Emilio Villa.
Linguistica (poesia, 1941)
Non c’è più origini. Né. Né si può sapere se.
Se furono le origini e nemmeno.
E nemmeno c’è ragione che nascano
le origini Né più
la fede, idolo di Amorgos!
Chi dici origina le origini nel tocco nell’accento
nel sogno mortale del necessario?
No, non c’è più origini. No.
Ma
il transito provocato dalle idee antiche - e degli impulsi.
E qualsivoglia ambiguo che germogli intatto
delle relazioni
delle traiettorie
delle radiazioni
delle concezioni
luogo senza storie.
Luogo dove tutti.
E dove la coscienza.
E dove il dove.
Per riconosere l’icommensurabile semenza delle vertigini
adombrate
le giunture schioccate nei legami
la trasparenza delle cartilagini
il cieco sgomento dei fogliami
agricoli nelle forze
esteriori, e l'analisi fonda
incisa nel corpo dell'accento.
No.
Non c'è più. Né origini nei rami. Né non origini.
Chi arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza
usava lo spirito senza rimedio nel momento indecisivo
come un compasso disadatto, non esperto, così non si poteva
agire più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione
senza essenza, così che speculare sul comune tedio
un gioco parve, e ogni attimo-fonema
ancora oggigiorno sfiora guerra e tempo consumato, e il peso
corrompe dell'ombra dei tramiti dell'essenza.
E codesta sarebbe. Questa la fine concepibile::
se attraverso l'idea massima del pericolo e dell'indistinto
si curva l'anima estrema dell'attrito di idrogeno e ozono e i giorni
acerbi sommano giorni ai giorni quotidiani nell'araldica
prosodia delle tangenze,
soffocando ogni flusso di infallibile irrealtà in:
i verbi
i neologismi.
Chi le braccia levava saziate di viole nel palpito assortito
oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito
immune che popola e corruga a segmenti il nembo
delle testimonianze storiche, delle parabole nel grembo
confuso delle parrocchie e nelle larghe zone
di caccia e pesca e d'altre energiche mansioni culturali.
E non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là
e celebro l'etimo corroso dalle iridi foniche,
l'etimo immaturo,
l'etimo colto,
l'etimo negli spazi avariati,
nei minimi intervalli,
nelle congiunzioni,
l'etimo della solitudine posseduta,
l'étimo nella sete
e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate
dalle fosforscenze idumee, idolo di Amorgos!
Carissimo Bardi[1],
Ti avevo aspettato per l’estate, son andato a Firenze, contavo di
passare qualche giornata insieme, poi ti aspettavo adesso, dopo la tua
cartolina. Dove ti ricordavi anche di una mostra di poesie che si doveva fare
al museo [Museo di Arte di San Paolo MASP]. E son passati 15 anni. Volevo anche
proprio parlarti di una cosa così, cioè proprio di una impresa, una vera,
grossa, che dovremmo fare.
Chiamiamo a raccolta tutti gli operatori di poesia della maggiore
avanguardia del mondo (una cinquantina, sono tutti amici, son tutti sotto mano,
in Europa, in USA, in America, in Giappone), + realizzatori, registi,
operatori, tecnici. Li aduniamo a S. Paolo (Museo de Arte, meglio, o se no, dovunque). Li registriamo in nastri,
riproduciamo in elettronica, transistorizziamo, fotocellularizziamo,
discografiamo, cinematografiamo (sia poemi in lettere che in happening): poi,
insieme, mostriamo edizioni di 15 anni di avanguardia (invenzioni, cimeli, di
tipografia o d’altro tipo). Con questo materiale creiamo i nuovi, inauditi, non
mai auditi, orizzonti sonori, di logos-phonos, con megafoni piazzati sugli
alberi, sonorizzando foreste, grattacieli, animando gli smog, e poi juke-box
per dischi, sui pali telegrafici, nei porti, per le strade, in locali,
magazzini, e insomma nuovi panorami sonori cittadineschi. Un festival
universale...
Ad ogni modo, è una cosa che ho pensato di fare con te. O niente.
Pensaci solo un momento.
[PS ] Certo, di Noigandres
e Praxis ho visto e avuto
parecchio...
Ti saluto, con tanto
affetto.
Ciao
tuo
Villa
[1] Ringrazio qui sentitamente Maria Eugênia
Guerini, del MASP, per aver permesso una ricerca nell’archivo del Museo stesso.
La lettera è stata riprodotta da Bruno Giovannetti, fotografo e giornalista, a
cui va un caloroso ringraziamento, ed è stata parzialmente tradotta in un
numero speciale della rivista Cult.Revista
brasileira de Literatura. Número 9 [1999], Editor Manuel da Costa Pinto. Dossiê dedicado a Emilio Villa.
eu diria l’m encantado, e então
uma nuviosa designação de continentes involuntarios por jogos
nasais, fundos jogos, acende
ao lonje entre os anos desperdidos itinerantes
como faiscas de amarguras
abdominais, como bichos de cristal na nuca muda, acende
o nome mais amado mais miolo mais milagre
e o quem diz: “agora!”e o quem
cai no corte mítico do mundo, nas luminosas
trovejadas generações dos nomes: léxico
jejum e fresco come o prado de espinafre de trevo
no recóncavo, pálidas requisições de ecos
e espirros e réplicas, anforas anoitecidas
no pulmão gigante, palpitantes gengivas, cenoiras
africanas, paleoafricanas, protoafricanas, coxas
rasgadas o abertas, polpas de abóboras
ideais: agora, agora. Nam rectitudo
per se est phallica, truncada também, devagazinha:
onde uma zigoma torna-se sigla e sigilo, torna-se
constellação deitada nas escuras polpas sem nomes
e incha-se então de raiva a fonte das medidas
e das mudançãs, lá, eu digo, provocar
o poder subhumano da pasmação, do broto
não mortal, o vôo ocioso, o ganir
chupado, de viboras nas câimbras
das vagas, dos grans, e veremos lampejar
a alta caça, a esgrima
em voz baixa na caveira, as balanças de ossos
eschatologicos, agora mismo,
si o sangue da sombra não é sangue ni sombra,
si o cavalo do cavalo agora é sombra desmaiada
o sombra brotada na suma sombra ostra, o som
da tromba saca o celeste descontecer, afrouxa
o orvalho, e o remo corta em dois as cinzas
dos vivos e as cinzas dos sons, como
na páscoa dos continentes cortó o Brazil e a Angola,
cortó as arvores da ciencia e as arvores da loucura
peregrinante, cortó o tubarão em dois espelhos
a tromba grande: não agora.
Bahia, 1951
I tre testi citati si possono trovare in Andrea
Lombardi ética daleitura blogspot
Oppure diretamente
in : https://eticadaleitura.blogspot.com/2022/04/emilio-villa.html
Elettrificare le foreste
L´idolo di Amorgos, mi
sembra suficientemente inusitato e appare improvisamente, fuori contesto, in un
verso della prima strofa di Linguistica , di Emilio Villa, che è del 1941
una formidabile poesia. Fin dalle prime righe mostra di farsi carico di una
vera e propria anticipazione dell´insieme delle tematiche dell´avanguardia: forse
il più deciso affondo contro la tradizione conservatrice ed ermetica dell´epoca,
ma anche un Villa decisamente anticipatore (citazione Cecilia o Taglaferri).
Il testo è perentorio (cito qui poche righe
che dovranno bastare)
Non c’è più origini. Né. Né si può sapere se.
Se furono le origini e nemmeno.
E nemmeno c’è ragione che nascano
le origini Né più
la fede, idolo di Amorgos!
[...]
Linguistica,
1941
LA
negazione prevale: la congiunzione negativa né si confonde con
l´avverbio di negazione non e l´avverbio
e la congiunzione nemmeno. Un discorso a singhiozzo, che si interrompe constantemente
in cui l´insieme delle negazioni demolisce tutte le possibilità di esistenza oggi
delle origini (“non c´è piú origini”) e, addirittura si nega categoricamente la
possibilità che esse siano esistite (se furono). Naturalmente, la
negazione categorica (una doppia, tripla multipla negazione) rimette all´esistenza
negata e affermata allo stesso tempo e impone il dubbio su questa presenza
ossessiva che sottintende probabilmente un motivo di ricerca affannosa:
possiamo affermare che le origini esistano? A cominciare dalla loro definizione: cosa sono
le origini? Questo tema diventerà un
leitmotiv del poeta di Affori, nella sua attività incansabile di ricercatore
multiforme: poeta formidabile e traduttore di tavolette mesopotamiche e,
ventenne, dell´Enuma Elis (una delle prime Teogonie del Medio Oriente,
che racconta le origini da um punto di vista altro), del Pentateuco (che
Villa ha interamente tradotto e che, insieme all´intera Odissea mostra un
tributo di lavoro notevole e distribuito durante tutta la sua vita. Villa vive
la ricerca delle origini tramite la sua attività instancabile. L´idolo di
Amorgos appare evocato nella
poesia Linguistica e ocupa immediatamete un posto decisivo, tramite la sua evocazione,
tramite la sua figura: quella che ci guarda essenziale e impassibile, ieratica
ma costruita com pochi cenni è una figura di uma modernità gritante com i suoi tratti
cosí leggeri. Si tratta di una figura femminile, diversa da altre immagini
della fertilità. La femminilità è solo accennata nell´essenziale. Senza bocca e
senza occhi (sembra che questi fossero dipinti con vernice bianca, persa nel
tempo). E qui la negazione (“Non c´è piú origini”) si scontra contro la
presenza ostensiva delle origini. Ciò che è sconvolgente è che l´idolo di
Amorgos e l´insieme dell´arte cicladica che lo circonda, potrebbe
perfettamente essere (ancora) confusa con l ´arte moderna, antifigurativa, di
tratti essenziali: Picasso, ma altri pittori. La civiltà cicladica è del secondo-terzo
millennio prima della nostra era, precede quindi la civiltà greca ed è stata
scoperta verso l´inizio del Novecento. L´evocazione dell´idolo di Amorgos
sorprende noi lettori. È evidentemente la risposta alla domanda se ci sono
ancora le origini. LA risposta non è unívoca: ci sono le roigini e, allo stsso
tempo, esse coincidono com la nostr era. Al tempo della redazione della poesia,
il tema delle origini veniva sollevato nell´ultimo testo conosciuto del filosofo
tedesco Walter Benjamin (“sul concetto di storia”), che è del 1940, uma data
vicinissima a quella di Linguistica. Anche li in forma del tutto
contraddittoria, l´immagine dell´Angelus Novus (il quadro di Klee), una figura
appunto, appare dentro al testo e capta l´attenzione Benjamin la interpreta, paradossalemente,
come una figura che si rivolge al passato ancestrale e non al futuro, il
passato delle origini. Negli anni ´50 Emilio Villa aderisce alla Fondazione
Origine (a partire dal gruppo Origine con Mario Ballocco, Alberto Burri,
Giuseppe Capogrossi e Ettore Colla) e che durò, insieme alla revista AZ
fino al 1958.
Il tema di questo brevissimo mio contributo è um´inizio di lettura di
tre testi di Villa, esaminati (superficialmente) dal punto di vista della língua,
dello stile: si tratta di una lettera a Pietro Maria Bardi, “elettrificare le
foreste”, senza data, Mata-Borrão para Flavio Motta (del 1951), uma poesia
scritta in língua brasiliana, notevole impasto surrealista e um testo dedicato
a Alberto Burri (degli anni sessenta).
“Mata-borrão para Flavio Motta”
(letteralmente “Carta assorbente” per l´amico e professore dell´Univerità,
Flavio Motta. Datato Bahia
1951 questo testo è la miglior prova di uno sforzo creativo che presenta una
sonorità e um´effervescenza che nasce evidentemente dalle performance futuriste
(Balla, lo stesso Marietti) fino a Antoin Artaud. Il texto, quindi, non va solo
letto e recitato, ma deve essere oggetto di uma specifica performance, tenendo
conto dell´ibridismo fra italiano e brasiliano come Villa tiene a
sottolineare [ citare] . La vitalità ítalo-brasileira è piena di
vitalità: (riportiamo solo una parte della poesia, per motivi di spazio): la
pronuncia è ítalo-brasiliana che si addice al sottoscritto:
MATA-BORRÃO PARA FLAVIO MOTTA
eu diria l’m encantado, e então
uma nuviosa designação de continentes involuntarios por jogos
nasais, fundos jogos, acende
ao lonje entre os anos desperdidos itinerantes
como faiscas de amarguras
abdominais, como bichos de cristal na nuca muda, acende
o nome mais amado mais miolo mais milagre
e o quem diz: “agora!”e o quem
cai no corte mítico do mundo, nas luminosas
trovejadas generações dos nomes: léxico
jejum e fresco come o prado de espinafre de trevo
no recóncavo, pálidas requisições de ecos
e espirros e réplicas, anforas anoitecidas
no pulmão gigante, palpitantes gengivas, cenoiras
africanas, paleoafricanas, protoafricanas, coxas
rasgadas o abertas, polpas de abóboras
ideais: agora, agora. Nam rectitudo
per se est phallica, truncada também, devagazinha:
[...]
o
remo corta em dois as cinzas
dos vivos e as cinzas dos sons, como
na páscoa dos continentes cortó o Brazil e a Angola,
cortó as arvores da ciencia e as arvores da loucura
peregrinante, cortó o tubarão em dois espelhos
a tromba grande: não agora.
Bahia, 1951
Il
testo è composto da tre sovrapposizioni linguistiche: al portoghese-brasiliano
si aggiunge l´italiano (per es. L´m,
che è la emme di Motta) e fino al latino (nam rectitudo per se
est phallica), dove il testo irride la moralità (rectitudo), mescolandola
con l´aggettivo fallico. Del resto, la frase con la citazione latina
termina con il diminutivo típico brasiliano e, specialmente, della regione di
Bahia (truncada também, devagazinha). Da notare che ci sono accenni all´elemento
dell´origine (cenoiras africanas, paleoafricanas, protoafricanas).
Ed anche “cai no corte mítico do mundo” che rimanda alla formazione dei
continenti: “na páscoa dos continentes cortó o Brazil e a Angola”. Da notare
che l´affermazione concitata dell´avverbio di tempo: “agora, agora” assomiglia
al tempo dell´adesso (Jetztzeit) di Walter Benjamin, nel testo citato sulla
storia (“La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costruito
dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell’adesso”)
Di cosa è fatta la língua di Villa? Qual è
il suo stile? La risposta non è semplice né univoca, ma si potrebbe dire che la
stessa língua è viva, si impone, manifesta la sua autonoma vitalità che
straborda nella lettura nel mondo (e lo trasforma). La língua di Villa manifesta
una sua sonorità strabordante:
“uma nuviosa designação de continentes
involuntarios por jogos
nasais, fundos jogos, acende”. Uma “nuviosa designação” (una nebulosa /
fantasiosa designazione) di continentes involuntários (di continenti
“involontari”, nati da fenomeni imprevidibili. “Jogos nasais, fundos jogos” amplificazione
delle nasali cosí tipiche dei suoni della língua brasiliana). E con
questo transforma l´orecchio dell´ascoltatore, forma um nuovo impsto,
trasgredisce le regole della língua brasiliana e italiana. Quindi, in piccola
parte, transforma il mondo.
Si può dire che la permanenza su suolo brasiliano e la sua cultura hanno
plasmato Villa e il periodo dell´irradiazione di questa influenza precede
paradossalmente e segue i due anni in cui effettivamente Villa è stato e ha
operato in Brasile, cioè (fino a prova contraria, il 1951 e il 1952. Il
contatto con Pietro Maria Bardi (che Villa conosceva fin dagli anni trenta) è
naturalmente decisive e deriva dagli anni trenta. L´impegno di Villa nella
Galleria Palma, vera e propria fucina delle esposizioni didattiche (almeno
tre), preparate a Roma nei più precisi dettagli (dalla concezione generale, al
reperimento delle immagini, alla confezione delle didascalie) e inviate in
Brasile dal 1947 al 1950 puó essere considerate un legame con il Brasile “per interhost
persoa”.
Se ogni testo (che sia poesia, critica o eistolare)
puó essere considerato testo di guerra, poiché il suo obiettivo è sovvertire la
tradizione. E questo è possibile solamente utilizando strumenti di guerra. Le
lettere di Villa (di cui daremo un esempio) superano l´informazione e si trasformano
in manifesti di azione. Uma lettera senza data, della metà degli anni ´60 é um esempio.
[Elettrificare le foreste: una lettera-manifesto]
Agire,
parlare, scrivere, dipingere e vivere mostrano insieme le diverse camaleontiche
forme di espressione di Villa: traduttore, artista plástico, critico,
organizzatore. Il linguaggio si adegua allo scopo che è múltiplo e mai inteso
come solo informativo. Il testo in esame è una missiva che Villa scrive dopo la
sua esperienza brasiliana al suo interlocutore privilegiato, Pietro Maria Bardi,
mítico direttore del MASP (il Museo d´arte di San Paolo). Il testo contiene
tutta la pressione del make it
new formulata da Ezra Pound e della visione della San Paolo degli anni
trenta, descrita da Lévy Strauss. Ma c´è anche l´impasto sonoro, visivo e
costruttivo dell´urgenza del messaggio, che diventa un messaggio sull´urgenza.
“Carissimo Bardi”[1],
scrive Villa. La data non è specificata, ma siamo sicuramente alla metà degli
anni sessanta. La sua esperienza brasiliana, a cui si è dedicato anema e
core, giorno e notte, con tutte le sue energie, è materialmente conclusa,
anche se idealmente ancora viva nella memoria e nelle aspirazioni. Si tratta
del biennio 1951-52 (le date dovranno essere verificate), preceduto da un
lavoro intensissimo nella galleria Palma
di Roma, fucina delle “esposizioni didattiche” preparate in Italia e poi inviate
prêt-à-porter in Brasile, pronte da montare e esibire al MASP. Questo lavoro
instancabile e entusiasmante, insieme a Monotti, braccio destro di Bardi, e alcuni
altri [..], consisteva nell´elaborazione
di piani di vendita di quadri (la base materiale delle attività), produceva idee
creava riviste e tesseva contatti. Ed adesso, in questa lettera, quindici
anni dopo, è di un´impresa vera,
grossa (termine tipicamente italiano) che vuole parlare.
“Ti avevo aspettato per l’estate, son andato a Firenze,
contavo di passare qualche giornata insieme, poi ti aspettavo adesso, dopo la
tua cartolina. Dove ti ricordavi anche di una mostra di poesie che si doveva
fare al museo [MASP]. E son passati 15 anni. Volevo anche proprio parlarti di
una cosa così, cioè proprio di una impresa, una vera, grossa, che dovremmo fare”.
siamo alla metà degli anni sessanta (sono passati 15
anni, dunque, dice Villa: dopo il soggiorno brasiliano di Villa). Che siano
passati tanti anni, in fondo non è per lui e questa proposta rilevante. Il
tempo viene annullato:
“Chiamiamo a raccolta tutti gli operatori di poesia della
maggiore avanguardia del mondo (una cinquantina, sono tutti amici, son tutti
sotto mano, in Europa, in USA, in America, in Giappone), + realizzatori,
registi, operatori, tecnici. Li aduniamo a S. Paolo (Museo de Arte, meglio, o se no, dovunque).”
Cos´è il mondo? Una manciata di pesi? e gli artisti sono una
cinquantina, tutti amici, [tutti] sotto mano. Dove realizzare
l´evento: Evidentemente nel Museo di arte di San Paolo (di cui Bardi è il
direttore), il Masp, oppure no: dovunque.
È qui che la missiva acquista il tono di una poesia
sonora, avanguardistica, audace:
“Li registriamo in nastri, riproduciamo in elettronica,
transistorizziamo, fotocellularizziamo, discografiamo, cinematografiamo (sia
poemi in lettere che in happening): “
Per far luce sull´iniziativa
straordinaria occorre sciorinare dei verbi altrettanto straordinari. Neologismi:
riproduciamo in elettronica, transistorizziamo, fotocellularizziamo,
discografiamo, cinematografiamo. In poche dense corpose stimolanti
entusiasmate righe Villa da corpo alla sua proposta: un vero manifesto per un
evento inusitato (inaudito, mai visto) eppure semplice. In fondo, gli artisti
di avaguardia sono “tutti amici”.. Qualcosa di impensato, che esprime il fior
fiore della modernità che si addice a un Brasile visto come piattaforma ideale
per queta proiezione postmoderna: proiettato verso il futuro (purtroppo –
diremmo noi - le idee precorrono i tempi
e a volte li contraddicono).
E conclude in un crescendo di indicazioni,
di descrizioni, di crescita (nei
porti, per le strade, i locali, i magazzini), di inventiva (i megafoni
sugli alberi per sonorizzare le foreste, juke-box, per dischi innalzati
su pali telegrafici: un festival universale di dimensioni audite, inaudite:
“poi, insieme, mostriamo edizioni di 15 anni di
avanguardia (invenzioni, cimeli, di tipografia o d’altro tipo). Con questo
materiale creiamo i nuovi, inauditi, non mai auditi, orizzonti sonori, di
logos-phonos, con megafoni piazzati sugli alberi, sonorizzando foreste,
grattacieli, animando gli smog, e poi juke-box per dischi, sui pali
telegrafici, nei porti, per le strade, in locali, magazzini, e insomma nuovi
panorami sonori cittadineschi. Un festival universale...”
La natura
viene chiamata a collaborare, le parole di Villa mettono già in movimento
l´idea. Evidentemente, non si tratta di una semplice lettera. È un po´come la
pipa di Magritte. Nella sua sinteticità funge da detonatore di una vera e
propria sommossa: degli strumenti a disposizione (juke-box), della natura
(sonorizzando le foreste). Non è una normale missiva, ma un vero e proprio manifesto
sintetico, che cosí conclude:
“Ad ogni modo, è una cosa che ho pensato di fare con te. O
niente. Pensaci solo un momento. “
Ho pensato di fare – dice Villa - o niente. Un
rinculo e uno scarto, che mettono in risalto il carattere enorme della
proposta. Se l´iniziativa non si farà – sembra dire questo o niente, il
manifesto è stato stilato e inviato e verrà eseguito in altra forma
dall´instancabile poeta, pittore, critico, traduttore che è Villa: uomo di
poesia, di arte, di arte-vita. È un manifesto che potrà essere raccolto più
tardi.
La lettera si conclude con un PS che apre un nuovo capitolo
di interesse (oltre a quello della data), perché contiene la problematica se
Villa è o no entrato in contatto con il gruppo noigandres (formato da
Haroldo e Augusto de Campos e Décio Pignatari).
“[PS ] Certo, di Noigandres
e Praxis ho visto e avuto parecchio...”
Ti saluto, con tanto affetto.
Ciao
tuo Villa
“Noigandres” è una
parola di una canzone del trovatore Arnaut Daniel (che Ezra Pound aveva
innalzato a modello dei primordi dela lirica): il gruppo dei giovanissimi fondatori
della poesia concreta (Augusto e Haroldo de Campos e Décio Pignatari) lo
avevano immediatamente eletto a loro símbolo (all´inizio degli anni Cinquanta,
quando Villa era a San Paolo). Noigandres è un nome del tutto enigmático
(prodotto del “trobar clous”)– Emil Levy aveva dichiarato a questo
proposito: [Noigandres] Now what the DEFFIL can that mean?)...[2]
Stile
e língua travalicano la forma (la lettera). Scelta delle parole, della loro
sonorità, del loro peso, del loro stile. Come in Mataborrão para
Flavio Motta (questa sì una poesia) che, in anticipo su future produzioni
plurilinguistiche, è stata scritta da Villa nel 1951 in un ítalo-portoghese brasiliano.
Villa la chiama língua brasiliana e la sua fruizione è legata all´ascolto,
apprezzandone i suoni misteriosi, “brasiliani” e le evocazioni
L´indicazione
dela data e del luogo testionia uma presenza di Villa in Brasile a quel momento e fa propender ela sua permanenza al 1951-´52
[1] Senza l´aiuto di Bruno Giovannetti,
fotografo e giornalista, che ha fotografato alcune delle lettere di Villa, non
sarebbe stato possibile questo commento. La lettera era stata parzialmente tradotta in un numero speciale
della rivista Cult.Revista brasileira de
Literatura. Número 9 [1999], in un. Dossiê
dedicado a Emilio Villa.
[2] http://www.antoniomiranda.com.br/poesia_visual/noigandres_origem_e_significado.html
Por uma literatura como cura?
Literatura é tudo. Literatura é vida. Literatura é história, memória, rememoração, entretenimento, insight, inspiração, reflexão, fragmento, evento insignificante, inspiração, paixão, reflexão, descrição e fantasia, utopia e distopia, o alfa eo ômega. Literatura é luta contra a ignorância e o obscurantismo. Literatura é perto, direto, dentro, epidérmica e emocional. Literatura, portanto, pode significar também a cura pela palavra, assim como a psicanálise é “cura pela fala”, segundo a oportuna definição da paciente de Freud Anna O. Procedimento e objetivo são – naturalmente - bem diferentes. A psicanálise cura, no sentido terapêutico e resolve, dissolve e redime, segundo a fórmula na Interpretação dos Sonhos. A literatura acumula, edifica, cria, superpõe camadas em suas arquiteturas, para que - na leitura - elas sejam desvendadas, fragmentadas e, posteriormente, reconstruídas, recriadas: na interpretação. Ambas se erguem em palavras. Palavras como contos, narrativas, mitos, lendas, parábolas, modelos de comportamento: Romeo e Julieta, Paolo e Francesca, Édipo, Antígona.
Boccaccio, o autor do Decameron, antes de descrever a maior pandemia no continente europeu da época (a peste negra de 1348, que matou 1/ 3 da população de seu mundo), relata seu encontro com a morte, por meio de uma profunda melancolia, uma grande depressão, motivada por grandes desilusões amorosas. “Àquela minha enorme tristeza, deram tanto alívio e consolo os agradáveis contos narrados por alguns dos meus amigos, que tenho certeza, por isso, não ter morrido”. Assim ele indica uma possibilidade: que a literatura possa ser considerada uma cura, pois ela pode se tornar um espelho, uma base para uma profunda reflexão e conhecimento de si mesmo, pode trazer ânimo, visão do conjunto, perspectivas diferentes. Boccaccio vislumbra a morte em sua experiência: a terrível peste e, depois, a descreve, na moldura de seu Decameron, mas identifica o amor e o erotismo como sua superação, antecipando, séculos antes de nossa era, a gigantesca contraposição entre Eros e Tánatos. Literatura como cura, portanto, não como meio terapêutico diretamente, mas como acumulação de saber e conhecimento, a partir do qual nós – os leitores – podemos empreender nossas escolhas, afirmando uma ética nossa. Uma ética da leitura.
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