominarlo”. Si tratta di un testo di Antoine Berman a proposito della teoria della traduzione (in: Les tours des Babel)  che vuole affermare l’importanza di un rapporto dialogico fra culture, come premessa necessaria alla traduzione. Una citazione di Schlegel, lo scrittore romantico tedesco, sull’importanza che deve essere data all’originale rispetto al testo tradotto, che appare subito dopo nello stesso testo di Berman, mostra un impercettibile lapsus. Dice Schlegel: “La mania [degli arabi] di distruggere o di gettare via gli originali appena fatta la traduzione caratterizza lo spirito della loro filosofia. Per questo loro potranno essere magari infinitamente più coltivati, ma, con tutta la loro cultura, saranno nettamente più barbari degli europei del Medio Evo” (ib., corsivo mio). Secondo Berman, il rapporto di appropriazione che caratterizzava la cultura araba, evidenziato da Schlegel, costituisce “l’archetipo di un rapporto di appropriazione non-dialogica, non-etica”(ib) e continua, in maniera significativa “poco importa se la valutazione di Schlegel sulla civiltà araba è fondato o meno”(corsivo mio). Il lapsus  di Schlegel si trasforma qui in una vera e propria gaffe. Se la distruzione dell’originale è effettivamente poco difendibile (ma non rafforza il paradosso richiamato da Benjamin, di una ricerca di un testo originale tramite la traduzione?), ancor meno difendibile è la citazione di una valutazione tra culture, che parte proprio dal concetto di barbaro (“saranno nettamente più barbari...”, dice Schlegel)! 
È probabile che abbia ragione Agamben (Stanze.Torino: Einaudi, 1993) quando ricorda la tendenza della cultura greca (e quindi della nostra tradizione) a privilegiare il concetto di armonia. Come dice Agamben: 
“Nel linguaggio aurorale del pensiero greco, questa <> della presenza prende il nome di armonia. Intorno alla radice indoeuropea di questa parola si dispone una costellazione di termini che fa segno verso una nozione cardinale dell’universo dei popoli indoeuropei: quello dell’ordine giusto che regola il ritmo dell’universo, dal movimento degli astri, al succedersi delle stagioni, ai rapporti fra gli uomini e gli dei... “
La tendenza a dare un’immagine fantasiosa, un quadro idilliaco, prodotto di una sovrapposizione armonica che, di fatto, elimina tutte le asperità, le differenze, in nome di una omogeneità fittizia fa tuttora parte della nostra concezione. Se possiamo considerarci eredi di due tradizioni distinte, quella greco-romana e quella ebraico-cristiana, possiamo, a ragione, interrogarci sul grado di omogeneità delle due tradizioni, cercando di indagare quelle differenze, asperità, dissimmetrie che una visione armonizzante e livellatrice può aver cancellato. In questo senso, una rilettura del testo biblico dovrà fare attenzione a sottili cambiamenti di tono: la lettura del testo dovrà tenere conto di un contrappunto il più delle volte casuale e dissonante, indizio di nodi non risolti che qui e là sono rimasti e testimoniano deformazioni nel testo e nel tessuto della cultura. In questo senso, anche la tradizione ebraico-cristiana deve avere sofferto questa lettura deformante e livellatrice. Come dice De Luca, nella sua introduzione alla sua traduzione dell’Esodo  a proposito delle differenze linguistiche, che hanno reso complessa la traduzione dall’ebraico e dall’aramaico:
“Non ha giovato alla nostra lettura della Lingua sacra lo scalo di Atene, tappa decisiva del suo smistamento nel mondo. È stato un dirottamento e una sciagura... L’intima inconvertibilità di una lingua/moneta in un’altra non poteva trovare ragione di scambio più sfavorevole. L’ebraica, magra e esatta, ne uscì sfigurata, colonizzata, interpretata dal dotto e torrentizio vocabolario del Greco, abituato a considerare barbaro ogni altro idioma...”(p. 5). Eugene Chen Eoyang ricorda che, l’Antico Testamento è forse l’unico testo fondante di una religione che fin dall’inizio è stato scritto in lingue diverse, facendo sì che il problema della traduzione e l’incorporazione della diversità faccia parte integrante della tradizione .
Ancora una volta il testo biblico, ed in particolare l’Esodo, si presta a una rilettura . Mosè, un alto dignitario probabilmente egiziano, dell’entourage del faraone Akhenaton, così come ipotizza Sigmund Freud (in Mosè e il monoteismo), lascia una traccia visibile della sua natura di straniero nella sua balbuzie, documentata dal testo biblico. L’introduzione della scrittura alfabetica, simbolizzata dall’episodio della rivelazione (roveto ardente e Monte Sinai) è l’elemento nuovo e rivoluzionario, tramite il quale Mosè, uno straniero balbuziente e dunque barbaro (secondo indizi etimologici), viene accreditato come leader carismatico del popolo ebraico. Il Dio di Mosè, enigmatico e astratto (così come si mostra in Esodo 3,14) rappresenta una metafora del testo (o meglio, della scrittura alfabetica), le cui caratteristiche vengono posteriormente attribuite a Dio, un Dio intertestuale, perché da allora legato indissolubilmente al testo e a tutti i testi nella tradizione occidentale, e quindi eterno, onnipotente...  La rivelazione, dunque, rappresenta il momento della traduzione (simbolicamente richiamata dal ruolo di traduttore di Aronne), da parte di Mosè di un insieme di conoscenze, ossia un momento conflittuale, di incorporazione dell’elemento barbaro, che la tradizione tenderà a cancellare. La balbuzie, l’incapacità di Mosè di esprimersi, costituirà la testimonianza di questo conflitto, diluito e attutito. La tradizione ebraico-cristiana si mostra assolutamente non omogenea; al contrario, rivela essere prodotto di una rilettura a posteriori, nella quale si presenta in una sua ipotetica armonia. Prendiamo proprio la scena del dialogo fra Mosè e Dio, che segue il momento in cui questi si è presentato a Mosè e gli ha rivelato il suo nome, nella nuova versione di Erri De Luca che, recentemente, ha pubblicato una nuova traduzione corredata da stimolanti note.

4,10. E disse Mosè a Iod: “O Adonài non sono uomo di parole Io, né da ieri né da prima di ieri e neanche da quando la tua parola è al tuo servo. Perché sono pesante di bocca e pesante di lingua Io”. 11. E disse Iod a lui: “Chi ha messo una bocca all’uomo e chi renderà muto o sordo o vedente o cieco? Forse Io Iod? 12. E adesso vai. Io Sarò con la tua bocca e ti insegnerò ciò che dirai”. 13. E disse: “O Adonài manda per mano di chi vorrai mandare”. 14 E si accese d’ira Iod con Mosè e disse: “Non c’è Aaron tuo fratello il levita? Ho saputo che parlare parlerà lui... 15. E parlerai a lui e metterai le parole nella sua bocca. E io Sarò con la tua bocca e con la sua bocca e insegnerò a voi ciò che farete. 16. E parlerà lui per te al popolo. E sarà che lui sarà per te come una bocca e tu sarai per lui come Elohìm. 17. E questo bastone prenderai nella tua mano, per mezzo del quale farai i segni (prodigiosi)”. 

Mosè egiziano

Freud non è certamente stato il primo a sostenere l’origine egiziana di Mosè che, già in antiche leggende ebraiche, riportate nell’epigrafe di questo articolo, veniva considerato straniero. Nel suo testo: Mosè e il monoteismo  si mostra visibilmente imbarazzato, inizia una difesa di posizioni che reputa, in una certa maniera, eretiche: “Sottrarre a un popolo quell’uomo che viene celebrato come il più grande fra i suoi discendenti non è cosa che si faccia volentieri o a cuor leggero, specialmente quando si è parte di quel popolo” . In questo testo, la cui stampa viene da lui stesso ritenuta problematica negli anni del nazismo imperante , le sue argomentazioni partono da considerazioni etimologiche. La stessa origine del nome Mosè (Moshe in ebraico) mostrerebbe, secondo Freud, un’origine egiziana (si tratta dei nomi di alcuni faraoni:  Ah-mose, Thut-mose e Ra-mose). Freud esclude che quella di Mosè sia una leggenda ebraica: che senso avrebbe, infatti, l’attribuire un’origine straniera a un eroe nazionale ebraico? D’altra parte, non si vede, secondo Freud, il motivo per cui un eroe egiziano dovesse essere mostrato come facente parte di una tribu di schiavi. Per Freud, dunque, la leggenda aveva la funzione di provare l’ origine ebraica di un Mosè evidentemente egiziano. Mosè l’egiziano avrebbe tramandato-tradotto , in quanto rappresentante della religione di Akhenaton (fautore di una versione del monoteismo), la sua religione al popolo ebraico. Le conclusioni sono abbastanza singolari, irte di paradossi e ipotesi piuttosto impervie: Mosè sarebbe stato ucciso in una ribellione del popolo da lui eletto (l’ebraico), che avrebbe abbandonato la religione. Impossibile riportare anche solo per sommi capi la sterminata letteratura (storica, pseudostorica, teologica, mistica) sul personaggio Mosè. Tra gli altri, cito Lehmann (Mosè l’egiziano nella Bibbia e nella leggenda) , che conferma le ipotesi di Freud: “Mosè, che ha condotto gli israeliti in quella Terra Promessa dove oggi si trova lo stato di Israele, molto probabilmente non era ebreo, era egiziano.” (p. 8). Ciònonostante Lehmann contraddice l’ipotesi etimologica su cui si era appoggiato Freud: “la derivazione etimologica [del nome di Mosè] dall’ebraico è errata e artificiosa, poiché Mosheh... è ‘colui che trae fuori’ e non - come dice la Bibbia - ‘colui che è stato tratto’“(p. 21). L‘autore menziona un mito accadiano (quello di Sargon) in tutto e per tutto analogo al ritrovamento della cesta con il piccolo Mosè e concorda sul legame fra Akhenaton e Mosè ; del resto, per Lehmann esiste un ragionamento deduttivo difficilmente confutabile: “Non può essere stato un caso che nella medesima area geografica e culturale, pressappoco nello stesso periodo, si sia sviluppato per due volte, in maniera completamente indipendente l’una dall’altra, il medesimo concetto di un Dio unico, un’idea veramente rivoluzionaria per le concezioni religiose di allora” (ib. p. 104-5). Questa tesi, che di fatto stabilisce un rapporto organico fra cultura egiziana e ebraica, si lega a un’ipotesi della nascita dell’alfabeto sostenuta da Ong, nel suo testo Oralità e scrittura : “La cosa più notevole a proposito dell’alfabeto è che esso fu inventato una volta sola. Questo avvenne intorno all’anno 1500 a.C., ad opera di una o più popolazioni semitiche nella stessa area geografica in cui due millenni avanti era apparsa la prima di tutte le scritture, quella cuneiforme...Tutti gli alfabeti del mondo... derivano in un modo o nell’altro dallo sviluppo di quello semitico originario...”.
Si potrebbe pensare alla nascita del monoteismo e alla nascita dell’alfabeto (che avvengono nella stessa regione e nello stesso periodo), come una forma di apice della rivoluzione neolitica: un coronamento dal punto di vista tecnico (la scrittura alfabetica) e ideologico (la religione del verbo scritto) . 
Quale Dio

Uno dei punti centrali della rivelazione mosaica è la traduzione dell’Esodo 3,14, cioè quando Mosè chiede a Dio il suo nome ("). Rispetto a un nome Jahwe pronunciato circa 6800 volte nel testo biblico , evidentemente qualcosa di nuovo doveva esssere trasmesso a Mosè, perché chiedesse a Dio di esplicitare il suo nome. In Esodo 3, 14 il nome di Dio (o quella che è una risposta alla domanda sul nome di Dio) suona ““: così lo ha tradotto, per esempio De Luca. L’uso del tempo presente (“Sono colui che sono”), che risale alla traduzione dei Settanta, a cui corrisponde ‘ego sum qui sum’ di San Girolamo nella Vulgata, travisa, evidentemente, questo nome  (l’unica risposta a una vera domanda pronunciata a proposito del nome di Dio nel testo biblico) che è nell’imperfetto della lingua ebraica. Si tratta di un modo e non di un tempo. Walter Rehfeld, un eminente ebraista brasiliano , ha mostrato le implicazioni dell’imperfetto come modo nell’ebraico antico: “L'imperfetto [in ebraico antico] designa quello che sta per succedere, ma ancora non raggiunge la sua conclusione, il cui processo perdura nel presente e, forse, si estenderà al futuro”. 
Un nome di Dio imperfetto allude a una creazione ancora da concludere, in cui l’uomo svolge una funzione determinante e rimette forse a una metafora del testo alfabetico, una metafora delle metafore. Una traduzione al presente suona come un’affermazione ontologica, che indica un Dio della predestinazione (“Sono colui che sono”). La trasformazione del nome di Dio (al futuro) in un nome al presente è un evidente travisamento dalle conseguenze radicali. Difatti, De Luca aggiunge alla sua traduzione la seguente nota: “L’incredibile è che quelli che qui traducono l’ “Eiè” al presente, due versi prima e in tutti gli altri luoghi della Lingua sacra lo traducono con il futuro.” E ancora: “La frase di Iod  non è una definizione ontologica, dunque filosofica come piace ai Greci, ma è la risposta di Iod, unica in un momento unico, al suo prescelto.” (nota 49, p. 23). A questo problema Walter Rehfeld (op. cit.) aveva già proposto varie soluzioni, parallele:
"É tramite il verbo hayá que Dio si identifica, quando, al momento di ricevere la missione di liberare i figli d'Israele in Egitto, Mosè chiede quale risposta dovrà dare circa l'identità di chi gli aveva dato tale investitura. La risposta fu Ehyeh asher Ehyeh [...]: , o , o ancora . " 
Occorrerà ricordare alcune implicazioni di questo passo: a) è l’unica volta che il nome di Dio viene effettivamente pronunciato; b) la risposta è enigmatica ed oracolare, cioè assomiglia a una frase realmente pronunciata (si vedano i testi di M. Buber e F. Rosenzweig ), cioè non è un vero e proprio nome; c) non si tratta tanto di un rinnovamento del patto del vecchio Dio (di Abramo), quanto di un nuovo patto con un nuovo Dio (quello di Mosè, l’egiziano), con nuovi interlocutori e nuove regole, e sopratutto, una nuova forma. È proprio in questo momento che il Dio di Abramo diviene il Dio di Mosé. Si tratta di un momento di traduzione tra culture che avviene in forma agonistica, cioè conflittuale: il nuovo Dio soppianta il precedente; d) la conoscenza del Dio avviene tramite dei segni (in particolare, tramite la scrittura alfabetica, con cui si manifesterà tramite il Decalogo); e) l’aspetto linguistico (un Dio nel modo imperfetto, cioè che richiede all’uomo un intervento essenziale per completare la creazione, invece di un Dio perfetto, già completo) è connesso a quello culturale; in fondo, un Dio con queste caratteristiche (un Dio non solo rappresentato dal testo, ma un Dio del testo) permette a una lingua un tempo nuovo (rispetto ai modi tradizionali della lingua ebraica). Tramite la scrittura alfabetica, il messaggio può diventare autoreferente, esplicitare il suo codice, aprire la possibilità della mise en abyme .
L’importanza del legame fra nome e concetto di ciò che viene nominato è sufficientemente attestata nella tradizione, dal Cratilo di Platone alle polemiche fra nominalisti e realisti del Medio Evo. La lettura del nome di Dio permette varie interpretazioni, ciò significa che dipendiamo da una tradizione che, al suo interno, si divide in vari rivoli. Il cammino alla ricerca della genealogia del libero arbitrio porta alla conclusione che il nostro passato è frutto anch’esso di una scelta deliberata, una lettura o una rilettura (un esercizio del libero arbitrio nella traduzione). Occorre tener presente che all’interno della tradizione ebraica esistono vari strati del testo biblico  e solamente uno di questi menziona la novità della rivelazione mosaica, la scena del “roveto ardente”. Per alcuni (Buber , Lehman ) si tratta del cosidetto redattore Elohista, per von Rad (op. cit.), invece, si tratta del testo più tardivo, cioè quello sacerdotale (P o Priesterschrift). La singolarità della problematica sta nel fatto che il nostro mondo dipende da una tradizione che fa della concezione Dio la pietra miliare di una visione del mondo completa, anche se, come si è visto, non priva di ambiguità.

Mosè balbuziente e barbaro 

Per Devoto  esiste un nesso evidente fra barbaro, nel senso di balbuziente e il termine straniero: “bàrbaro, dal lat. barbarus, che è dal gr. bárbaros ‘straniero’, nel senso di ‘balbettante’, ‘incapace di farsi capire’. Nello Zingarelli barbaro viene definito “straniero, probabilmente balbettante, perché non sa farsi capire” . Una specificazione interessante è quella di G. Genette: “Nelle lingue più antiche le parole che servono a designare i popoli stranieri provengono da due fonti: da verbi che significano balbettare, o da parole che significano muto” . Chen Eoyang (op. cit., p. 48-9), affronta varie definizioni e problematiche del termine barbaro:  
”Sul significato fondamentale della parola che designa qualcosa di inintellegibile, ‘sembra che non ci sia disaccordo... Si tratta di una parola onomatopeica che imita, originalmente, ogni sorta di suono inintellegibile, di animali, oggetti o dell’uomo’... Boisacq lo mette in rapporto con il greco Babai, Babalein, e con il latino balbus, balbutio”. Continua Chen Eoyang: 
“Le definizioni di “barbaro” alludono e propendono all’ambiguità. Inizialmente si tratta di una definizione di ciò che era straniero, non indigeno, con una lieve patina di superiorità culturale, che in genere differenzia (se questa è la parola giusta) l’altro incolto dall’io colto. Per i drammaturghi greci barbaros comprende tre significati...: si riferisce a ciò che era inintellegibile, ciò che era straniero, non greco; e, finalmente, ciò che era straniero, con qualche implicazione di inferiorità...”(p. 48). Barbaro, dunque, non allude solo alla balbuzie, a ciò che è inintellegibile, a ciò che è straniero ma, in una certa misura, a ciò che è inferiore.
Lo stesso autore affronta la problematica dell’origine etimologica di Babele, le cui allusioni vanno nella stessa direzione e che aprirebbe la possibilità di numerose congetture. Ricordando la scena biblica, Yahweh ha confuso le lingue in tutto il mondo, Chen Eoyang osserva che “La parola ‘confuso’ traduce la parola ebraica balal, che significa ‘mescolato, confuso’, un gioco di parole in questo contesto su Babele e ‘Babilonia’”(op. cit., p. 5). Se la scena di Babele è stata presa come paradigma della traduzione (“Le passage de la Genèse sur la tour de Babel est la scène primitive de la téorie du langage, et de la traduction” ha affermato, per es. Henri Meschonnic ), si dovrà considerare che nella stessa tradizione ebraica esistono almeno due scene fondanti della traduzione, quella di Babele e quella della rivelazione mosaica.
Un’altra considerazione di Chen Eoyang appare molto interessante quando sottolinea che il mito di Babele si riferisce a un’epoca in cui non esisteva lingua scritta, o perlomeno, non era menzionata (op. cit., p. 6). Si tratta, dunque, di un “documento scritto di una storia orale che non ha preso in considerazione l’avvento della scrittura. Poiché la storia di Babele non amette la possibilità che mentre la lingua orale può venire confusa fra i popoli della terra, altrettanto non può avvenire con la scrittura” (ib.). Il mito di Babele rappresenta certamente il mito di una caduta, dall’unità alla molteplicità: forse un indizio del contatto fra culture orali, nella fase neolitica. Il mito di Mosè, al contrario, potrebbe significare il suo contrario: dalla molteplicità (o dalla differenza fra cultura egiziana a cultura ebraica) all’unità, incorporando alla scrittura gli elementi di magia che hanno sempre caratterizzato l’uso mistico della lingua , che aveva la sua ragione di essere fondamentalmente nell’oralità.
Il mito di Teuth, che Platone inventa di sana pianta nel suo Fedro, mostra quanto Platone fosse pessimista. Derrida  commenta il pessimismo di Platone dal suo punto di vista, cioè come dimostrazione di un momento di fondazione dell’essenzialismo a partire dallo schema di Platone “che assegna l’origine e il potere della parola, precisamente del logos, alla posizione paterna”(ib., p. 13). La leggenda di Theuth è il prodotto della fantasia di Platone, ma sempre “sorvegliate e limitate da una rigorosa necessità” (ib. p. 20). Tutto ciò che Derrida sottolinea, a proposito di Theut-Thot (il corrispondente Dio egiziano), la subordinazione di Thot, in quanto mero esecutore del progetto di Horus, la sua funzione di intermediario, la cui parola è “seconda e secondaria”(p. 23) [?].  
Occorre tenere presente che la scena originaria dell’invenzione della scrittura in Platone non è l’unica nella nostra tradizione e non è necessariamente la più forte, quella le cui radici sono più profondamente intrecciate con le nostre origini. Esiste un altro mito fondante, che è quello dell’invenzione dell’alfabeto da parte di Mosè, oppure il mito dell’introduzione della scrittura alfabetica a partire dalla rivelazione mosaica (ché la scrittura fosse del Dio o di Mosè, le versioni bibliche non lo chiariscono, ma stabiliscono un nesso inscindibile tra testo-Dio e Mosè): un  elemento inoppugnabile, presente in maniera immediata nella eredità culturale occidentale (nella tradizione biblica e nel cristianesimo) e mediata, tramite il legame intertestuale di tutti i testi con quello biblico. Un legame, del resto, tra le due tradizioni affiora nella versione del Fedro di Platone utilizzata da Derrida, quando Socrate attribuisce al testo scritto la doppia funzione di indurre all’esodo e caratterizzare come straniero colui che è sotto l’effetto del testo.
“[Socrate] Les feuilles d’écriture agissent comme un pharmakon qui pousse ou attire hors de la cité celui qui n’en voulut jamais sortir, fût-ce au dernier moment, pour êchapper à la ciguë [sic]. Ils le font sortir de soi et l’entraînment sur un chamin qui est proprement d’exode: PHEDRE: ...tu fais l’effet d’un étranger qu’on guide, et non pas d’un indigène... (corsivo mio, op. cit., p. 8)
Le due scene originarie dell’introduzione della scrittura, quella costruita da Platone (il mito di Theut) e  quella della rivelazione mosaica, sono contrapposte, ma analoghe e avvengono su piani differenti: prepotente, quasi cinematografica, quella biblica, (le scene sono piene di effetti iperbolici, comunque iperrealistici), una scena letterale. Metaforica e allusiva, quella platonica, da vedersi in controluce, il cui contesto è quello dell’introduzione dell’alfabeto nella cultura greca e la necessità di definire una sorta di ancoraggio, di interpretazione canonica del senso, contro gli attacchi dei sofisti (e dei poeti), cioè contro tutti coloro che avrebbero potuto creare un senso differente. Se il pharmakon In Derrida è una specie di lapsus del testo platonico, in rapporto a una sovversione dell’ordine, tra voce e testo, tra logos e apparenza, il mito mosaico è un’assenza significativa e interpretabile nel testo di Derrida. La contrapposizione tra l’eredità greca e quella ebraica non potrebbe essere più radicale, su questo punto. Ong (op. cit.), citando anche Havelock, fa luce sul contesto storico e culturale della polemica di Platone e spiega anche il perché della sua scelta così pessimista in rapporto alla scrittura: 

“Ma all’epoca di Platone... un cambiamento era ormai avvenuto: i greci avevano finalmente interiorizzato la scrittura... Havelock mostra che Platone escludeva i poeti dalla sua Repubblica ideale essenzialmente (se non proprio consapevolmente) perché si trovava in un mondo intellettivo nuovo, regolato dalla scrittura, in cui la formula o il cliché, amati dai poeti tradizionali, erano fuori moda  e controproducenti...il rapporto fra la Grecia di Omero e tutto ciò che la filosofia dopo Platone rappresenta è, per quanto superficialmente armonico e senza soluzione di continuità, di fatto profondamente antagonistico [corsivo  mio], anche se spesso a un livello inconsapevole. Di tale conflitto inconsapevole risentí anche Platone, che nel suo Fedro nella Settima lettera esprime riserve sulla scrittura... essa segnò il momento della storia umana in cui per la prima volta [corsivo mio], una cultura alfabetica scritta profondamente interiorizzata si scontrò con l’oralità... né Platone né altri furono- o potevano essere- consapevoli di quanto stava succedendo”(p. 48).

L’introduzione della scrittura è un avvenimento traumatico: se nella cultura greca è legato a una visione pessimistica, che Platone ha espresso, inventando un mito sostanzialmente negativo, nella cultura ebraica è indissolubilmente legato alla definizione del libero arbitrio e all’Esodo, proprio perché la scrittura alfabetica introdotta in un contesto culturale sostanzialmente arretrato da parte di un rappresentante di una cultura più sviluppata come quella mosaica (egiziana), produce effetti visibilmente nuovi e positivi.

Torniamo, ancora una volta, al testo biblico, nella traduzione di De Luca. (Esodo 3,10) non sono uomo di parole, dice Mosè al Dio che gli si sta rivelando, cioè sono un uomo di poche parole, oppure sono un uomo laconico. Dio si è rivelato, con il suo nuovo nome, a Mosè il quale -testardo- insiste sulla propria incapacità. Fin qui, niente di strano: potrebbe trattarsi di una manifestazione di modestia di Mosè, di fronte a tanti aspiranti condottieri dell’epoca. Von Rad (op. cit.), per esempio, ci informa che l’elezione di un capo carismatico fra le varie tribu ebraiche, era molto comune: la realizzazione di un “patto anfizionico”, cioè con caratteristiche religiose e la scelta di un condottiero in caso di pericolo grave, è più che giustificata. Può voler dire che si considera un uomo d’azione (in fondo era lui che, senza tante parole, aveva ucciso un egiziano e lo aveva sotterrato sotto la sabbia, senza sprecarci più di una frase, appunto ). Può, però, voler dire che non parla la lingua degli ebrei, che non è in grado di farsi capire.

3,10 Perché sono pesante di bocca e pesante di lingua Io: qui la descrizione è più specifica. Perché insistere sulla bocca e sulla lingua? Non potrebbe alludere a una balbuzie consolidata, al suo essere balbuziente per formazione? De Luca, commenta, a questo proposito: “Neanche la balbuzie è ostacolo per il chiamato. Le bocche dei profeti vengono spesso investite da provvedimenti misteriosi... Nessuno però come Mosè sarà ‘chevòd pe’, pesante di bocca, balbuziente...”(ib., p. 27). Più tardi (Es. 6,12) in un’altra versione della rivelazione, Mosè dichiara: “io sono incirconciso di labbra”. Commenta De Luca (p. 33, nota 71): “come se la balbuzie fosse un’escrescenza di carne... la circoncisione serve a sgomberare ostacoli al seme, la balbuzie che ostruisce la parola equivale a un prepuzio. È qui evidente il legame tra parola e seme.” Se effettivamente Mosè è egiziano, questa sua caratteristica di straniero si riflette nel suo rapporto con la lingua ebraica.

3,12 E adesso vai. Io Sarò con la tua bocca e ti insegnerò ciò che dirai. Commento di De Luca: “ Sarò con la tua bocca: altro ritorno del ‘Sarò’, nome comune d’ intesa e di patto tra Iod e Mosè.”(ib.). Ricordiamo che si  tratta dell’Ehyeh che richiama il nome di Dio, appena proferito per la prima (ed unica) volta (in 3,14). Se Dio usa il verbo essere  al futuro, per designare una sua presenza nella bocca di Mosè, dobbiamo attribuire al gesto un motivo sufficientemente drammatico o essenziale. Nonostante questa presenza di Dio, Mosè avrà bisogno di un intermediario, cioè Aronne: 4,14 “Non c’è Aaron tuo fratello il levita? Ho saputo che parlare parlerà lui...” 4,15. “E parlerai a lui e metterai le parole nella sua bocca...”. Mosè parlerà a Aronne che parlerà al popolo. ‘E Mosè sarà per Aronne un Elohim”, un Dio, uguale al Dio della Genesi (per la tribu di Abramo).

4, 14 E si accese d’ira Iod con Mosè. Nell’episodio biblico, la rabbia di Dio, la sua impazienza, appare in un certo senso fuori posto: se Dio sapeva già da prima (4,10 non sono un uomo di parole - così aveva detto Mosè -  né da ieri né da prima di ieri) che il suo interlocutore, l’intermediario prescelto era pesante, perché lo ha scelto? Perché insiste? D’altra parte, se il redattore scrive dopo l’episodio (almeno 300 anni dopo, secondo von Rad) e cerca di dare omogeneità e coerenza al testo, perché lasciare tale segno di incongruenza? Altrettanto misterioso appare l’episodio in 4, 24 “E fu nel cammino nel luogo di pernottamento: e lo incontrò Iod e cercò di farlo morire”, cioè Dio cerca di far morire Mosè. Sua moglie risponde in maniera altrettanto misteriosa: taglia il prepuzio di uno dei figli. Non è chiaro di chi si tratti, ma potrebbe essere proprio Gershòm, che qui rappresenterebbe Mosè. ‘
Altrettanto incomprensibile, quasi un lapsus del testo, è l’episodio di Iethro, il sacerdote di Midiàn, che compare nell’infanzia e adolescenza di Mosè: Mosè si trova per caso a difendere due delle figlie di Iethro che al padre raccontano: 2, 19: “Un uomo Egiziano ci ha liberato dalla mano dei pastori...”(corsivo mio).

Secondo la definizione citata di Chen Eoyang, barbaro è incomprensibile, straniero e in certo modo, inferiore. È possibile che il distacco, la diffidenza fra ebrei ed egiziani trasparisca ancora tramite questa tensione fra Dio e Mosè (del resto, anche altri episodi comprovano che il rapporto non è certo molto facile) e dai lapsus del testo. Mosè, se egiziano, è un barbaro, un inferiore per gli ebrei. Dice Walter Ong, a proposito della differenza tra culture: “Dobbiamo ricordare sempre che ogni cultura si mostra in alcuna maniera barbara in rapporto a tutte le altre culture” .
Evidentemente, la risposta risiede nel fatto che il testo tradisce la sua origine, tradisce la differenza, l’estraneità tra la cultura di Mosè e la cultura del popolo ebraico di allora. Non era stato Mosè che aveva chiamato uno dei suoi figli Gerschòm 18, 3 “perché disse: ‘Straniero sono stato in terra sconosciuta’? In una commento al nome dato a uno dei suoi figli, Gerschòm, appunto, De Luca scrive: 
“È Mosè a dargli il nome. Lo si legge con evidenza in ebraico che ha nella seconda e terza persona dei verbi una forma per il maschile e una per il femminile ... Ghershòm: ‘gher’ è straniero. Le altre due lettere, shin e mem, compongono sia l’avverbio di luogo là, sia la parola nome. Sono due delle tre consonanti di Mosè. I nomi che i genitori Ebrei mettevano ai figli non provenivano da un calendario, né da un uso precedente: erano spesso coniati per l’occasione, per contenere in una sigla un riassunto di eventi”.
Possiamo considerare questo episodio, inserito nel sintetico capitolo della nascita, della creazione e dei fatti fondamentali della vita di Mosè, come una presenza metonimica: Gershòm è straniero e viene ciconciso in ritardo. Gershòm al posto di Mosè: una metonimia del testo, una mera sostituzione di persona.
Mosè e l’introduzione della scrittura

Mosè si sostituisce al Dio di Abramo e, ripetendone la simbologia, diviene il Dio del popolo ebraico in lotta contro la schiavitù e Aronne sarà il suo profeta e traduttore, l’interprete designato. Se Dio aveva creato il mondo, Mosè lo ricreerà, tramite il segno, la parola scritta. Fin’ora, il brano 4,17 (i segni (prodigiosi) è stato interpretato nel senso dei prodigi, dei miracoli che Mosè compirà per convincere il faraone. Ma non è l’introduzione della scrittura l’invenzione più prodigiosa di Mosè? Non è lui l’intermediario di un Dio che si mostra (ma non appare) che si ascolta, ma non si comprende e non si vede. Un Dio che viene reso eterno dal suo Decalologo, un Dio del testo. Harold Bloom ha sollevato questa ipotesi in forma allusivamente eretica: 
“Dapprima i cabbalisti osarono identificare le sefirot con l’effettiva sostanza di Dio, e lo Zohar arriva a dire di Dio e delle sefirot che “Lui è Loro, e Loro sono Lui”, il che genera la formula piuttosto pericolosa che Dio e il linguaggio sono una e la medesima cosa” (p. 28).  “la Kabbalà cerca di ristabilire il significato originario inteso da Dio quando diede la Torah a Mosè. Ma la Kabbalà tratta la Torah come un alfabeto, come il linguaggio stesso... L’atto originario consiste nel fatto che Dio insegnò; l’insegnamento  originario consiste nella scrittura...” .
Jack Goody (op. cit.) ha difeso l’ipotesi dal punto di vista storiografico: la diffusione delle religioni universalistiche (islam, cristianesimo e ebraismo) sarebbe legata in forma inscindibile al loro carattere scritto e, in particolare, alla scrittura alfabetica che dava loro la possibilità di essere, allo stesso tempo, religioni universalistiche e nazionali (p. 14-5). “Una delle componenti dell’universalismo, ed in particolar dell’universalismo etico, caratterizza.... tutte le principali religioni universalistiche ed è direttamente connesso all’impiego che esse fanno della scrittura”(23-4). Le religioni scritte, infatti, sostiene Goody, vengono “in un certo senso dall’esterno, sotto l’effetto del processo di conversione e propagazione, le sue norme sono applicate necessariamente a più di un gruppo o a più d’una società” (corsivo mio, p. 24). Un’altra delle caratteristiche interessanti della scrittura è che “Una volta che le è data una espressione scritta, anche la dissidenza stabilisce la sua tradizione”(ib. 42). Pur trattandosi di una semplice ipotesi, un Mosè egiziano, colto dunque e, probabilmente, al corrente delle varie tradizioni scritte della casta sacerdotale egiziana, ha potuto usare, di fronte a un popolo che già conosceva la scrittura (ma al quale la stessa non doveva essere troppo familiare), le sue conoscenze, la sua formazione, il suo carisma, per dare loro la sensazione della fondazione di una nuova tradizione. 
L’Esodo/Nomi non fa che riprendere il concetto di alleanza, fra la tribù di Abramo e Iahwe, in nome di un futuro migliore. La rivelazione mosaica, apparentemente non diversa da quella di Abramo, viene però testimoniata da tutto il popolo (19 e 20), poiché il Decalogo viene effettivament visto da tutti e interpretato come dettato da Dio e scritto da Mosè (o scritto da Dio, il cui testo viene consegnato a Mosè). Del resto c’era una stretta connessione, all’epoca, fra conoscenza di una scrittura tecnicamente avanzata (risultato della tradizione egiziana) e capacità di impressionare larghe multitudini. 19,9:  E disse Iod a Mosè: “Ecco Io vengo a te nel folto di nuvola affinché ubbidisca il popolo al mio parlare con te e così in te crederanno sempre”. 19,19: “E fu la voce di shofàr che va rafforzandosi molto. Mosè parlerà ed Elohìm gli risponderà in voce”. Tutto ciò di cui solo Mosè è testimonio, il popolo lo apprende da lui direttamente o tramite il suo traduttore Aronne. Come ausilio (d’autorità o di memoria) Mosè userà la scrittura: 24,3 “Tutte le parole che ha detto Iod faremo...” 24, 4: “E scrisse Mosè tutte le parole di Iod”. La tradizione scritta introdotta da Mosè a testimonianza dell’alleanza cambia completamente la natura delle tribù ebraiche, che solo ora divengono popolo, stabiliscono una tradizione nuova (che reinterpreta l’antica), partono alla conquista di una nuova terra. Non è possibile non pensare a una profonda rottura della tradizione ebraica, avvenuta a questo punto, e che giustifica lo stesso mito attorno alla figura di Mosè (ebreo o egiziano che fosse). La scrittura, evidentemente già nota agli stessi ebrei all’epoca di Mosè, acquista ora una simbologia, differente da quella che aveva nella tradizione ebraica prima di lui: equivale da quel momento alle manifestazioni di Dio, è espressione di Dio, è Dio. Del resto, come avrebbe potuto una tradizione basata solo sull’insieme di miti e leggende relative al Paradiso originario, alle promesse in sogno di un Dio e ai sacrifici animali (una religione come tante altre) imporsi a una delle più forti tradizioni antiche, cioè quella greco-romana? L’insieme di insegnamenti legati alla persona di Mosè, l’introduzione del Decalogo e della scrittura, come premessa teorica alla liberazione dall’Egitto, ne fanno un insieme autonomo, di forza completamente indipendente dal resto del testo biblico. 
È possibile concludere, anche se provvisoriamente, che il mito di un Dio mosaico diviene universale esattamente grazie al legame inscindibile a) con la scrittura alfabetica (cioè con il massimo grado di universalizzazione e decontestualizzazione che è stato possibile all’umanità a partire dalla rivoluzione neolitica) e b) con la liberazione dalla schiavitù in                                                                                     Egitto che conferisce alla Rivelazione un suo carattere ottimista e positivo. Il Dio di Mosè, pur essendo fortemente enigmatico, a cominciare dal suo nome, pur non potendo essere raffigurato, pur essendo infinitamente  poderoso ed eterno, è un Dio i cui effetti pratici si vedono e si sentono, cioè in grado di realizzare una trasformazione della realtà. Un tale Dio, infinitamente più complesso di tutti gli altri, anche perché difficilmente influenzabile tramite sacrifici e che, tendenzialmente, vigila su un’intera esistenza, è un Dio leggibile e, nonostante l’apparente divieto (un paradosso), pronunciabile (ma non invano). Un Dio del testo o un testo che equivale a Dio. Il Dio-testo si mostra (nei suoi legami intertestuali) infinito, e,  completamente decontestualizzato, eterno. Si tratta di un Dio vero intermediario della lettura dell’universo, per cui è infinitamente potente. Un tale Dio, paradossalmente, è possibile interpretarlo molto meglio, mostrarlo nella sua natura essenzialmente segnica in maniera molto più universale, chiara, democratica.
Si potrebbe dire, in questo senso, che il riconoscimento di un Mosè egiziano, balbuziente e barbaro, rappresenta la vera scena primitiva della teoria del linguaggio e della traduzione, dopo l’introduzione della scrittura alfabetica. I miti di Babele, quello del Paradiso perduto precedono la revisione mosaica, alla luce della scrittura. Dovranno quindi essere riletti e mostreranno, probabilmente, forti analogie (e nostalgie) rispetto al mito dell’armonia di cui parla Agamben a proposito del mondo greco. Mosè egiziano, barbaro e balbuziente, ci ricorda un momento di rottura nella nostra tradizione (o forse il momento dell’istaurazione della tradizione tramite una rottura) che privilegia il conflitto, il contrasto, l’agonismo, il dislivello. Si tratta di un rumore di fondo, forse analogo a quello del Big Bang. Ricordo di una catatrofe, per evitarne altre.

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